Ascoltare: uno strumento fondamentale per crescere e far crescere gli altri
Ascoltare qualcuno sembra così scontato, semplice. Crediamo che basti poco, che sia sufficiente dare all’interlocutore la percezione di essere concentrati sulle sue parole. La maggior parte di coloro che lo credono, sono dei pessimi ascoltatori. Imparare a farlo sul serio, con un paio di trucchetti, ti aiuterà a fare la differenza: essere estremamente efficace nelle conversazioni e migliorare le performance del tuo team.
Quante volte ci troviamo di fronte a un lavoratore che si lamenta, a un collega che si confida, a un capo che ci consiglia? E quante volte possiamo ascoltarli, ascoltarli davvero? Quante volte crediamo che sia sufficiente restare immobili, in silenzio, lasciar parlare il nostro interlocutore e convincerci del fatto che ci siamo, che stiamo dando un contributo alla conversazione semplicemente sentendo ciò che hanno da dirci? Spesso crediamo infatti di essere bravi ad ascoltare gli altri, che sia semplice, che basti guardarsi negli occhi e concentrarsi sulle parole, e ripetere per filo e per segno ciò che ci è stato detto, a riprova della nostra attenzione, condita con qualche suono d’assenso (“hmm-hmm”) e un cenno con il capo ogni tanto. Spesso crediamo che il concetto di ascolto come limpido atteggiamento passivo sia compatibile con lo stile di vita moderno, con il saper comunicare nel modo più efficace nel minor tempo possibile. Tuttavia, a discapito di chi si rivede in questi termini, un buon ascoltatore è ben altro; e per utilizzare le parole di Piero Ferrucci, quando l’ascolto diventa impossibile, la relazione muore[1].
Far sapere agli altri che li stiamo ascoltando, infatti, non è sufficiente, ma dimostrarlo è ciò che davvero distingue un great listener da un interlocutore annoiato. E allora, cosa fa davvero un great listener? Cosa lo rende tale?
Una ricerca condotta da Jack Zenger e Joseph Folkman, esperti nel settore del coaching manageriale, nel corso di un programma di sviluppo della leadership, si sono focalizzati, tra le varie soft skills, proprio sull’ascolto, individuando le direttrici che guidano il comportamento di un buon ascoltatore. Sono emersi quattro punti fondamentali.
Per prima cosa, contrariamente a quanto si crede, ascoltare davvero è tutt’altro che restare in silenzio. Un buon ascoltatore infatti pone domande, dando nuovi stimoli al proprio interlocutore, aprendo uno spazio alla crescita interlocutoria, vera fonte di idee e ispirazione. In questo caso la conversazione assume un valore aggiunto, che va al di là del semplice e passivo racconto. Inoltre, è particolarmente importante saper gestire la lama affilata della critica. Il buon ascoltatore non sminuisce mai le idee di chi le presenta; al contrario, la conversazione è un’esperienza positiva ed assume i connotati di una sana iniezione d’autostima, terreno fertile per lo sviluppo di un’idea, un progetto o un’opportunità.
Il terzo punto è fondamentale, ed è particolarmente complicato da mettere in pratica. La conversazione non è una competizione, non è il momento per dimostrare la propria supremazia oratoria e “vincere” con le proprie argomentazioni a discapito dell’interlocutore. Al contrario, il dialogo è sinonimo di cooperazione. Il buon ascoltatore ha l’onere di veicolare la percezione dell’altro verso una sensazione di collaborazione, seppur mettendo in discussione. Da qui, l’ultimo punto: dare costantemente feedback. Un buon ascolto cammina a braccetto con la capacità di stimolare il percorso comunicativo, spianando la strada al miglioramento e alle alternative[2].
Qualcuno direbbe: “È ovvio! Ma ci sono vari modi di ascoltare, ci saranno vari livelli di ascolto”. Beh, è assolutamente vero, non tutte le conversazioni necessitano dello stesso livello e della stessa concentrazione. A questo punto il problema si sposta sul capire quanti livelli ci sono, come si sviluppano e come orientarsi nella scelta a seconda della nostra controparte e dei temi trattati.
