Comunicare la propria leadership

Abbiamo affrontato il tema della costruzione di una leadership[1], guardando al ruolo che l’identità sociale condivisa dai membri del gruppo svolge sul grado d’influenza, carisma e potere di un leader. In quell’occasione dicemmo che la leadership si manifesta attraverso un “io”, quello del leader, ma le sue radici affondando nell’humus identitario del “noi” – in riferimento al gruppo ovviamente – di cui essa altro non è che l’esteriorizzazione. L’assunto di base, dedotto tra l’altro da due importantissime teorie psicosociali – la Teoria dell’identità sociale (Tajfel e Turner, 1979; 1986) e la Teoria dell’auto-categorizzazione (Turner 1985; Turner et al., 1987) – è che un leader, viene riconosciuto come tale dai membri del proprio gruppo solo quando diviene il miglior rappresentante di quel “noi”. In questo senso, tre psicologi – A. S. Haslam, ‎S. D. Reicher, ‎M. J. Platow – nel sistematizzare i risultati di innumerevoli ricerche, hanno fondando una nuova psicologia della leadership[2] riscrivendone i fondamenti.

Qui osserveremo in che modo la comunicazione, del candidato leader, viene utilizzata per la costruzione della sua leadership. Sotto molti punti di vista, quest’articolo sarà il complemento del precedente; lo integra e lo completa, motivo per il quale ne consigliamo la lettura a chi volesse farsi un’idea, speriamo il più chiara possibile, su questo delicatissimo, quanto cruciale, tema. Ovviamente nel collegamento naturale che esiste tra i due lavori, qui saremo costretti a riprendere alcuni passaggi esplicitati in precedenza per ampliarli con nuove considerazioni.

Leadership e autorappresentazione di se stessi

Il termine “comunicazione”, in quest’articolo, si riferisce a tutti quegli elementi che presi nel loro insieme permettono a un candidato leader di autorappresentare se stesso come il miglior rappresentante di quel “noi”. Abbiamo detto[1] che i membri del gruppo debbono arrivare a dire, non solo, che esso è “uno di noi” ma che egli è quello che meglio di altri incarna “i nostri valori” e combatte per realizzare “i nostri scopi”. Un’assimilazione che funziona in entrambi i sensi: lui come “uno di noi” e, sempre attraverso di lui, “noi differenti da tutti gli altri”. Per riuscire in questo, il candidato deve sapersi rappresentare come incarnazione di quel “noi” ancora prima di esserlo; che non significa millantare quello che non si è, mentendo o ingannando i membri, recitando una parte – come tristemente fanno molte leadership politiche – né ricalcare uno stereotipo ma assumere su di sé l’onere e la responsabilità di incarnare realmente quell’identità, attraverso un processo di foggiatura[3] che riguarda, prima di tutti, se stesso. In poche parole, l’immagine che il candidato propina di sé è al tempo stesso un obbligo, verso se stesso, a realizzarla[4]; è l’impegno che questi ha preso su di sé e verso gli altri ed è alla base della fiducia che i membri, specie agli inizi, gli concedono.

Questo perché il segreto del potere di una leadership, sta tutto nella sua credibilità e nella coerenza adamantina tra quello che egli “dice di essere” o a cui “dice di credere” e quello che poi realmente “è” o “fa”. Abbiamo utilizzato il verbo “dice” ma impropriamente, poiché questa autorappresentazione passa attraverso tutti gli aspetti – verbali e non verbali – grazie ai quali ognuno di noi esprime, racconta e presenta se stesso.

Comunicare se stessi

Tutto ciò che ci caratterizza, come individui, invia informazioni agli altri anche quando non sappiamo di farlo. Per comprendere il senso profondo di questa affermazione e soprattutto la valenza che essa riveste per la leadership, dobbiamo guardare ai modi attraverso i quali noi stessi comunichiamo:

  1. “Verbale”, sono le parole e la scrittura di cui ci serviamo. Il codice che sottostà al linguaggio che utilizziamo; con i suoi segni, i suoni e le regole formali per la composizione delle parole e delle frasi. Insieme alle aree semantiche (i significati associati in maniera arbitraria) che le nostre parole vanno a ricoprire.
  2. “Paraverbale”, che si affianca al primo e riguarda il modo in cui “diciamo” queste parole: il tono di voce che utilizziamo e di cui fanno parte il ritmo (calmo, incessante, etc.), il volume (alto, basso), il timbro (ciò che distingue un suono da un altro) e questo sia mentre parliamo, scriviamo o leggiamo qualcosa.
  3. “Non verbale”, dove troviamo una vasta gamma di segni con i loro significati: gesti, mimica, le espressioni del viso, tutto ciò che ha a che fare con il nostro aspetto (tolettatura, acconciatura dei capelli, maquillage, pittura di alcune parti del corpo come unghie o tatuaggi, forma fisica, etc.), postura, andatura, abbigliamento compresi quegli oggetti ornamentali o simboli culturali che ci identificano (es. orecchini, le mostrine per un militare, la tiara papale, la giacca e cravatta dell’uomo d’affari, etc.), comportamento spaziale (es. la distanza/vicinanza verso gli altri).

