Dirigenti: dimissioni ordinarie e preavviso
Parlando di dimissioni del dirigente, occorre fare riferimento alla norma generale dell’art. 2118 c.c. che, in materia di recesso dal rapporto di lavoro, pone l’unica condizione del preavviso. In questo caso specifico, la disciplina generale di questa norma non è arricchita da speciali disposizioni che discriminino il trattamento relativo del dirigente rispetto alla generalità dei lavoratori. Semmai, la questione più rilevante e intuibile è posta dalla durata del periodo di preavviso così come stabilito dai contratti collettivi che, invero, può raggiungere anche la durata annuale, in relazione all’anzianità di servizio del dirigente o ad altri fattori. Oltre alle dimissioni ordinarie la legge, nell’art. 2119, disciplina le dimissioni per giusta causa, ponendo peraltro una regola generale e lasciando spazio, da un lato, alla contrattazione e, dall’altro, alla giurisprudenza per la individuazione di fattispecie tipiche.
L’anzianità che deve essere presa in considerazione ai fini della determinazione in concreto del termine di preavviso, a seguito delle dimissioni, è – generalmente – quella relativa al servizio globalmente prestato nell’azienda, in qualsiasi qualifica e con riferimento, quindi, alle ipotesi di nomina o promozione a dirigente di impiegati o quadri già dipendenti presso lo stesso datore di lavoro.
Quando si parla di mesi due, tre e quattro si ha naturalmente riguardo al calendario comune, considerando il mese intero, come si ricava – generalmente – dal tenore letterale delle previsioni contrattuali – e indirettamente dalle regole, ai fini del calcolo del periodo di preavviso, che impongono spesso la considerazione – convenzionale – della decorrenza dal giorno 1 di ogni mese.
Queste disposizioni hanno una funzione di semplificazione per la gestione, sia contabile sia operativa, della situazione corrispondente e sortiscono – ove esistenti – l’effetto pratico di spostare la decorrenza del preavviso all’inizio del mese successivo, con il connesso obbligo di pagamento diretto della retribuzione per i giorni intermedi.
Per l’individuazione esatta del momento di ricevimento, da parte dell’azienda, della comunicazione di dimissioni non possono che valere le regole generali circa il valore della comunicazione stessa, il mezzo usato e le eventuali presunzioni legali di conoscenza operanti per le comunicazioni dirette all’impresa (art. 1335 c.c. – Presunzione di conoscenza: “La proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta ad una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia”), tenendo presente, peraltro, che la forma prescritta dal contratto di settore è vincolante.
In ogni caso, le dimissioni devono essere considerate come atto unilaterale recettizio, che produce pienamente i suoi effetti una volta giunto al destinatario (in questo senso, il datore di lavoro non può respingere le dimissioni e considerare il dirigente dimissionario inadempiente all’obbligo di prestare l’attività lavorativa presso lo stabilimento in cui è stato trasferito: v. Pret. Torino 14 settembre 1995. In una fattispecie molto particolare, ancora a proposito di presunta invalidità dell’atto di dimissioni, la S.C. ha stabilito che la condizione meramente potestativa e la conseguente sanzione di nullità, di cui all’art. 1355 c.c., non sussistono quando l’impegno che la parte si assume non è rimesso al suo mero arbitrio, ma è collegato ad un gioco di interessi e di convenienza e si presenta come alternativa capace di soddisfare anche il proprio interesse: v., sul punto, Cass. 13 novembre 1989, n. 4785: nel caso specifico, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che correttamente i giudici di merito avevano escluso l’identificabilità di siffatta condizione nella clausola contrattuale con la quale il datore di lavoro riconosceva ad un dirigente il potere di recesso, con diritto al preavviso non lavorato di dodici mensilità della retribuzione, in caso di sostituzione del suo diretto superiore gerarchico, anche se conseguente a dimissioni di quest’ultimo), nonché come un diritto potestativo, a fronte del quale il datore di lavoro si trova in una condizione di soggezione alle conseguenze dell’altrui dichiarazione di volontà (Cass. 25 marzo 1987, n. 2913) e richiedono, secondo le previsioni della contrattazione collettiva dei dirigenti, la forma scritta, che si qualifica come ad substantiam (Cass. 27 marzo 1982, n. 1922), con la conseguenza che sono inidonee a raggiungere il risultato perseguito le dimissioni di un dirigente che, in violazione della specifica clausola contrattuale di settore, non siano rese per iscritto. D’altro canto, le dimissioni cc.dd. “presunte” o “d’ufficio”, fondate – secondo varie clausole di settore – sull’intempestività della giustificazione del motivo dell’assenza per malattia, non si perfezionano nel caso di intempestiva comunicazione della prosecuzione della malattia oltre la iniziale prognosi (salvo che nella certificazione da ultimo trasmessa al datore di lavoro non sia specificato il termine in cui il lavoratore può riprendere servizio: certificato di chiusura di malattia).
