E-learning e Comunità di pratica – antidoto agli effetti della pandemia sulla formazione

Fare formazione è un mestiere difficile poiché richiede una continua attenzione sia all’altro – del quale occorrerà tenere in debito conto vuoi le conoscenze vuoi le peculiari abilità di cui è portatore – sia al momento in cui la formazione dovrà svolgersi avendo riguardo a regole, routine e linguaggi del contesto organizzativo per cui venga progettata[1].

Da qui l’interesse che la pedagogia, la sociologia e la psicologia destinano all’analisi del fenomeno formazione. Nel caso in cui essa riguardi soggetti adulti, la disamina della materia diviene ancora più interessante, soprattutto allorquando risulti correlata a programmi di accrescimento delle conoscenze e delle abilità dei soggetti operanti nelle organizzazioni, in particolare di quelle investite da processi di cambiamento. In questa analisi, coerentemente con la raccomandazione rivolta da Lewin, si dovrà tenere in debito conto lo studio dei sistemi in cui la formazione va a incidere avendo come punto di riferimento l’impegno di coinvolgere nella progettazione delle iniziative formative i destinatari degli eventi così da dare corpo a un “agire”, finalizzato alla pratica dei cambiamenti migliorativi, anziché a un’attività di somministrazione del “sapere”[2]. Il trasferimento delle conoscenze e delle abilità, infatti, è qualcosa di più che un mero processo meccanico di insegnamento/apprendimento. Inoltre, la formazione delle persone al lavoro va coniugata con la necessità di stimolare quella eudaimonia sufficientemente capace, da un lato, di aprire possibilità innovative alle persone cui si rivolge, dall’altro, di stimolare e rafforzare il loro desiderio di costruire[3].

Il momento particolarmente delicato che le organizzazioni stanno vivendo a causa della pandemia da Covid-19 ha indotto aziende, gestori di servizi e pubbliche amministrazioni, che hanno ritenuto opportuno proseguire senza interruzioni di sorta la realizzazione dei programmi educativi rivolti alle persone al lavoro, a modificare in qualche modo il proprio atteggiamento nei confronti delle metodologie formative. Ecco che il duro mestiere del formatore ha dovuto fare i conti anche con la novità delle limitazioni connesse al contrasto alla pandemia ricorrendo a strumenti alternativi a quelli tradizionali. Per questo, a fronte della impossibilità di realizzare attività di insegnamento e di addestramento in presenza, è tornato prepotentemente alla ribalta il tema della “formazione a distanza”[4] (che in questa sede considereremo con esclusione della realtà scolastica) di cui in passato quasi tutte le organizzazione si sono avvalse, soprattutto in termini di Computer Based Training, vale a dire alla stregua di studio fondato sull’uso del web come metodologia didattica di auto-istruzione.

Il ricorso al telelavoro e, ancor di più, al lavoro agile, che aziende e pubblici uffici hanno sollecitamente adito massivamente su sollecitazione dei recenti provvedimenti governativi – anche se con i limiti legati alla esiguità dei mezzi e alla scarsa conoscenza delle applicazioni utilizzabili – in questo momento ha spalancato le porte alla idea di un e-learning che, superata la concezione delle tecnologie impiegate esclusivamente come veicolo per insegnare, le ha fatte assurgere al ruolo di mediatrici di pratiche educative, capaci addirittura di surrogare la formazione in presenza con quella telematica.

Grazie all’impiego delle diverse piattaforme disponibili oggi – più o meno efficaci – i manager di azienda e il management delle pubbliche amministrazioni – chi più e chi meno consapevolmente – sono stati in grado di scongiurare il rischio che i programmi di formazione delle persone al lavoro si arrestassero e hanno garantito così l’accrescimento delle conoscenze e delle competenze, che da sempre rappresenta il volano per assicurare efficacia ed efficienza all’agire organizzativo, ma, soprattutto, qualità sulla strada della competitività per il successo delle organizzazioni in cui la formazione si svolga.

Nell’ambito di questo e-learning, che merita di essere considerato un efficace antidoto al rischio di stallo della formazione anche in conseguenza del rallentamento di economia e di servizi per colpa del Covid-19, trova uno spazio di riguardo l’esperienza delle Comunità di pratica.