Quest’ultimo piano è quello dal quale gli altri derivano la gran parte dei significati che ci rappresentano ed ha una caratteristica sostanziale che lo rende incredibilmente importante per i discorsi che stiamo facendo, il fatto che molti degli elementi che lo caratterizzano sono da noi utilizzati in modo del tutto involontario. Pensate alle espressioni del viso quando assaggiate, per la prima volta, un cibo che trovate disgustoso, oppure il dover parlare in pubblico per voi che siete molto timidi e insicuri: i tremolii della voce, delle mani, delle gambe, la sudorazione del corpo che aumenta, alcuni rossori che si affacciano sul collo, volto, tutti aspetti che possono essere colti da un attento osservatore.

Quest’aspetto involontario, automatico, istintivo può lasciar trasparire, informazioni che non vorremmo gli altri sapessero o addirittura contraddire quello che a parole stiamo affermando. La comunicazione non verbale serve anche a rafforzare il significato di quello che a parole andiamo professando (pensiamo ai gesti), oppure può aiutarci a chiarirci dove le parole non arrivano (come accade con l’espressione di certe emozioni).

Il leader è sempre un imprenditore dell’identità

Inquadrare il leader come un imprenditore dell’identità è, a nostro avviso, uno tra gli spunti più fecondi del lavoro di Haslam, ‎Reicher e Platow[2]. Gli elementi che compongono l’identità del gruppo vale a dire la sua cultura, la storia, i valori, gli scopi, conoscenze, credenze, pratiche, simboli, etc. sono le risorse da amministrare, organizzare, curare, gestire per una serie innumerevole di scopi. I veri leader maneggiano, plasmano, modellano, trasformano, operando su tutto quel materiale in maniera spesso creativa; tagliando e ricucendo fino a realizzare la loro particolare definizione di questa identità, grazie alla quale poter identificare il gruppo e se stessi come elementi prototipici. In poche parole, partendo da tutto ciò che caratterizza l’identità, “foggiano” vale a dire conferiscono “una forma” al proprio progetto identitario facendo però attenzione a nascondere ogni traccia di questa operazione affinché essa appaia, agli occhi dei membri del gruppo, qualcosa di naturale[5].

Proviamo a spiegarci meglio con un esempio.

Il Mahatma Gandhi aveva davanti a sé un popolo, quello indiano, arrabbiato, ferito, pieno di rancore per le umiliazioni inflitte dall’invasore britannico. Il suo desiderio di libertà, riscatto e giustizia, poteva benissimo abbracciare la via della violenza, della rappresaglia e del terrorismo come del resto, in alcuni casi, è stato. Era forse la via, sotto certi punti di vista, più naturale. Eppure, dimostrando una grande maestria, Gandhi, partendo dai valori identitari del popolo indiano (storia, cultura, religioni, etc.), seleziona, evidenzia solo quegli aspetti che meglio di altri possono aiutarlo a focalizzare il suo progetto: nel caso specifico, la millenaria tradizione spirituale indiana e il principio dell’ahimsa o “non violenza”. Utilizza questi elementi per ri-definire l’identità di quel popolo e gli si àncora con la teoria del satyagraha, da lui ideata, vale a dire il principio di disobbedienza civile e lotta non-violenta. In questo nuovo contesto identitario, la sua proposta (la qualità non violenta della sua azione politica) appare, agli occhi del suo popolo, come la manifestazione concreta, naturale di questa identità; della quale egli a quel punto diviene, spontaneamente, il miglior rappresentante.

