Business e HR: Imparare a disimparare

Dove eravamo quando il benessere organizzativo si misurava esclusivamente con il profitto? Di cosa ci occupavamo nel concreto?

Sono domande che ogni tanto affiorano nel mare dei ricordi. Con molta probabilità discutevamo di grandi progetti e in ognuno di questi era presente la parola sviluppo, poi si argomentava anche di faraonici percorsi formativi con l’obiettivo di favorire il cosiddetto Change Management, parola criptica come può esserlo, che so, il Legislatore o il Contribuente.

E anche le persone erano nei nostri pensieri, anzi per la precisione erano collocate al centro di qualunque progetto con tanto di slogan che ne rafforzava il concetto e costituiva un motivo di vanto da sbandierare ai competitors.

Di tempo ne è passato e certi slogan restano sempiterni pur mutando il contesto nel quale si opera. Un contesto caratterizzato da una diffusa contrazione dei ricavi le cui cause sono le più svariate e che non entrano tutte giocoforza sotto il capiente ombrello rappresentato dalla parola crisi.

Personalmente guardo con un po’ di diffidenza chi avverte la necessità di rimarcare con puntualità che le persone sono al centro di qualsivoglia progetto. Sarà deformazione professionale ma il fatto di centrarle mi sa tanto di chi vuol prendere bene la mira e qui, nella mia mente, si aprono almeno due prospettive. La prima ha una connotazione positiva e consiste nel focalizzare l’attenzione dell’Organizzazione sul Capitale più prezioso che ogni Azienda possiede e cioè il Capitale Umano. A questa fase ci si arriva spesso percorrendo la strada più tortuosa ma di grande appeal che è quella di sperimentare modelli organizzativi e di servizio sempre più audaci, nuove frontiere di business, massimizzando magari gli investimenti tecnologici salvo poi scoprire che tutto funziona solo se ingaggiamo nel concreto le persone. La seconda ha una connotazione meno positiva ma di grande attualità: ti colloco al centro così prendo meglio la mira per poi impallinarti.

Naturalmente è una forzatura ma serve a comprendere l’evoluzione di certe teorie la cui utilità è direttamente proporzionale alla capacità di qualunque Management di gestire una delicata fase di Cambiamento. Forse in un periodo come quello che viviamo caratterizzato da profonda incertezza sia all’interno che all’esterno delle Organizzazioni si rende necessaria una vera e propria chiamata alle armi avendo il coraggio e la lucidità nell’affermare che occorre rimettere prioritariamente l’Azienda al centro e lo si può fare solo con l’apporto necessario di tutti, nessuno escluso.

Sentir parlare di Azienda al centro potrebbe suonare strano ma è un atto rivoluzionario pur nella sua disarmante semplicità. Il profitto purtroppo maschera tante cose, tende a nascondere la polvere sotto il tappeto, così si arriva impreparati al momento in cui si prende consapevolezza che esistono e sono addirittura un esercito silenzioso i cosiddetti Low Performer, persone che magari avranno avuto il loro momento di gloria e oggi vivono una conclamata fase di appannamento. O magari sono persone che come i camaleonti hanno una notevole capacità di mimetizzarsi. La differenza è che quando le cose andavano bene nessuno si prendeva la briga di andarle a stanare, ora che le cose vanno meno bene ci si accorge con scoramento che rappresentano una dimensione rilevante con la quale doversi confrontare. Non è un azzardo affermare che su una gestione oculata dei low performer ci si gioca il futuro e quindi la sopravvivenza di molte Aziende.

Vediamo di comprenderne alcune ragioni. Parliamo ad esempio di competenze.

Abbiamo speso tantissime energie per rendere le persone autonome e confidenti su processi e attività che oggi vediamo spazzate via da un forte vento di cambiamento. Su quelle competenze il mondo HR, di concerto col Business, ha costruito la propria legittimazione pensando che quella fosse la cosa giusta da fare. Non è sbagliato concettualmente, quello che stride è che quella non era l’unica strada da percorrere perché la competenza si è ben presto trasformata in un granitico alibi contribuendo a creare una corazza che i puristi definiscono più prosaicamente come una zona di comfort.

