Competenze e fisica quantistica
Sono cosciente che trattiamo spesso di temi, oserei dire, inflazionati, quasi stereotipati nella loro forma di presentazione, approccio, soluzioni proposte e realizzate con più o meno successo. La letteratura è ormai piena di testi o articoli che trattano di competenze spesso confuse con le conoscenze, di training o formazione spesso confuse con lo sviluppo della persona.
La mia speranza, e obiettivo, è dare alle cose una diversa connotazione, vederle sotto una luce diversa e, se possibile, arrivare alla loro essenza, spesso nascosta e sommersa dall’abitudine di continuare a vederle e presentarle sempre nello stesso modo.
Molti di quelli che leggeranno il titolo di questo articolo sono certo che non si avventureranno nemmeno a leggerne le prime righe, altri, forse incuriositi proveranno a capire che relazione c’è fra le competenze, ormai conosciute, inflazionate e classificate, addirittura da scrivere nei curricula alla pari dei titoli di studio e il mondo della fisica dei quanti o particelle subatomiche. In meccanica quantistica si chiama quanto una quantità discreta ed indivisibile di una certa grandezza. Per estensione il termine è a volte utilizzato come sinonimo di “particella”.
Io faccio parte di quel gruppo di persone che ritiene che noi, in quanto persone, diamo l’essenza alla realtà delle cose, o in altre parole creiamo la realtà di un determinato oggetto o contesto. Ovviamente non mi riferisco al fatto che facciamo apparire un tavolo dove questo non esiste, ma di fronte ad uno stesso tavolo che esiste di fronte a me o ad un gruppo di persone, di forma rettangolare con una sedia per lato e con dei piatti su di esso e posate e bicchieri, coperto da una tovaglia per tutti noi quello è realmente un tavolo da pranzo, se invece lo stesso tavolo avesse una sedia sola sul lato lungo, libri su di esso, fogli per appunti e un pc portatile su un lato nessuno dubiterebbe che sia una scrivania. Nessuno si siederebbe per scrivere sul primo tavolo come nessuno si siederebbe per pranzo sul secondo.
Un gruppo di persone in relazione fra loro decide, in accordo, la realtà di ciò che li circonda, secondo la propria cultura, le proprie convinzioni, abitudini, scala di valori eccetera.
Questo è causa anche del trabocchetto dell’etica. Quando si pensa ad un comportamento etico si pensa sempre ad un comportamento corretto secondo una legge generale, universale o, come direbbe qualcuno, naturale. Si pensa ad un comportamento buono. Ma è il gruppo che dà la realtà e quindi la definizione di ciò che è etico e quindi abituale e accettato da tutti in quel gruppo.
Se in ufficio la macchinetta del caffè inizia, perché guasta, a erogare caffè e cappuccini gratis, a poco a poco si sparge la voce e tutti gli appartenenti a quel gruppo di persone in quell’ufficio approfitteranno del caffè senza pagare. L’azione non è corretta né buona, ma in quel contesto nessuno si sentirà in colpa, perché da tutti quel comportamento è accettato e messo in atto e quindi è etico per quell’insieme di persone, ma sicuramente non lo sarà per l’azienda della macchinetta del caffè.
Sicuramente quei pochi che si sono avventurati fino qui, avranno detto, ma cosa ha a che fare con le competenze? sicuramente nulla con la fisica, siamo fuori tema e certamente avrò perso un ulteriore, nutrito, gruppo di lettori. Ma a quelli che hanno deciso di proseguire continuerò a parlare a riguardo dell’esistenza delle cose.
Un bacio esiste? “Sicuramente si!” risponderete, e se vi chiedessi di portarmene uno come fareste? E se vi chiedessi ulteriormente: “Il sapore della mela esiste?” anche qui avreste poco successo a trovarlo da qualche parte. Quindi esistono o non esistono? Sicuramente esistono ma in una condizione particolare. Esistono in relazione. Per meglio dire, ci sono cose che esistono solo se io agisco, se le metto in relazione con me, un bacio esiste e prende forma ed essenza a seguito di un’azione e di una relazione, come il sapore della mela. Senza l’atto di mangiare la mela il sapore non c’è.
Detto questo, è sicuramente chiaro che ci sono cose di cui diamo per certa l’esistenza, che esistono solo in alcuni momenti e per effetto di una relazione, di un’interazione, non c’erano prima; appaiono e ci sono fintanto che l’interazione sussiste e poi scompaiono di nuovo. Esistono in un tempo ed in uno spazio ben definito, sotto certe condizioni che non sempre sono vere o si palesano. Due persone si vedono, si incontrano, si baceranno solo se scatterà qualcosa tra loro, e non è detto che questa scatti e quindi il bacio, che è dietro le quinte da qualche parte nel buio di quel teatro, non si paleserà mai in scena e per gli spettatori non sarà mai esistito.
