Change Management: verso una gestione flessibile dei modelli organizzativi
“Il segreto del cambiamento è concentrare tutta la tua energia non nel combattere il vecchio,
ma nel costruire il nuovo”.
Socrate
Sempre più spesso si parla di “change management” in riferimento al tema della competitività delle organizzazioni, con particolare riguardo ai processi di cambiamento legati al mercato o alla clientela (per le organizzazioni pubbliche il cambiamento è sovente stimolato da processi innovativi delle procedure, introdotti da leggi nazionali o comunitarie).
L’espressione, dunque – sia che ci si riferisca al sistema delle imprese, sia che abbia riguardo le pubbliche amministrazioni – va riferita all’insieme delle attività poste in essere per la gestione delle trasformazioni occorrenti per garantire competitività ovvero rispondere correttamente alle esigenze della clientela. Si tratta di uno strumento, articolato e complesso, che manifesta un incisivo impatto non solo su quelle che definiamo convenzionalmente risorse materiali, ma anche sulle persone al lavoro, dal momento che qualsivoglia cambiamento determina dei riverberi sulle abitudini degli individui interessati allo stesso. Ne consegue che la prima, naturale reazione delle persone al lavoro si materializza in un atteggiamento di diffidenza, quando non addirittura di resistenza alla novità.
La possibilità di gestire questi aspetti umani, conseguentemente, comporta il ricorso a misure in grado di attenuare i comportamenti in contrasto con il cambiamento organizzativo.
Partendo dall’assunto che i pensieri generano le emozioni e che queste sono prodromiche ai comportamenti, che a loro volta stimolano nuovi pensieri, è agevole comprendere come presupposto necessario che, affinché il “change management” diventi davvero produttivo, è indispensabile adoperarsi affinché siano cancellate le paure del non noto prendendo le mosse dall’opportunità di condividere gli obiettivi connessi al cambiamento con i componenti dell’organizzazione.
Per concretizzare questa operatività sarà opportuno che da subito siano instaurate strategie di comunicazione[1] che facciano dialogare il management con le persone al lavoro – in quanto “clienti interni” – e queste ultime tra di loro. Si tratta di prestare attenzione a un quadro di azioni che faccia sentire tutti coloro che sono chiamati al cambiamento organizzativo parte attiva delle scelte strategiche che devono guidare l’organizzazione verso il successo.
Questa operatività viene definita “internal branding”, ben differente dallo “employer branding”, che racchiude le attività poste in essere per presentare l’organizzazione a soggetti che potrebbero essere reclutati in futuro, finalizzate al recruitement e alla fidelizzazione della forza lavoro[2].
Si deve a Musso, attenta studiosa di comunicazione del brand e conoscitrice delle tecniche di management, l’avere saputo mettere a fuoco i punti di forza che questo nuovo approccio può offrire a chi sia chiamato a gestire il cambiamento organizzativo[3]. Nella sostanza l’autrice suggerisce di coniugare le tecniche più tradizionali della comunicazione interna con quelle più dinamiche della comunicazione esterna divulgando (anche on-line) le informazioni che costituiscono l’asse portante della cultura della organizzazione (piani strategici [per le pubbliche amministrazioni i Piani integrati]; obiettivi di performance; criteri di ristrutturazione; metrica legata ai riconoscimenti connessi ai risultati conseguiti; regole per l’attribuzione di incarichi; ecc.). Per realizzare questo obiettivo risulta irrinunciabile affidarsi anche a nuovi strumenti che instaurino dinamiche relazionali con le persone al lavoro che la nostra autrice giudica opportune al fine di rafforzare la figura del “lavor-attore”[4]; dinamiche che, attraverso diverse opportunità iniziative, facciano emergere innanzitutto la relazione con la mission consentendo a tutti di abbracciare la vision che darà senso alle azioni da intraprendere.