Ovviamente, in tutto questo, la sua comunicazione riveste un ruolo fondamentale; ecco uno stralcio di un discorso di Gandhi, vediamo come ha condotto quest’operazione:

[…] Non violenza e codardia si accompagnano male. Posso immaginare un uomo armato fino ai denti che sia, in cuor suo, un codardo. Il possesso di armi implica un elemento di paura, se non di vigliaccheria. La vera non-violenza è invece impossibile ove non si possegga un indomito coraggio. […]Io non scorgo né eroismo né sacrificio nel distruggere vite o proprietà, per offesa o per difesa. […]La non-violenza è la legge della nostra specie, come la violenza è la legge dei bruti. Lo spirito giace in letargo, nel bruto, ed egli non conosce altra legge che quella della possanza fisica. La dignità umana richiede che si obbedisca a una legge più alta: alla forza dello spirito. […]Dunque, non chiedo all’India di praticare la non violenza perché è debole. Voglio ch’essa la pratichi essendo ben conscia della sua propria forza, del suo proprio potere. Nessun addestramento alle armi è necessario per dispiegare questa forza. Si può credere di averne bisogno perché si pensa di essere soltanto un corpo inerte. Voglio che l’India si renda conto di avere un’anima che non può perire, ma che è capace di elevarsi trionfalmente al di sopra di ogni debolezza fisica e di sfidare il mondo intero. [6]

Questo focalizzare, al gruppo stesso, le credenze e i valori condivisi che lo rappresentano è fondamentale per il successo della leadership poiché è il grimaldello sul quale mobilitare i membri. I grandi leader debbono saper comunicare, cioè “raccontare” questa identità (ma non solo a parole, abbiamo detto, quanto attraverso ogni elemento comunicativo della loro persona), specificando anche in che modo essi ne fanno parte (autorappresentando la propria prototipicità). Su quest’ultimo punto, eccone un esempio (tra i tanti che avremmo potuto presentare) tratto dal portoghese José Mourinho, attuale allenatore della A.S. Roma, il quale posta questo messaggio l’attimo dopo in cui viene confermato il suo ingaggio:

Dopo essermi confrontato con la proprietà e con Tiago Pinto ho capito immediatamente quanto sia alta l’ambizione di questa Società. Questa aspirazione e questa spinta sono le stesse che mi motivano da sempre e insieme vogliamo costruire un percorso vincente negli anni a venire. L’incredibile passione dei tifosi della Roma mi ha convinto ad accettare l’incarico e non vedo l’ora di iniziare. […] Daje Roma![7]

Egli fa un’equivalenza tra sé – la propria ambizione, determinazione, tenacia, i traguardi testimoniati da una carriera costellata di successi – e le aspirazioni della società calcistica guidata da nuovi proprietari per suggerire, implicitamente, che egli è l’uomo giusto per realizzarle. C’è da notare anche l’utilizzo della parola “Daje”, rivolta ai tifosi; un’espressione dialettale che, di là dal significato letterale, rappresenta un contrassegno della romanità. Un segno di appartenenza, simbolo del legame viscerale che i tifosi vantano con le loro radici e la loro città. Utilizzarlo significa assimilarsi a loro.

Questa autorappresentazione, passa anche attraverso la manifesta dedizione al bene del gruppo – anche a svantaggio dei propri stessi interessi – che il candidato alla leadership deve dare prova di possedere. Nel 2006, Romano Prodi si candida a premier (in quell’anno il suo partito vincerà le elezioni) e in un dibattito televisivo, contro Silvio Berlusconi, usa questa argomentazione:

[…]io questo credo di poterlo fare, proprio per la libertà che ho, per il ruolo che ho in politica […] e per i quattro milioni e duecentomila voti che sono stati dati alle primarie e anche perché vedete io ho fatto il presidente del Consiglio ho fatto il presidente della Commissione Europea e non.. non… cerco più nulla dalla vita ma voglio soltanto fare le riforme che sono necessarie in questo paese fare riprendere la corsa al paese dare una speranza ai giovani e poi posso mm… posso finire mm… non ho altri interessi ma qui occorre qualcuno che in modo disinteressato e forte eh… ridia questo senso di unità e questa speranza alle nuove generazioni.[8]

Ovviamente tutto questo è possibile solo quando si conosce in profondità tutto il materiale identitario che caratterizza il gruppo: i membri, i valori, la storia, la cultura e tutto ciò che lo rende quello che è[9]. Il successo di una leadership, come ci ricorda lo stesso Mourinho, passa attraverso questa conoscenza:

Il mio record di vittorie in Inghilterra, Portogallo, Italia e Spagna? […] Credo che questo sia dovuto al fatto che ho cercato di capire la squadra. Ho studiato. Ho cercato di trarre il meglio dalle differenze, cercando di mettere in pratica le mie idee ma allo stesso tempo rispettando le culture locali e, nel mio caso, anche il sentimento e l’approccio locale al gioco […]. Sul rapporto coi giocatori “[…] La cosa più importante è conoscere la loro natura, sapere tutto di loro. Poi si può interagire con loro quasi su base individuale. […] Non guardarli come se fossero tutti uguali, perché sono tutti diversi. [10]