Ora che abbiamo posto le basi, proviamo ad affrontare il tema principale. La domanda che è doverosa a questo punto farsi è la seguente: “Le competenze esistono?” Anche qui mi aspetto che qualcuno salti sulla sedia e risponda assolutamente sì. Non solo esistono ma sono anche state classificate in individuali, suddivise in cluster o gruppi. Ci ricordiamo di Spencer, anzi di Spencer & Spencer e del loro libro “Competence at work”, dove si parla di competenze individuali. Anzi ci sono state anche delle evoluzioni passando dal modello delle competenze individuali al modello di competenze organizzative, e qui ci ricordiamo di Guy Le Boterf e del suo lavoro del 2008, “Costruire le competenze individuali e collettive”.
Provate a seguirmi su questa strada allora. Prendiamo una delle competenze di Spencer, una di quelle classificate in gruppi, ad esempio nell’area gestione ed organizzazione, gruppo di competenze manageriali, la leadership di gruppo.
Intanto occorre subito dire che effettivamente questa è stata definita una competenza perché in un contesto specifico, aziendale, di squadra, un qualcuno o più di uno hanno deciso che sia una cosa buona avere un team ed avere per quel team un leader che sappia guidarlo allinearlo e dirigerlo verso gli obiettivi condivisi, sfruttando le sinergie e le diversità di quel gruppo di persone per il raggiungimento dei risultati.
Ma se quel gruppo di persone avesse deciso che la linea migliore da seguire è lo storico approccio “Divide et impera? Dīvĭdĕ et īmpĕrā (letteralmente «dividi e comanda») locuzione latina tornata oggi in uso, secondo cui il migliore espediente di un’autorità qualsiasi per controllare e dirigere un popolo o una squadra è dividerlo, provocando rivalità e fomentando discordie, parrebbe subito chiaro che la competenza sopra descritta non sarebbe più considerata una competenza ma anzi al contrario, un difetto da evitare assolutamente.
Quindi al pari del mio tavolo da pranzo o scrivania, siamo noi, un gruppo di persone, in un certo contesto a decidere quali sono competenze e quali no o per meglio dire, in alcuni contesti si definisce quell’attitudine una competenza in altri no.
La stessa concetto di competenza, dipende quindi dal contesto e da una relazione fra persone che ne definiscono il valore. La competenza non è un concetto assoluto e non esiste quindi a prescindere da un contesto.
Aggiungiamo un altro tassello a questo mosaico, la valutazione di una competenza è sempre legata ad un osservatore. Sarà un osservatore esterno che valuterà il fatto che una competenza si sia palesata o no. C’è qualcuno che misura da fuori da me che sto operando e che certificherà quello che ha visto. Anche qui relazione. Ma cosa ha visto? Questa è una domanda interessante. L’osservatore che è anche misuratore e valutatore e che con la sua presenza modifica quella misura e quindi anche la realtà, inevitabilmente, cosa vede?
Vede la competenza o vede il risultato della competenza. La risposta qui è sicura. Vede il risultato della competenza, nel caso dell’esempio team leadership, vedrà una persona che è diventato leader riconosciuto di una squadra, allineata e diretta verso gli obiettivi condivisi.
Si osserva il risultato di quella competenza, è il risultato, vale a dire la squadra guidata, che mi fa dire che quella persona, il leader, non so quando né come ha palesato una competenza che ho chiamato leadership di gruppo. Ma io non ho visto le dinamiche sottili che questa persona ha creato, le leve emotive empatiche che ha toccato, la comunicazione attiva che ha messo in atto, come ha creato fiducia, quel qualcosa di ineffabile che lo ha fatto riconoscere come guida. Un insieme complesso e allo stesso tempo sottile ed inafferrabile di atti con valenze diverse in tempi diversi.
Io non vedo la competenza, ma il suo risultato ed è quel risultato che valuto come positivo e di lì risalgo a poter dire che è accaduto qualcosa che non ho visto e che quando vedo il risultato non esiste nemmeno più, ma che è stata creatrice di ciò che vedo.
Cambiamo visuale, dall’osservatore all’osservato. Io ho creato un bellissimo team e mi è stato riconosciuto il risultato generato da quella competenza che abbiamo definito team leadership. Quella competenza è mia? Mi appartiene? Anche qui la risposta sembrerebbe un sì sicuro. Ma fermiamoci a riflettere per un momento. Sicuramente posso dire che l’ho esercitata, manifestata in quel luogo ed in quel tempo con quelle persone in quel contesto, ma è non detto che in un’altra azienda, o con persone diverse, o con uno stato d’animo diverso ottenga lo stesso risultato o viceversa un fiasco totale.
La competenza non è qualcosa che mi appartiene nel senso che la posso usare quando voglio, in ogni contesto sicuro del risultato. Se si è manifestata anche una sola volta significa che ce l’ho, il fatto che la possa utilizzare sempre con risultati positivi è un’altra storia.