Nate attorno a interessi di lavoro condivisi – in genere problemi comuni da gestire e risolvere in condizioni d’interdipendenza cooperativa – le Comunità di pratica rappresentano forme di negoziazione implicita tra gli attori organizzativi, che hanno come effetto la realizzazione di legami capaci di determinare quella intesa che alimenta lo stare insieme con regolarità, riuscendo a porre in secondo ordine i vincoli organizzativi di tipo gerarchico, che sovente rendono farraginosi i percorsi formativi generando barriere comunicative tra i diversi ruoli[5]. Ma c’è di più: queste comunità hanno il pregio di irrobustire il senso di appartenere ad un “unicum” professionale finalizzato a conseguire obiettivi condivisi quando non addirittura comuni. Per questo le Comunità di pratica tendono a mettere a fattor comune storie, linguaggi, routine, sistemi di attività, valori che, quindi, rappresentano l’esperienza della comunità a cui attingere. Esse, pertanto, sono finalizzate a generare apprendimento organizzativo e a favorire processi d’identificazione, atteso che le persone che ne fanno parte condividono modalità di azione e d’interpretazione della realtà – quasi alla stregua di una “cassetta degli attrezzi” – costituendo nel loro insieme una organizzazione informale all’interno di organizzazioni formali più ampie, articolate e complesse. I partecipanti alle attività delle Comunità di pratica con il loro apporto accrescono il senso d’identità professionale e creano una rete che certamente può indurre a processi concreti di rinnovamento delle organizzazioni di riferimento dei soggetti interessati per il fatto che incrementano i saperi dei singoli: le Comunità di pratica, invero, rappresentano una significativa ed efficace risorsa di aggiornamento delle competenze professionali dei partecipanti con il vantaggio di avere appreso quello che ad essi serve e non quanto venga loro imposto. Fare formazione ricorrendo allo strumento telematico coniugato alla metodologia delle Comunità di partica, dunque, si prospetta atteggiamento capace realmente di aiutare ad acquisire la consapevolezza della mission connessa al ruolo dei soggetti che hanno scelto di aderirvi, in quanto accresce la consapevolezza dell’evoluzione dello scenario quotidiano rendendo la formazione dei diretti beneficiari patrimonio sociale, che contribuisce a determinare la qualità delle organizzazioni, e leva strategica per la vita del Paese e dei suoi cittadini[6].

La fatica di fare formazione, grazie al ricorso alle Comunità di pratica – vieppiù nel caso che esse operino in via telematica – risulta alleviata se e quando diventasse possibile superare i limiti della sua episodicità e fosse assunta come format stabile. Ma questo rappresenta un altro piano della materia, distinto da quello considerato dagli studiosi dei processi educativi, in quanto investe il ruolo e la competenza del management delle organizzazioni: il testimone passa ai dirigenti e ai manager con la fiducia che potranno essere vincenti per le rispettive organizzazioni nella misura in cui sapranno dimostrare matura consapevolezza di dovere <pro-muovere> la formazione, ossia assicurarle movimento continuo, garantendola ad una platea di persone al lavoro più ampia possibile oltre che in misura piena e con risorse umane e finanziarie adeguate, tenendo a mente che la crescita del soggetto e le potenzialità evolutive presenti nell’ambiente lavorativo sono strettamente connesse[7].

Note

[1] Si vedano i contributi in: Lipari D., Pastore S., (a cura), Nuove parole della formazione, Palinsesto, Roma, 2014.

[2] Cfr. Lewin K., I conflitti sociali, Franco Angeli, Milano, 1980 (ed. or. 1946).

[3] Gheno S., La formazione generativa, Franco Angeli, Milano, 2010.

[4] Cfr. Trentin G., Dalla formazione a distanza all’apprendimento in rete, Franco Angeli, Milano, 2002.

[5] Si veda Wenger E., Communities of practice – Learning, meaning, and identity, Cambridge University Press, 1998.

[6] Bochicchio F., Di Sabato T., Complessità organizzativa e risorse umane, Libellula, Tricase, 2011.

[7] Bochicchio F., Convivere nelle organizzazioni, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011.

 

Articolo a cura di Tommaso Di Sabato

Profilo Autore

Docente presso la Scuola di Alta Formazione della UNINT- Roma e Collaboratore del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione – Torino.
Già Direttore vicario della Ripartizione Risorse Umane di UNISALENTO e Professore a contratto dei Corsi di Laurea in Scienza dell'Amministrazione - Facoltà di Giurisprudenza di UniTELMA – Roma.

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