Proviamo, da tutto questo a trovare una regola generale (valevole per tutti, da chi guida progetti a chi governa Stati) su quanto abbiamo cercato di suggerire attraverso questi pochi esempi. La comunicazione, nell’accezione spiegata, è influenzata fortemente: (1) dal materiale che costituisce l’identità sociale condivisa e che differisce secondo i gruppi; (2) dagli scopi che guidano il candidato leader; (3) dai contesti socio-culturali e situazionali all’interno dei quali il gruppo opera e dove la situazione comunicativa si svolge; (4) dal tipo di relazione che si vuole stabilire con i membri del gruppo e infine (5) dal canale che veicola quella comunicazione (verbale, paraverbale, non verbale); (6) dall’identità personale del leader e le sue caratteristiche peculiari.

La personalizzazione che tutte queste variabili impongono, chiarisce bene il perché non esista una “formula magica” prestabilita valevole per tutte le leadership, di là dalle promesse illusorie che molti manuali fanno al riguardo. L’unico elemento universale è che si tratta di una comunicazione tutta improntata al “noi” nei termini spiegati poc’anzi.

Generalmente l’autorappresentazione di se stessi, passa attraverso l’uso delle tre strategie individuate già da Aristotele nella sua “Retorica” (320 a.C.): logos, l’aspetto razionale, intellettivo dell’argomentare, necessario a validarne la credibilità. L’ethos, dove traspare l’affidabilità dell’oratore nel porsi a rappresentante di quel “noi”, la sua autorevolezza, competenza insieme al suo interesse nel perseguire il bene del gruppo. Infine c’è il pathos, il fare leva sull’aspetto emozionale; sfera preminente nell’umano che come noto ha un potere enorme di galvanizzare l’attenzione e le energie delle persone.

In questa operazione, come spiegato, gli aspetti comunicativi non-verbali hanno un ruolo preminente.

Prendiamo Sergio Marchionne – l’ex amministratore delegato di FIAT poi FCA – e il suo famoso maglione blue cui lo stesso non ha mai rinunciato, anche in situazioni ufficiali che richiedevano tutt’altro abbigliamento. Questo stile minimalista che a nessun’altro sarebbe stato perdonato, è servito a rimarcare la sua distanza dagli altri ed è stato un segno della sua concretezza. Il che si inscrive perfettamente con la filosofia di vita del personaggio che si dice fosse estremamente pragmatico, diretto, che guardasse alla sostanza di là da regole, convenzioni o formalità. Un maglione dunque, ha simboleggiato la coerenza con un modo di essere e di intendere la vita; coraggio o spregiudicatezza (a seconda dei pareri) che lo ha reso, agli occhi di molti, il prototipo perfetto del manager post moderno – con annessi pregi e difetti – al punto da essere preso a riferimento e imitato da molti altri professionisti che ad un certo punto della loro carriera, hanno iniziato a presentarsi ai meeting vestiti nello stesso modo perché un semplice maglione blu, era divenuto simbolo di un modo elitario e distintivo di incarnare il potere.

Questo tema della coerenza e della fedeltà ai valori identitari è un attributo, una condizione imprescindibile da un punto di vista comunicativo.

Nel 2011, l’allora Ministro della Difesa italiana, Ignazio la Russa, in visita ufficiale al comando regionale ISAF, competente nella parte occidentale dell’Afghanistan, si presentò vestito con una camicia e per l’appunto, un maglione. Al riguardo l’associazione nazionale ufficiali dell’Aeronautica militare, indirizzò al Ministro una lettera molto dura rimproverandolo di aver indossato abiti troppo casual: «La sua camicia azzurrina sportivamente slacciata, ed il suo scuro maglioncino a “V” (oltre ai pantaloni troppo abbondantemente ricadenti sui talloni), certamente appropriati per presenziare ad una cerimonia di scambio di gagliardetti fra bocciofile, non hanno conferito, all’evento in fieri, quell’importanza ch’esso si proponeva di raffigurare»[11]. Era accaduto qualcosa che nella storia della leadership ha diversi precedenti, l’abbigliamento era stato giudicato da alcuni, inopportuno per un contesto militare (dove, come noto, la formalità è un valore poiché sono i valori di una nazione ad essere rappresentati) tanto da minare, per i promotori della missiva, la solennità dell’evento. Si trattò di un episodio che si concluse con una polemica tutta a mezzo stampa, ma ci sono esempi di leadership politiche che per motivi similari, hanno visto tramontare inesorabilmente la propria ascesa. Un esempio significativo fu quello di Micheal Foot, l’ex leader del partito laburista britannico[12]. Anche nel suo caso si trattava di presenziare a una cerimonia ufficiale per i caduti di guerra britannici; il politico si presentò vestito con un giaccone che fu giudicato inappropriato dalla stampa avversaria che, come nel caso precedente, fu letto come una mancanza di rispetto verso la solennità dell’evento. Questa polemica però, ripresa e amplificata dai media e dagli avversari, gli costò la bontà della sua carriera politica perché mise in discussione la sua credibilità come interprete di quei valori. È meno importante se queste critiche (in entrambi i due casi) fossero strumentali o meno, l’assunto di base è che ogni aspetto che differenzia il candidato dall’identità, lo indebolisce poiché ne mette in dubbio la rappresentatività.

