Recenti sondaggi mostrano che nel nostro Paese gli utenti LinkedIn, cioè la piattaforma professionale che abilita le connessioni tra individui in ambito business e rappresenta un importante strumento di social media marketing, sono oltre 18 milioni su una popolazione attiva di circa 38 milioni. Il che significa che oltre il 47% della forza lavoro avrebbe profili LinkedIn. A ciò si aggiunga che, in Italia, secondo altri dati recenti, sono oltre 35 milioni le persone che usano Facebook, 28 milioni Instagram, 20 milioni Pinterest e 5 milioni Twitter.
Questo in pratica sta a significare che una parte importante della forza lavoro in Italia è in possesso di una propria personale visibilità online, attraverso piattaforme che ne riportano profili/attività/foto/video, ecc. , e nel caso in cui i datori di lavoro avessero intenzione di verificare il background e l’idoneità dei collaboratori che devono assumere potrebbero disporre di un vasto materiale da cui recuperare informazioni di qualsiasi tipo.
Quante sono le aziende o i responsabili delle risorse umane che ricorrono a questo sistema, che in termine tecnico si chiama Cybervetting? E’ giusto e, soprattutto, etico utilizzare le informazioni che si possono trovare su Internet, in particolare sulle piattaforme e i social network, per valutare e determinare se un candidato sia adatto o meno a una certa posizione lavorativa?
Alcune informazioni, che rientrano nell’area riservata ai dati sensibili e quindi nel rispetto della privacy, vengono (o dovrebbero venire) protette per non essere lette o copiate in modo indebito. Esiste, in altri termini, la proibizione di fare web scraping, cioè utilizzare dei programmi per estrarre contenuti e dati da un sito. D’altra parte, quando la pagina web è accessibile pubblicamente questo divieto è praticamente impossibile da applicare.
Per riassumere, se il candidato ha reso le proprie informazioni pubblicamente disponibili sul web e le stesse vengono elaborate dall’azienda in modo legale ed etico non esistono particolari impedimenti. Le cose cambiano ove queste informazioni vengano utilizzate per supportare una decisione di selezione nell’ambito del lavoro senza che ne venga verificata l’autenticità o senza prima averne parlato con i candidati interessati. E chiaro però che in questo caso la decisione è affidata alla discrezionalità e alla sensibilità del responsabile delle Risorse Umane.
In ogni caso, secondo alcune ricerche, quasi il 70% dei datori di lavoro utilizzerebbe i social network per ottenere informazioni aggiuntive al fine di completare le candidature dei potenziali collaboratori. Un altro dato curioso, per non dire preoccupante, è che nella attività di recruiting si tiene conto anche del fatto che il candidato sia o meno presente on line. Si arriva al paradosso che se non è presente su nessuna piattaforma social, le possibilità che venga invitato per un colloquio diminuiscono repentinamente. Anche se il lavoro offerto non ha nulla a che vedere con eventuali competenze informatiche.
Secondo una recente ricerca, basata su interviste con professionisti delle risorse umane svolta negli Stati Uniti, lo scopo principale sarebbe quello di valutare in modo più approfondito le caratteristiche personali e umane dei candidati, integrando il curriculum vitae di cui sono in possesso.
Tutto ciò che si riferisce al candidato infatti può tornare utile. Commenti, giudizi, ma anche foto presenti sui social network possono contribuire a delineare meglio il suo profilo, le sue passioni, il suo stile di vita.[i] In ogni caso, i responsabili delle risorse umane mostrerebbero particolari preferenze per i profili online che raffigurano “uno stile di vita sano e attivo”, come l’abitudine a “fare escursioni” o la passione per lo sci.
Anche le attività svolte in gruppo o legate ad associazioni, comprese quelle che riguardano il volontariato, sono utili, anche se sembrerebbero meno rilevanti per definire le caratteristiche positive di un candidato. Comunque sia, questo tipo di analisi preventive potrebbe determinare atteggiamenti discriminatori anche involontari. Gli stili di vita “attivi” o “sociali” potrebbero escludere ad esempio certe classi sociali, o certi individui portatori di disabilità, e via dicendo.
L’aspetto più negativo del cybervetting è però quello che riguarda la cosiddetta ricerca delle “red flags” (bandiere rosse) che sono gli indicatori on line di comportamenti considerati devianti o parzialmente problematici, come ad esempio, commenti razzisti, politically incorrect o solo polemici.
Ad esempio, negli Usa la foto di un candidato che sorseggia una bevanda alcolica (ammesso che sia possibile stabilirlo con certezza) potrebbe incidere sulla valutazione della sua integrità morale (tendenza all’alcolismo?), riflettendosi sulla qualità delle sue prestazioni professionali future.
Esprimere giudizi sull’idoneità di un potenziale dipendente basandosi sulle informazioni raccolte attraverso il suo profilo on line potrebbe quindi essere molto pericoloso e portare a valutazioni sbagliate o inficiate da preconcetti.
Allo stato attuale non esistono linee guida precise su come procedere. Le verifiche e i controlli consueti non garantiscono che possa verificarsi il rischio che vengano scartati candidati a causa di valutazioni superficiali o peggio discriminatorie. Qualunque accesso e utilizzo di dati del profilo di un candidato provenienti da piattaforme on line dovrebbe essere documentato e avvenire secondo prassi trasparenti.
E’ opportuno perciò adottare alcune precauzioni di buon senso per evitare comportamenti scorretti e procedere alla selezione nel modo più etico ed equo possibile.
Come abbiamo visto, potrebbe essere pericoloso e fuorviante fidarsi di interpretazioni dedotte da affermazioni o foto (magari estemporanee o scherzose) esposte sui social network da parte del candidato, perché facilmente si prestano ad essere fraintese.
Ma l’uso del cybervetting può essere negativo non solo per i candidati che rischiano di essere scartati a causa di pratiche di assunzione inique, ma anche per le stesse organizzazioni, indipendentemente dai possibili problemi legali che il cybervetting, una volta venuto alla luce, potrebbe procurare.
Infatti, uno screening del personale da assumere che si basi su un cybervetting con eccessivi filtri o regole di selezione (implicite o esplicite che siano) potrebbe a lungo termine creare una forza lavoro sempre più omogenea, il che, come ampiamente provato, può avere un impatto negativo sulla creatività e le iniziative di innovazione nell’ambito del lavoro e quindi in termini di profitto.
[i] Attualmente esistono sofisticati software che possono interpretare il carattere delle persone con algoritmi che analizzano il viso attraverso particolari misurazioni antropometriche.
Articolo a cura di Ugo Perugini
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