Benedetti siano gli errori che ci fanno crescere!

Su “CEO World”, un prestigioso magazine on line americano di diffusione internazionale, ci siamo imbattuti in un interessante articolo scritto da un giovane studioso italiano, Riccardo Pandini[i], che si è soffermato sulla genesi dell’errore e sulla sua importanza per favorire la nostra crescita personale e professionale.

Attenti al perfezionismo

Nella nostra epoca – ma in realtà anche in passato – l’uomo ha sempre avuto paura degli errori. Ha cercato in ogni modo di evitare di sbagliare senza riuscirci. Questa tensione verso un “perfezionismo” difficile da raggiungere ha messo e mette tutti in una condizione di stress continuo, sempre sotto controllo e sotto pressione.

Temiamo il giudizio delle altre persone, quando si accorgono degli errori che abbiamo commesso, ma siamo i primi a deplorarli e stigmatizzarli negli altri. Si crea così un circolo vizioso in cui l’errore, in qualsiasi forma si presenti, incombe come un macigno sui rapporti tra le persone. E la reazione frequente è quella di difendersi dall’errore, occultandolo, minimizzandolo, ignorandolo. L’errore, invece, non solo è utile ma ci consente di imparare e crescere se siamo capaci di comprenderne la genesi, di superarlo.

Superare il perfezionismo

A Riccardo Pandini abbiamo voluto porre tre domande alle quali l’Autore ha gentilmente risposto.

Il perfezionismo è un atteggiamento che in genere è caratteristico di chi gestisce il potere. Il non ammettere i propri errori viene considerato una caratteristica dell’uomo (o della donna) forte, perché in tal modo metterebbe in evidenza i suoi limiti. Capita nei governi, nella gestione delle imprese, ma anche in famiglia o in certe relazioni personali. Tranne il Papa – che lo ha fatto in qualche circostanza – è davvero difficile che personaggi che hanno autorità ammettano di aver sbagliato. Perché abbiamo così paura di ammettere di essere umani e quindi fallibili? Questo comportamento legato al potere diventa molto pericoloso e la storia ce lo ha spesso confermato.

Il suo cappello introduttivo è molto interessante e drammaticamente vero. Mi sento, mio malgrado, di dover estendere questo concetto su tutta la nostra società. Di seguito provo a spiegarmi.

Papa Francesco è un caso eccezionale, è stato in grado di chiedere scusa a nome della chiesa per errori commessi anche prima del suo pontificato. Per fortuna, come accennato da lei, non è l’unico capace di fare gesti di questo livello.

Onestamente, credo che questa paura sia parte della nostra società. Infatti, purtroppo, il non ammettere i propri errori è caratteristica comune di tutti: dalle persone forti (sia di carattere che di ruolo) alle persone, per così dire, comuni. Aspetto non secondario riguarda il fatto che la persona che ricopre certi ruoli, ha una maggiore visibilità verso gli altri, e quindi si nota di più ciò di cui stiamo parlando. E forse si, rischia di essere più pericoloso. Ma credo che questa caratteristica sia diffusa nella società tutta. E penso che ciò derivi da questa apparenza della perfezione che vogliamo far credere agli altri, anche se poi sappiamo che la realtà è un’altra. Temiamo il giudizio altrui e vogliamo impressionarli, a ogni costo. La semplicità sembra non esistere più e quasi ogni cosa viene fatta più per l’impressione altrui che per noi stessi.

I social network, per esempio, qui calzano a pennello. Nati con la bella idea di tenere connesse persone geograficamente distanti, sono diventati la vetrina per mostrare agli altri quanto siamo felici, perfetti, ecc. anche se poi la realtà è diversa e più complessa.

Come reagisce il cervello all’errore

Lei parla di due reazioni all’errore. Una che proviene dall’interno di noi stessi, molto più rapida. L’altra come feedback esterno un po’ più lenta. Potrebbe approfondire questo aspetto?

Come citato nell’articolo, l’aspetto molto interessante è che esistono delle aree/regioni specifiche del cervello in grado di emettere dei segnali quando commettiamo degli errori. E l’analisi è stata svolta su queste due tipologie di errore.

La prima, nota come Error-Related Negativity, si verifica quando siamo noi a commettere l’errore. Nel momento in cui ci rendiamo conto di averlo commesso, il nostro cervello emette un segnale entro 80 millisecondi che ci provoca un immediato rallentamento automatico dei nostri movimenti. Ciò è dovuto al fatto che, in quel preciso momento, tendiamo ad analizzare le decisioni in modo più dettagliato per ottimizzare il successo. In questo breve lasso di tempo, abbiamo la possibilità di fermare l’azione errata intrapresa e quindi di evitare di portarla a termine e, se ancora possibile, di correggerla.

L’ERN è considerato un riflesso di un sistema di monitoraggio delle prestazioni, e quindi di un sistema che rileva gli errori e regola il comportamento in modo conseguente. Nel contesto di un sistema di monitoraggio delle prestazioni, il fatto di commettere un errore fa riflettere la discrepanza tra la risposta data e la risposta corretta.