Il management è chiamato quindi ad assolvere ad un compito, un’azione di tipo life long: cioè un processo che, in quanto tale, costituirà l’occasione per conoscere e riconoscere i “lavor-attori” permettendo ai manager non solo di lavorare alla costruzione del progetto di cambiamento ma pure di generare un clima lavorativo più sano e fruttuoso, capace di far percepire “bene-essere” nella organizzazione rendendo il dipendente consapevole e soddisfatto in quanto partecipe del proprio ruolo e trasformandolo, persino, in un “brand ambassador” dentro e fuori l’organizzazione. Il senso di appartenenza correlato alla reputazione della organizzazione si gioca anche sulla percezione che il personale dipendente ha del contesto in cui opera.
Da qui, la ferma convinzione che l’“internal branding” consente a pieno titolo di allineare al meglio gli obiettivi strategici ma, soprattutto, la collocazione delle “persone giuste al posto giusto” (job function) attraverso il superamento del modello verticistico, che per sua natura pregiudica il contatto tra le differenti posizioni rendendo farraginosi i rapporti di collaborazione tra manager e persone al lavoro.
Attraverso strategie di “internal branding”, quindi, si sostanzia la gestione dei talenti che in questi ultimi anni si va consolidando anche grazie all’attenzione verso esigenze di flessibilità dei modelli organizzativi e dei flussi di lavoro, che possono trovare giusta collocazione anche nel ricorso a progetti che rendano possibile coniugare le esigenze personali con quelle della organizzazione, come è per le esperienze di smart working.
La comunicazione finalizzata a sciogliere dubbi e perplessità, come innanzi descritta, sarebbe insufficiente laddove non accompagnata e sostenuta dagli ulteriori strumenti che consentono alle persone al lavoro di avere parte attiva nella organizzazione, vale a dire la delega e il lavoro di gruppo. Soprattutto, però ci sarà bisogno di sostenere il “change management” attraverso un percorso di formazione che abbatta i paradigmi mentali che limitano l’espressione delle qualità di ogni individuo, così da diffondere la consapevolezza che l’abbandono delle abitudini consolidate rende più efficace il lavoro del singolo e maggiorente efficiente e produttiva l’organizzazione. La chiave di volta del successo a cui tende il cambiamento deve essere di dare corpo a un piano di formazione adeguato a infondere fiducia nelle competenze di ogni individuo. Lavorare alla “ri-organizzazione” da sé potrebbe restare azione improduttiva degli effetti di efficienza e di efficacia sperati, quand’anche guardasse con interesse a cambiare, oltre che la struttura, anche i processi: dal momento che è del tutto evidente come il “change management” sia strettamente legato alla leadership e, più ancora, alla capacità dei manager di gestire i talenti per infondere fiducia nelle competenze delle persone e incrementare così la fiducia che know-how e professionalità esistenti saranno potenziati.
Si comprende il ruolo chiave che va riconosciuto alla dirigenza – in particolare a quella che presiede alla funzione della formazione – chiamata ad accompagnare i manager di linea in un processo che deve essere supportato con dati il più possibile oggettivi e con la conoscenza approfondita dei collaboratori. Il management interessato alle persone al lavoro, infatti, è chiamato a trovare il giusto equilibrio tra tecnologia e persone per fare crescere e valorizzare sempre più la “human energy” così da renderla competitiva.
Note
[1] Cfr. DE GIOSA V., DI SABATO T., Cambiare le organizzazioni, la comunicazione e gli strumenti per valorizzare le persone al lavoro, Libellula, Tricase, 2015.
[2] Lo “employer branding” prevede campagne di comunicazione on-line, attività di social networking, email marketing svolte su organi di stampa, articoli, interviste, acquisto di spazi pubblicitari su siti dedicati al recruiting e sponsorizzazione di eventi rivolti al proprio target di riferimento.
[3] MUSSO P., Internal Branding, Franco Angeli, Milano, 2007.
[4] MUSSO P., Brand Reloading, Franco Angeli, Milano, 2011.
Articolo a cura di Vanessa De Giosa e Tommaso Di Sabato