Gli stessi Jack Zenger e Joseph Folkman, nell’ambito dello stesso studio riportato sopra, hanno individuato sei livelli essenziali:
il primo livello sta nella capacità di creare l’ambiente giusto, per dare al nostro interlocutore quel senso di comfort emotivo nell’esprimersi liberamente. Un ambiente ostile uccide la conversazione sul nascere.
Livello due, focalizzazione. Molte volte lasciamo che telefoni, PC ed altre cose ci distraggano durante una conversazione e, se non lo fanno, il messaggio che mandiamo al nostro interlocutore è inevitabilmente negativo. Chi ci parla, lo fa perché vorrebbe essere ascoltato, e il nostro modo di dialogare proietta il nostro interesse nella sua percezione di ciò che dice. Anche in questo caso, non mostrare alcun interesse guida una potenziale conversazione costruttiva verso un destino distruttivo.
Il terzo livello si concentra sulla partecipazione attiva: fare domande e dare feedback è il modo più intelligente per arricchire qualsiasi conversazione e, statene certi, chiunque ci stia parlando non potrà fare a meno di notarlo.
Al livello successivo le cose si complicano: il quarto livello infatti ha a che fare con il linguaggio non verbale. Il nostro interlocutore inconsciamente qualificherà le nostre espressioni, i nostri gesti, la nostra voce e persino la postura. Il suo cervello tradurrà queste informazioni in un maggior o minore interesse, partecipazione e credibilità dell’ascoltatore.
Il penultimo livello, il numero cinque, riguarda l’empatia, e quindi la capacità di emozionarsi (no, non dovete piangere!) di fronte alle parole di chi ci sta dicendo qualcosa. Tutto sta nell’identificare la dimensione emotiva del nostro interlocutore, nel riconoscere i propri sentimenti, comprenderli e tradurli in un approccio comunicativo. La parola d’ordine è “non giudicare”.
Ultimo livello, stimolare l’interlocutore. Porre domande e guidare il dialogo verso lo sviluppo di nuove idee, una maggiore comprensione dei presupposti che le sostengono e portare infine la conversazione ad un grado di consapevolezza e arricchimento[3].
A questo punto, abbiamo tutte le carte in regola per essere degli ottimi ascoltatori. Ma, quali sono i vantaggi nel farlo? Cosa ottengono i manager che sono great listener rispetto a chi non lo è?
Anche in questo caso, una ricerca scientifica, della Hebrew University di Gerusalemme e del King’s College London, pubblicata su Psychology of Aesthetics, Creativity, and the Arts, ci dà la risposta: i manager che ascoltano sono più bravi a stimolare la creatività del proprio team.
Per la precisione, 700 dipendenti sono stati intervistati sul tema, e coloro che avevano la percezione di essere ascoltati dal proprio manager a lavoro sono stati maggiormente propensi a considerarsi creativi. Il che inevitabilmente si traduce nella qualità del proprio operato. Al contrario, ciò non accadeva a coloro che comunicavano con manager meno propensi all’ascolto e al dialogo.
Essere ascoltati conferisce un senso di sicurezza psicologica che a sua volta consente di focalizzarsi sulla propria creatività, lasciandoci la mente libera da ansie e pensieri scaturiti da un bad listener[4].
Note
[1] Dr.ssa Simona Rao il 13 Novembre 2012 – 9 caratteristiche dell’ascolto efficace; https://www.davidealgeri.com/9-caratteristiche-del-buon-ascoltatore/
[2] Di Eva Campi 21 settembre 2021, Il sole 24ore, Imparare ad ascoltare, questa è la via per diventare leader migliori
[3] What Great Listeners Actually Do by Jack Zenger and Joe Folkman, August 19, 2019
[4] Redazione ANSA ROMA 22 febbraio 2019 Se il manager sa ascoltare, il team lavora di più e meglio)
Articolo a cura di Salvatore Caputo
Mi chiamo Salvatore, sono un HR Manager e sono laureato in giurisprudenza. Fin da sempre, ho aspirato ad un contesto manageriale, ma la mia vera aspirazione è condividere. Sì, perché credo che non si lavori mai per un’organizzazione, alla fine si finisce sempre ad esserne parte. Credo che alla fine quell’organizzazione vive di ogni risorsa, ed ogni risorsa ne è il riflesso, professionale certamente, ma anche umano, soprattutto umano. Credo che sia fondamentale riconoscersi in quel riflesso.