Per usare una metafora pensiamo a due tizi che ballano in una fumosa balera di provincia. Ci si può muovere una vita intera su un ristretto perimetro di mattonelle ed essere giudicati degli ottimi ballerini. Oppure si può scegliere deliberatamente di sperimentare nuovi passi di danza e di conseguenza nuove porzioni di mondo da esplorare e dove poggiare i piedi. Questa seconda ipotesi il più delle volte viene giudicata come inopportuna se non addirittura destabilizzante. In una parola ci si accontenta e tutto sommato soddisfa ogni singolo attore nel breve periodo.

Il problema è che a furia di pensare e guardare al breve siamo diventati tutti miopi. Il ruolo di sentinella, spesso affidato agli uomini e alle donne HR, si è rilevato fallace nel momento in cui non è stato in grado di avvistare per tempo il nemico. Così ci si è scoperti indifesi e vulnerabili. Quella che era considerata la vera forza, vale a dire il set di competenze che ognuno di noi si portava gelosamente dietro come la coperta di Linus, si è tramutata in un vero e proprio limite. Prigionieri delle proprie competenze, questo è accaduto.

La sfida di oggi è invece quella di andare in direzione ostinata e contraria per usare una locuzione così cara a Faber. Occorre disintermediare la conoscenza, abbiamo necessità di favorire l’ingaggio delle persone facendo loro capire a muso duro che le rendite di posizione sono terminate e che la sopravvivenza all’interno di Organizzazioni sempre più esposte verso variabili che non sempre sono controllabili è intimamente connessa alla necessità di acquisire conoscenze nuove per aumentare la cosiddetta spendibilità in Azienda.

Persone versatili, di questo abbiamo bisogno.

E’ un lavoro lungo e faticoso ma necessario, oggi più che mai. Spesso è un tipo di lavoro sartoriale, cucito addosso alla singola persona. Le probabilità di successo di un approccio di questo tipo dipendono dalla forte sinergia che deve esserci tra linea di Business e funzione HR. Ognuno per la propria parte ma con l’obiettivo comune di recuperare produttività e motivazione.

La prima cosa da fare è ridimensionare il concetto di tempo. Portare a bordo le persone (spesso parliamo di risorse con un’età anagrafica e un’anzianità Aziendale piuttosto elevata) richiede tempo e pazienza. E’ un lavoro certosino che si ispira alla lezione sempre attuale di Italo Calvino quando parlava di sottrazione riferendosi alla diatriba peso-leggerezza con tesi affascinanti a favore di quest’ultima condensate nel bellissimo saggio “Lezioni Americane” uscito postumo. E last but not least una considerazione sulla fiducia, il terreno sul quale costruire una nuova cultura della conoscenza.

Senza fiducia e senza quel necessario patto generazionale i buoni propositi sono destinati a infrangersi. Tutto questo presuppone trasparenza e consapevolezza oltre alla capacità di saper raccontare la realtà per quella che è, senza inutili giri di parole.

Diventano così attualissime le parole di un grande pensatore come Alvin Toffler o meglio futurologo (come amava farsi chiamare lui): “Gli analfabeti del futuro non saranno quelli che non sanno leggere o scrivere, ma quelli che non sanno imparare, disimparare, e imparare di nuovo”.

A cura di: Giovanni Di Muoio

Profilo Autore

Giovanni Di Muoio, esperto di Narrazione d’Impresa, ha maturato una lunga e consolidata esperienza in ambito HR. Attualmente ricopre il ruolo di HR Business Partner in BNL ‒ Gruppo BNP Paribas, in precedenza ha lavorato in SIAE e come libero professionista. Ha collaborato con diverse testate su tematiche HR e ha pubblicato cinque libri di Narrativa. Specializzato in Short Stories ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per la sua attività di scrittore.

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