Un esempio che può aiutare a comprendere meglio è quando stiamo passeggiando e, a un bivio, decidiamo di girare a destra. Appena imboccata la strada, ci viene un dubbio sulla scelta fatta. In quel preciso momento, il nostro cervello ci restituisce un input, e noi rallentiamo notevolmente la camminata. Ciò ci permette in tempo reale di effettuare una verifica delle nostre azioni. Qui capiamo che la strada giusta era l’altra e rimediamo alla nostra azione.

Il secondo tipo di errore avviene quando ci rendiamo conto grazie a un feedback proveniente dall’esterno. In questo caso, il cervello emette un segnale di Feedback- Related Negativity entro un tempo di 250 millisecondi dopo aver ricevuto l’informazione. Ciò ci permette di modificare la strategia per ottenere un risultato migliore in futuro. Questa negatività si pensa rifletta un errore di previsione, come potrebbe essere un risultato migliore o peggiore di quello atteso. Nel dettaglio, questo errore può essere in due

direzioni: quando la previsione supera il risultato e quando, invece, la previsione fatta risulta negativa rispetto al risultato.

Esempio immediato riguarda un esame scritto all’università. Appena terminato il compito e dopo aver risposto a tutte le domande, crediamo di averlo fatto in maniera esaustiva e completa. Una volta ottenuto l’esito dal professore, il nostro cervello ci restituisce lo stimolo che nasce da questo stimolo esterno.

Entrambe le tipologie di errore sono collegate a delle aree responsabili delle nostre decisioni e azioni, permettendo una flessibilità mentale e strategica in grado di tenere conto dell’errore commesso.

Ce la facciamo ad ammettere con onestà l’errore commesso?

Il fatto però per così dire rivoluzionario è la risposta a questi stimoli: nel primo e nel secondo caso siamo in grado di ammettere di aver sbagliato? Il nostro “amor proprio” (egocentrismo) ce lo consentirà o faremo finta di non essercene accorti (come purtroppo capita spesso)? È questo atteggiamento insito nella nostra natura o forse è un portato di una certa cultura, educazione, ecc.?

Il nostro cervello reagisce in maniera naturale e istintiva a questi errori, facendoci assumere di conseguenza dei comportamenti specifici. Per questo motivo, la capacità di essere in grado di ammettere, a sé stessi e agli altri, di aver sbagliato è praticamente arbitraria. Saremo noi a decidere se, una volta verificatesi questo processo naturale, vorremo ammettere o meno l’errore oppure fare finta di niente.

L’aspetto molto interessante riguarda però la capacità di apprendere dai nostri stessi errori. Questa natura insita in noi già ci evidenzia come non siamo perfetti e come lo sbaglio, nei limiti, sia utile se siamo capaci di coglierne l’insegnamento. E per migliorare, solitamente, bisogna sempre partire dall’ammissione dell’errore e dalla sua analisi.

Che il nostro cervello sia fantastico e ci permetta di migliorare nonostante la voglia di nascondere i nostri errori, per vergogna o altri motivi, sia agli altri che a noi, potrebbe intaccare questo processo di apprendimento. O forse è meglio dire che lo rende meno efficace, rischiando di farci commettere più volte lo stesso errore.

Sinceramente, se questo atteggiamento sia alla base della nostra natura o sia qualcosa che si è evoluto nel tempo, non saprei dirle. Sicuramente, ad oggi, fa parte di noi, con tutte le conseguenze negative del caso.

Chiudo sull’egocentrismo da lei citato, giustamente associato anche all’amor proprio. Purtroppo, fin dalla scuola, le istituzioni tendono a valutarci in maniera non adeguata e ciò si riflette nel nostro modo di pensare e agire. Spesso si assiste a situazioni dove si studia non per imparare, ma per ottenere quel voto specifico che è segno di “conoscenza”. Forse è anche per questo che diverse aziende (e non solo) stanno proponendo sistemi di formazione completamente diversi.

Note

[i] Riccardo Pandini è stato collaboratore della rivista di neuroscienze “State of Mind” e tutor accademico presso l’Università Bicocca di Milano. Attualmente lavora a Londra e collabora su temi economico-aziendali per la rivista americana “CEO World Magazine”.

 

Articolo a cura di Ugo Perugini

Profilo Autore

Ugo Perugini. Giornalista, blogger, collaboratore di “Vendere di più”- https://www.venderedipiu.it/, “Az Franchising” - https://azfranchising.com/az-franchising-magazine/ -, DM&C - http://www.dmcmagazine.it ; HR on line - www.aidp.it/riviste/indice-hronline.php. In passato, ha collaborato con “Beesness”- www.beesness.it ; Together HR, blog di Sky Lab http://www.togetherhr.com/bloghr-blog-risorse-umane/- “Senza Filtro” https://www.informazionesenzafiltro.it e altre pubbllicazioni
Il blog che cura è https://capoversonewleader.wordpress.com/

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