Questo punto è ben conosciuto da chi fa selezione del personale. La domanda che spesso viene fatta: “mi racconti un caso in cui ha avuto un successo” è volta proprio a capire se quella persona ha manifestato alcune competenze che se si sono palesate potrebbero riapparire e essere utili per la posizione.
Un esempio calzante è l’attore. Stasera al Piccolo di Milano, l’Enrico IV di Pirandello è stato un successo inaudito. La sera dopo, lo stesso Enrico IV al Sistina di Roma quasi un fiasco. Stesso attore, stesso testo, diverso contesto, o diverso lui come persona, a volte è sufficiente una telefonata ricevuta poco prima di andare in scena e quel messaggio distrugge la performance. A Roma qualcosa che a Milano era nato non è apparso.
Spesso si fa confusione con i termini. Ciò che io come persona ho, e mi appartiene nel senso che lo posso utilizzare sempre, in ogni contesto, con risultati simili sono tre cose.
- Conoscenza
- Capacità
- Atto
La conoscenza è ciò che so, che ho potuto studiare da libri, imparare da persone. Lo posso replicare tutte le volte che voglio in ogni contesto. So benissimo come si piantano i chiodi ad esempio. Posso descrivere ogni passaggio in dettaglio. Ma se non ho Capacità, che è l’effettiva abilità di trasformare la conoscenza in pratica, cioè la capacità di applicare i concetti teorici, alla prima martellata piegherò il chiodo o mi schiaccerò un dito. L’atto è come mi pongo, il modo con cui utilizzo la mia conoscenza traghettata dalla capacità.
Nel caso dell’attore, la conoscenza è il testo dell’opera, la capacità è dare forma e sostanza a quelle parole in scena, l’atto è l’interpretazione.
Ma, come abbiamo visto, non bastano per il risultato.
Conoscenza, capacità, atto mi appartengono; le competenze, nel senso che ho indicato, no.
Con la formazione io aumento conoscenza, capacità e atto. Ma come posso sviluppare competenze? Come posso far sì che aumenti la probabilità che in contesti ed in tempi diversi una competenza si palesi comunque?
Posso però farlo raccontando una storia. Fin dall’antichità questo era ben conosciuto e quelle che oggi si chiamano competenze, un tempo sarebbe stata definita sapienza, veniva trasmessa con i racconti. Nel mio libro “La morale Aziendale” c’è un paragrafo intitolato “cerchiamo chi fa bene”. Cerchiamo chi fa cose bene e facciamogli raccontare cosa ha fatto di fronte ad altre persone, colleghi, il suo team. Il racconto fa vivere quanto accaduto alle persone che riconoscono il risultato e trovano dentro di loro quella competenza che potrebbe farlo accadere di nuovo, a loro in altri contesti e situazioni. Il racconto è il modo per dare tempo e spazio a qualcosa che di per se non lo ha.
Credo che chi è arrivato a leggere fino a qui avrà sicuramente individuato il nesso tra competenze e meccanica quantistica. Quando devo studiare una particella, e studiare significa conoscere moto, velocità e direzione per arrivare a calcolarne la massa, la faccio scontrare con un’altra particella, nota, dall’impatto si generano frammenti e su quelli misuro ciò che mi interessa e da quelle informazioni risalgo a conoscere la particella madre.
Il modo in cui misuro e osservo cambia comunque la realtà delle cose, non vedo la particella madre, non la misuro e valuto direttamente ma vedo e misuro il risultato di una sua collisione. Ciò che ha generato.
Le competenze non esistono sempre, si palesano in un tempo ed in un contesto (spazio) e poi tornano di nuovo nell’ombra. Non le vedo, ma vedo ciò che hanno generato e valuto quello, per dire se una data competenza è apparsa, ma la mia valutazione e misura, come osservatore, inevitabilmente, cambia le cose perché il valore di quanto vedo sarà legato al mio giudizio e in modo più ampio a quello del gruppo in vivo.
A cura di: Sergio Casella
Sergio Casella - Presidente di Divisione @ Barry-Wehmiller e autore. Presidente della divisione PCMC (Paper Converting Machine Company) della multinazionale americana Barry-Wehmiller, laureato in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche, farmacista, master in Piante aromatiche e medicinali, studi di finanza, economia, studi di teologia e filosofia, master in Gestione e sviluppo delle persone nelle organizzazioni – Alta Scuola di Psicologia Università Cattolica. Esperto di Lean Production e sistemi qualità, come strumenti di leadership etica e motivazionale. Dal 2005 si occupa soprattutto di persone, all'interno di un ambiente di business competitivo e aperto al mercato mondiale. Dare senso a ciò che le persone fanno sul posto di lavoro è sfida e passione. Una sfida che ha dato alla luce un libro La Morale Aziendale, Ed. Tecniche Nuove 2014.