Non abbiamo il tempo di approfondire anche il ruolo di gesti, tono di voce, sguardi, pause della voce, espressioni del viso e tutti quegli altri elementi che hanno un alto potere comunicativo. Diciamo in linea generale non c’è discorso, gesto, sguardo o qualunque altro elemento che da solo assicuri il successo quanto l’incastro, la corrispondenza tra tutti questi elementi presi assieme quando coerenti alla semantica identitaria. È quest’ultima a determinare l’efficacia della strategia comunicativa non l’eccellere nell’uso del linguaggio. Molti esempi, anche in leadership italiane, ha confermato quello che l’ex Presidente statunitense, George Bush, aveva testimoniato con il suo esempio. Egli è diventato famoso per i suoi “bushismi”, vale a dire gli innumerevoli errori di sintassi, logica, grammatica di cui è stato protagonista e che in diverse occasioni hanno suscitato ilarità e reazioni indignate. Ebbene, la testimonianza della sua appartenenza a quelli che sono i valori per eccellenza dello spirito statunitense (e del proprio elettorato), attraverso le foto che nel suo tempo libero lo immortalavano con gli stivali, le tipiche camice e il cappello da cow-boy, il jeans, l’amore per la birra americana Budweiser, le bistecche e le sue giacche di pelle[13] non solo ha permesso, ai propri elettori, di perdonare gli strafalcioni ma, al contrario, questi sono stati utilizzati come rinforzo della bontà della sua leadership a conferma del fatto che si trattasse di una persona autentica, verace, non costruita come lo erano invece gli altri candidati.

Quello che deve essere chiaro, quando si parla di comunicazione rapportata alla leadership è che i leader con i loro rispettivi progetti, non sono altro che l’esteriorizzazione di quell’humus identitario dal quale attingono, a loro volta, nutrimento. È il “noi” l’unica cosa che conta e la capacità, tra le sue tante versioni plausibili, di saper illuminare e incarnare quegli elementi che ne rappresentano l’anima, di là dal tempo e perfino dalle caratteristiche proprie dei singoli membri che compongono il gruppo come ha fatto Gandhi nell’esempio che citavamo. È un’operazione proattiva, ardua ma quando il leader è credibile, sincero, devoto e incarna quel “mondo”, anche se non è un bravo “comunicatore”, ciò non impedisce al gruppo di riconoscersi in esso e grande o piccolo che sia, di divenire una forza in grado di affrontare qualunque impresa.

 

Note

Articolo a cura di Romina Mandolini

Profilo Autore

Romina Mandolini Classe 1971, certificata Project Management Professional presso il Project Management Institute (PMI), la più importante associazione internazionale di Project Management. Lavora presso un’importante azienda di Telecomunicazioni italiana dove ha ricoperto diversi ruoli e maturato un’importante esperienza in termini di partecipazione e guida di progetti e gruppi di lavoro. Laureata in “Comunicazione, Media e Pubblicità” continua i suoi studi di indirizzo psicosociale al di fuori del mondo accademico ed è impegnata nella diffusione di queste conoscenze, nell’ambito professionale. È autrice di due libri, l’ultimo “Project Management, Fondamenti psicosociologici di Leadership e Comunicazione nella gestione dei Gruppi di lavoro. (2021). Sensibile allo sviluppo del potenziale umano, si è dedicata allo studio della Philosophia Perennis e in questo contesto ha approfondito lo Yoga e le diverse forme di meditazione.
Cura il blog https://www.leadershipcomunicazionegruppi.com/

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