La trattenuta retributiva c.d. per “mancato preavviso”, oggetto del diritto a favore dell’azienda, scaturente dall’omesso rispetto del termine, va effettuata – generalmente, in un importo “lordo” corrispondente alla retribuzione del periodo lavorato. L’espressione sta a indicare che la ritenuta si configura quale decurtazione dal netto e il relativo importo, conseguentemente, non comporta diminuzione dell’imponibile contributivo e di quello fiscale. La ragione di ciò va ricercata nella natura tendenzialmente risarcitoria della trattenuta retributiva, pur con tutti i dubbi prospettabili sul punto specifico, anche in relazione alla disomogeneità fra le voci retributive in gioco, al lordo (per l’indennità sostitutiva del preavviso) e al netto (per le spettanze di fine rapporto dovute al dirigente).
La retribuzione lorda del periodo non lavorato deve essere determinata in riferimento alla retribuzione globale di fatto, comprensiva, quindi, di ogni emolumento avente i caratteri della continuità e obbligatorietà (anche secondo le specifiche previsioni della contrattazione collettiva) e con la maggiorazione per l’incidenza delle competenze indirette, come le mensilità aggiuntive, e le voci variabili, inserite nella retribuzione mensile con gli opportuni correttivi che tengano conto della media degli ultimi tre anni – o diverso periodo richiesto – o del minor tempo di servizio prestato – precedenti il mese in cui si verifica la comunicazione delle dimissioni (art. 2121 c.c. – Computo dell’indennità di mancato preavviso: “L’indennità di cui all’articolo 2118 deve calcolarsi computando le provvigioni, i premi di produzione, le partecipazioni agli utili o ai prodotti ed ogni altro compenso di carattere continuativo, con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.
Se il prestatore di lavoro è retribuito in tutto o in parte con provvigioni, con premi di produzione o con partecipazioni, l’indennità suddetta è determinata sulla media degli emolumenti degli ultimi tre anni di servizio o del minor tempo di servizio prestato.
…”).
Dalla formulazione delle clausole, nei vari contratti, traspare a volte la possibilità, per l’azienda, di dispensare il dirigente dagli obblighi di preavviso, condizione, questa, che in passato ha suscitato parecchi dubbi di legittimità da parte dei giudici di merito (Trib. Milano 4 giugno 1985; Trib. Milano 18 aprile 1977; Pret. Desio 16 dicembre 1980), comunque superati dalla prevalente interpretazione della giurisprudenza di legittimità (Cass. 15 giugno 1987, n. 5279; Cass. 13 maggio 1987, n. 4434; Cass. 10 luglio 1984, n. 4035).
Il riferimento delle clausole a una rinuncia totale o parziale fa sorgere l’interrogativo circa il momento in cui la dichiarazione di volontà del datore di lavoro in questi termini, opportunamente armonizzata con l’accettazione del dirigente – secondo l’interpretazione qui proposta – deve essere manifestata. Il tenore letterale sembra far propendere per una manifestazione di “rinuncia” contestuale all’avvenuta ricezione della comunicazione di dimissioni, eventualmente riferita a un periodo di tempo procrastinato nel mese successivo al primo (o ai primi) ove voluta come parziale. Secondo questa impostazione non può ritenersi, quindi, ammissibile una manifestazione in tal senso formulata in un momento successivo, oltre un contesto temporale ragionevolmente considerato in unità con il ricevimento della comunicazione di dimissioni: in questa eventualità, il dirigente potrà – e dovrà – prestare in servizio tutto il periodo di preavviso (salvo, sempre, il tenore letterale delle norme contrattuali).
Da ultimo, in tema di annullamento dell’atto di dimissioni, la minaccia del licenziamento per giusta causa (ma non solo), si configura come prospettazione di un male ingiusto di per sé – anziché come minaccia di far valere un diritto – “solo ove si accerti l’inesistenza del diritto del datore al licenziamento”, per l’insussistenza dell’inadempienza addebitata al dipendente. Ne consegue che tale configurabilità è, di regola, da escludersi “nell’ipotesi in cui la suddetta evenienza si verifichi nei confronti di un dirigente” (Cass. 28 novembre 1997, n. 12127).
Articolo a cura di Pasquale Dui
Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista