Far fare o fare agire

Perché si lavora? Esiste la libertà nel lavoro?
Considerazioni per una filosofia del management

Agli inizi del 1900 il “capo” era considerato vitale e insostituibile per l’organizzazione.

Il capo “era” la fabbrica: assumeva e licenziava, stabiliva il salario e l’orario di lavoro, controllava la produzione e spesso decideva cosa, quando e come fare. Lo sviluppo dell’impresa, non solo nelle dimensioni, ma anche nella complessità, diedero l’abbrivio all’emergere del sindacalismo che impose una svolta decisiva alla gestione e alla conduzione di una azienda. Nelle aziende si inserì la struttura della Direzione del Personale che presidiava le assunzioni, le politiche gestionali, la valutazione delle prestazioni e del potenziale, il ricorso a piani formativi, la definizione di mappe di sostituzione e di piani di carriera, le politiche retributive e le relazioni con il sindacato.

Il capo si trovò così scavalcato da un organismo (la Direzione del Personale) che gli diceva cosa e come fare, imponendosi direttamente con le risorse e che trattava direttamente con le organizzazioni sindacali in materia di disciplina, retribuzione, sistemi di lavoro, politiche di sviluppo di carriera, rinnovi contrattuali.

I compiti dei capi intermedi cominciarono ad essere fortemente ridimensionati, perdendo progressivamente responsabilità e potere. Il morale di chi, fino a quel momento, era stato considerato come indispensabile all’organizzazione cominciò ad abbattersi fino a compromettere la stessa produttività. Si comprese allora come scavalcando e indebolendo l’autorità dei responsabili si era commesso un grave errore. Ciascun responsabile ricopriva un ruolo importante e decisivo per l’organizzazione: se un reparto, un settore dovevano funzionare e marciare verso obiettivi precisi, diveniva irrinunciabile affidare a qualcuno la responsabilità di dirigere uomini e coordinare mezzi.

Con lo sviluppo tecnologico, la globalizzazione dei mercati e l’instaurarsi di una concorrenza sempre più competitiva, la figura del responsabile si viene definendo come quella del “manager”, colui che ogni giorno offre qualcosa della propria vita in cambio della possibilità di raggiungere il successo.

Uno dei mandati più importanti affidati al manager è quello di “far agire”.

Faber est suae quisque fortunae, tradotto letteralmente, significa “Ciascuno è artefice della propria sorte”. La frase, che nel tempo ha avuto molto consenso e molte rielaborazioni (tra cui Homo faber fortunae suae), è attribuita a Sallustio. Artefice è colui che realizza qualcosa esprimendo tangibilmente il proprio talento attraverso la consapevolezza del significato della propria azione e della direzione da dare all’azione stessa; si differenzia dal “fare” che è una attività che presuppone una guida, una disposizione o, più generalmente, un obbligo.

Fare, dal punto di vista del significato denotativo, significa compiere una determinata azione o attività, eseguire, realizzare. L’agire sottintende una relazione con altri soggetti e non viene valutato in base alla competenza tecnica, propria del fare, ma in rapporto ai valori che vengono associati. L’evoluzione della tecnologia consente di assegnare al “fare” spazi operativi sempre più ampi ma non determina quale direzione prendere per valorizzare il cammino cercando, di volta in volta, valide motivazioni per l’agire. Una strada che la filosofia di Aristotele definisce col termine “phronesis”, che si può tradurre con ‘saggezza’: un sapere orientato all’azione che presuppone conoscenza ed esperienza. Conoscenza di sé e conoscenza del mondo, consapevolezza della relazione esistente tra l’io, l’altro e la natura e capacità di valutare le situazioni e i mezzi a disposizione per poter agire nel modo migliore nelle condizioni date, che viene distinta dalla σοφία (sofìa), la sapienza che riguarda i principi e la conoscenza teoretica, il possesso della perfezione spirituale teorica. Una modalità “operativa” deliberata (proairesi). In questo senso, la libertà è la capacità dell’uomo di scegliere tra possibilità diverse, realmente date nel contesto in cui si opera, senza che si sia determinati alla scelta in modo necessario.

Ciò che trasforma il fare in agire è la libertà.

La libertà è uno dei bisogni fondamentali dell’uomo e ha costituito, e costituisce, una delle riflessioni filosofiche più analizzate di sempre. Per Epitteto “Siamo autenticamente liberi solo in relazione a ciò che dipende da noi. Ciò che dipende da ciascuno di noi è per sua natura libero e non può essere impedito né ostacolato in alcun modo. Posti dinanzi a ciò che è al di là del nostro diretto controllo, ci troviamo in uno stato di impotenza, di soggezione, di impedimento, di totale estraneità”.

La libertà non è quindi la sola applicazione di conoscenze e competenze, ma implica la responsabilità dell’agire e quindi si riferisce soprattutto a quei comportamenti che tengono conto delle conseguenze di ciò che è stato o non è stato fatto. Quando si è consapevoli della libertà e della responsabilità delle proprie azioni si è anche consapevoli della unicità delle proprie scelte.

Lavorare vuol dire vivere nell’impresa e non semplicemente esserne inseriti come possono esserlo le macchine o appartenere ad una casella di un organigramma. Lavorare implica il luogo dove si agisce: e questa definizione porta a riflettere che questo non è un luogo chiuso, ma soprattutto creazione, trasformazione, evoluzione.

Occorre fare una netta distinzione tra ciò che avviene naturalmente o viene effettuato senza una precisa consapevolezza, ma seguendo linee guida e direttive da ciò che si effettua consapevolmente e intenzionalmente che connota il vero agire. Un atto volontario comporta una scelta fra più possibilità e, a sua volta, una decisione che coincide con lo scopo dell’azione con la conseguenza che l’azione ha creato una modificazione dello stato precedente, ovvero una creazione.

Una visione di un altro filosofo – che potremmo definire moderno – è quella di Gustave Thibon, definito “il filosofo contadino” (le philosophe-paysan): “L’uomo si sente libero nella misura in cui può amare le cose e gli esseri da cui dipende: per esempio quando vive in ambiente a lui consono, quando esercita un mestiere che risponde alla propria vocazione interiore. La libertà non è altro che la capacità di scegliere tra due obbedienze”.

L’intenzionalità dell’agire dipende dunque da ciò che possiamo chiamare libertà. Discutere di libertà non significa astenersi dal considerare la causalità, ma semmai ampliarla e approfondirla. Un’azione è libera quando è determinata da un soggetto capace di volere, di scegliere e di realizzare piani di lavoro, ovvero realizzare intenzioni.

Possiamo considerare la libertà da diversi punti di vista:

  1. libertà come possibilità di agire secondo i propri desideri o progetti quando non sussistono impedimenti strumentali, psicologici… in questa prospettiva la libertà significa non solo tentare ciò che si vuole, ma avere buone probabilità di successo;
  2. libertà di voler ciò che si vuole e non solo di fare, o tentare di fare, ciò che si vuole. Pur in presenza di vincoli, obblighi, o limitazioni non è possibile impedire l’intenzione di voler compiere una determinata azione, ma ciò che si può impedire è solo la sua realizzazione. La naturalezza del volere è sempre libera anche quando le circostanze pongano insormontabili ostacoli. Non si può intervenire sulla dinamica degli eventi, ma l’integrità dell’intenzionalità costituisce una sfida a tutto ciò che si pone alla sua realizzazione;
  3. libertà di volere ciò che non si vuole e di non volere ciò che realmente si vorrebbe, in sintesi: desiderare di desiderare. Si potrebbe dire di essere ciò che si desidera essere anche quando, contemporaneamente, si vorrebbe essere un’altra persona. Si vuole sfuggire ad un pericolo e contemporaneamente non ci si vorrebbe percepire come vigliacchi, non dire il vero e contemporaneamente non percepirsi come ipocriti. Accettare un mandato anche quando non lo si condivide perché si ha fiducia nell’autorità che lo assegna.

Perché si lavora? Esiste una libertà nel lavoro?

È essenziale considerare innanzitutto cosa stimola le persone al lavoro e come far sì che il lavoro venga svolto in maniera ottimale. Ciò che svaluta – o rivaluta – l’importanza attribuita al lavoro è l’impressione che la risorsa stessa esprime. I valori, inoltre, possono essere considerati sia come metro di riferimento per l’azione che come meta desiderabile per un bisogno che deve venire soddisfatto. Questa distinzione ci permette di comprendere il rapporto tra valori, motivazione e i bisogni di avere, essere, potere.

Il management che vuole costruire una organizzazione che sia in grado di navigare nel mare agitato del profitto – e nella quale le risorse si sentano motivate a contribuire e a restare – deve operare per creare le condizioni “oggettive” perché il contesto lavorativo sia il più attraente possibile, rendere il lavoro pieno di significato e valore e, non ultima, sapere – e, soprattutto, volere – ricompensare quelle risorse che traggono soddisfazione dal proprio impegno offrendo prestazioni eccellenti.

Essere liberi di lavorare significa anche “AVERE, ESSERE, POTERE”, ovvero soddisfare all’obbligo etico connesso all’utilità di partecipare in maniera attiva e dinamica alla società, dove la stessa attività lavorativa costituisce il mezzo per acquisire i valori sociali del proprio gruppo professionale in contrapposizione ad un lavoro che nega l’individualità o addirittura al non lavorare, vissuto come elemento di isolamento e di inutilità nei confronti degli altri e quindi essere privi della libertà.

Avere

Significa possedere, essere fornito, essere provvisto, o ancora “essere padrone” di qualcosa.

Se qualcuno desidera “avere”, è auspicabile che ci sia qualcuno disposto anche a “dare”. Oltre alla retribuzione, che è un costo per l’azienda, vi sono molti altri fattori che “costano” solo la buona volontà di fornirli, sapendo che in cambio sarà dato del valore aggiunto difficilmente monetizzabile, anzi, difficilmente acquistabile. Occorre cogliere alcuni segnali, spesso non rivelati ma che sono presenti nelle persone quando lavorano:

  • Avere autonomia nell’organizzare il proprio lavoro. Quanto più è alto il livello di autonomia nella conduzione del proprio lavoro, tanto più si sviluppa il livello di soddisfazione che sostiene il complesso delle motivazioni. In questa prospettiva si può realizzare una autonomia funzionale quando si delega alla risorsa la possibilità di organizzare il proprio lavoro in adeguata discrezionalità, nel rispetto dei tempi concordati e autonomia decisionale quando si concede la possibilità di apportare cambiamenti e innovazioni nell’ambito del lavoro → significa avere la libertà come possibilità di agire secondo i propri desideri o progetti quando non sussistono impedimenti strumentali, psicologici.
  • Avere l’opportunità di partecipare ai problemi, alle decisioni e alle soluzioni che riguardano il lavoro coincide con il desiderio di mantenere la propria individualità all’interno dell’organizzazione attraverso una continuità della propria presenza, di realizzare una attiva partecipazione, di manifestare l’attaccamento affettivo verso l’organizzazione, il senso di responsabilità morale nei confronti di essa. Avere l’opportunità di partecipare ai problemi, alle decisioni ed alle soluzioni che riguardano il lavoro → significa percepire la libertà di voler ciò che si vuole e non solo di fare, o tentare di fare, ciò che si vuole.
  • Avere l’occasione di imparare e sperimentare nuove sfide da affrontare. L’orientamento al successo riguarda il desiderio di crescere ed affermarsi anche nella vita lavorativa, ed è generalmente associato all’autostima, ovvero alla convinzione che una persona ha circa la possibilità di produrre delle azioni utili per affrontare le situazioni, soprattutto quelle nuove, in modo da potersi porre nuovi obiettivi ed essere in grado di raggiungerli. Il bisogno di successo e di ottenere un risultato è definito come il bisogno di affermazione, di riuscita e di successo personali, di realizzazione di performance superiori → libertà di voler ciò che si vuole e non solo di fare, o tentare di fare, ciò che si vuole.
  • Avere un ruolo ben definito e chiaro. La definizione del ruolo deve essere certa e corrispondere ad una mescolanza di competenza (skills), capacità, atteggiamenti conosciuti e riconosciuti dall’organizzazione. Ogni risorsa deve essere in grado di poter conoscere con sicurezza quale è il suo mandato, cosi come tutte le persone con le quali entrano in contatto devono sapere. Chi-fa-cosa è un protocollo importante per ogni organizzazione → libertà come possibilità di agire secondo i propri desideri o progetti.
  • Avere direttive chiare ed esaurienti. Il comportamento direttivo del management è caratterizzato anche da una forma di comunicazione unidirezionale e si concretizza nel dire alle risorse cosa, quando, dove e come fare e operare il giusto controllo. Ogni risorsa è responsabile dell’esecuzione delle direttive ricevute e non della loro scelta, che viene presa dal responsabile. Il capo “burattinaio” riserva a sé l’elaborazione concettuale del problema, la scelta delle alternative, il coordinamento delle azioni, fornisce istruzioni operative elementari, non consente la condivisione del quadro d’insieme che impone. Il capo “leader” guida i suoi collaboratori, fornisce direttive chiare e precise, individua le risorse idonee all’obiettivo, è disponibile a fornire sostegno e linee guida ma non un aiuto che potrebbe avvilire → libertà di volere ciò che non si vuole e di non volere ciò che realmente si vorrebbe, in sintesi: desiderare di desiderare.

Essere

Tra le funzioni del lavoro vi è quella connessa ad importanti variabili individuali come l’autostima, l’identità, la motivazione, la soddisfazione. La percezione e la valutazione di sé deriva dalle esperienze personali, della vita affettiva, sociale e del tempo libero e di quanto avviene ed è avvenuto nel campo del lavoro con particolare riguardo ai vissuti emotivi propri di queste esperienze. Si tratta quindi di una dimensione dinamica, attorno alla quale ruotano diverse componenti. Volere in qualche modo realizzarsi nel lavoro equivale a esistere come persona che lavora, ma che vive anche di bisogni di libertà.

  • Essere competenti. Il significato di competenza è oggetto di puntualizzazioni che permettono di distinguerla da generalizzazioni che la vedono come espressione delle capacità individuali, indipendentemente dal contesto in cui sono esercitate o come esclusive capacità richieste solo da settori specifici, senza tenere conto del patrimonio di caratteristiche personali e prassi comuni da cui è composto l’insieme delle risorse che appartengono ad una organizzazione. Le competenze contengono sempre un’intenzione, che costituisce l’intensità della motivazione o del tratto che dà origine ad un’azione (comportamento), in vista di un risultato. Un comportamento privo dell’intenzione non può definire una competenza. Essere competenti significa “sapere” ed avere una preparazione specifica che può essere riconosciuta, significa “avere una marcia in più” per lavorare meglio; significa avere → la libertà di voler ciò che si vuole e non solo di fare, o tentare di fare, ciò che si vuole.
  • Essere creativi e innovativi. Il desiderio di poter esprimere la propria creatività è sostanzialmente legato all’attitudine a ideare ciò che ancora non esiste, a interpretare o interpretare di nuovo e in modo originale ciò che ci circonda, per vivere il proprio lavoro dinamicamente e attivamente, senza subire solo passivamente i processi che lo regolano. Anche in un lavoro ripetitivo può essere ricercata un’altra modalità di esecuzione. Per essere creativi è necessario che esistano anche le condizioni per diventarlo, senza che vi siano barriere precostituite, ma adatti canali d’ascolto → libertà di volere ciò che non si vuole e di non volere ciò che realmente si vorrebbe, in sintesi: desiderare di desiderare.
  • Essere un punto di riferimento per gli altri e socialmente utili con il lavoro. È vitale per le motivazioni e la soddisfazione che ne deriva, poter essere d’aiuto agli altri, sia all’interno della propria organizzazione che per la collettività. Tutto ciò significa fare bene il proprio lavoro tenendo in considerazione non solo il rispetto delle regole ma, anche e soprattutto, ispirarsi a principi e valori che si richiamano alla collaborazione spontanea. Voler essere un punto di riferimento non deve essere confuso con l’orgoglio o la presunzione, ma con il desiderio di poter essere d’aiuto, mentre essere socialmente utile significa voler partecipare al benessere della collettività. In questa prospettiva, occorre avere la percezione di poter agire in piena → libertà come possibilità di agire secondo i propri desideri o progetti quando non sussistono impedimenti strumentali, psicologici.
  • Essere leali verso la struttura e l’organizzazione. I comportamenti orientati alla correttezza ed alla fedeltà, sia nell’ambito dei rapporti interpersonali che nella struttura aziendale, costituiscono il “contraccambio” verso un’organizzazione che non conosce cedimenti, compromessi che corrompano il rapporto con le risorse. Essere leali per essere trattati con lealtà. Per essere leali occorre avere la libertà di poterlo dimostrare → libertà come possibilità di agire secondo i propri desideri o progetti quando non sussistono impedimenti strumentali, psicologici.

Potere

Nell’ambito della soddisfazione del lavoro si parla di potere come la capacità di un soggetto di conseguire in modo intenzionale determinati scopi, malgrado l’eventuale volontà contraria o la resistenza attiva o passiva di un altro soggetto (o gruppo di soggetti). Se da una parte risulta indispensabile pensare ad una centralizzazione del potere per evitare il disordine, dall’altra occorre riflettere che l’enfatizzazione della centralizzazione può degenerare in immobilismo. Il potere accentrato si realizza quando il management si assume tutte le decisioni che il lavoro comporta non lasciando alle risorse altro spazio se non quello esecutivo. In questo modo si inducono le risorse a confidare solo nei responsabili e a dubitare della possibilità di avere idee proprie.

“Potere” nell’ambito del proprio lavoro vuol dire avere la possibilità, da parte della risorsa, di intervenire sugli avvenimenti che la circondano nel contesto lavorativo e che la condizionano, compresa la discrezione di programmare il proprio lavoro e di decidere sulle procedure utilizzate per eseguirlo. Questa dimensione del potere acquisito (o concesso) influenza la responsabilità sui risultati del lavoro eseguito o da eseguire e la misura con la quale la risorsa prova la sensazione di avere una responsabilità personale dei risultati, dove il termine responsabilità comprende anche quello di potere. Non si tratta di trasferire la responsabilità, ma di eliminare la percezione di essere solo dei meri esecutori, macchine programmate per reagire a precisi comandi.

  • Poter migliorare continuamente quello che faccio e presidiare progressi e risultati. Il controllo, se gestito fiscalmente, viene generalmente inteso come un possibile attacco alla propria persona, e questa percezione non contribuisce certamente alla creazione di una situazione di benessere organizzativo. Ciò che, invece, il concetto di controllo deve implicare è la capacità delle risorse di saper applicare autonomamente le giuste strategie per valutare e migliorare i percorsi intrapresi, di volta in volta, per lo svolgimento dei compiti e il raggiungimento degli obiettivi assegnati. Fare bene il proprio lavoro e cercare di migliorarsi attraverso un attento e costante monitoraggio del proprio operato costituisce una motivazione che deve essere incoraggiata e sostenuta attraverso iniziative come la formazione e il rilascio di feedback non casuali, ma condivisi attraverso un colloquio tra capo e collaboratore → libertà come possibilità di agire secondo i propri desideri o progetti.
  • Poter impegnarmi nel lavoro. L’organizzazione aziendale genera situazioni nelle quali le risorse possono, se lo vogliono, valorizzarsi. Alcune risorse sono motivate a dare il meglio di sé anche al di là dalla mansione loro assegnata, ma questo orientamento è quasi sempre correlato a un management in grado di fornire le opportunità, per ognuna di esse, di mettere a profitto compiutamente le proprie capacità e conoscenze, oltre alla condivisione dei i valori, della fiducia e della lealtà. Gli obiettivi assegnati devono poter offrire la possibilità alle risorse di esprimere tutto il potenziale professionale di cui dispongono, e il desiderio di migliorare deve essere assecondato → libertà di voler ciò che si vuole e non solo di fare, o tentare di fare, ciò che si vuole.
  • Poter affrontare nel tempo compiti sempre più difficili ed impegnativi. All’interno di un’azienda si usa il termine “funzione” quando ci si riferisce ad un compito specifico assegnato e riconosciuto nell’ambito di un ‘attività organizzata. I compiti presuppongono un insieme di capacità che connotano l’area di responsabilità, dall’Amministratore delegato al neoassunto. È arduo per una risorsa acquisire capacità distinte se il suo lavoro trattiene lo sviluppo delle proprie potenzialità e degrada la sensazione di essere parte integrante di una organizzazione comune. La costante disponibilità di nuove sfide è uno dei fattori che rendono un’attività maggiormente desiderabile. Avere, nel tempo, compiti sempre più impegnativi significa, inoltre, essere riconosciuti come risorse efficienti e poter avere la possibilità di crescere, ma anche tanta voglia d’impegnarsi → libertà di voler ciò che si vuole e non solo di fare, o tentare di fare, ciò che si vuole.
  • Poter sperimentare nuovi approcci organizzativi e gestionali. L’introduzione di nuove procedure o tecnologie all’interno dei processi organizzativi può interferire pericolosamente con il lavoro svolto dalle risorse abituate a prassi ormai stabili, generando situazioni di confusione, stress dovuto alla perdita di controllo dello svolgersi proprio lavoro. Tuttavia “il nuovo”, rompendo con un sistema ormai così consolidato da apparire burocratizzato, può risultare come una iniezione di ricostituente. Un’imprescindibile motivazione al lavoro riguarda la mobilitazione delle energie e delle risorse personali per affrontare situazioni nuove dove confrontarsi. Il desiderio di sperimentare nuovi approcci organizzativi e gestionali è un buon terreno da coltivare per garantire un efficace processo di cambiamento → libertà di volere ciò che non si vuole e di non volere ciò che realmente si vorrebbe.
  • Poter lavorare in una situazione lavorativa stimolante, nella quale portare cambiamenti ed innovazioni. Le situazioni di lavoro (differentemente dal contesto, che è precostituito e statico) sono determinate dal complesso delle dinamiche sociali, organizzative ed economiche all’interno delle quali si svolgono le attività che danno luogo all’instaurarsi della loro variabilità. La mancanza di fiducia, l’ostracismo, l’invidia, la rivalità, l’isolamento, i compartimenti stagni tra settori e le barriere alle comunicazioni sono elementi utili solamente ad ingessare l’organizzazione ed a deprimere la buona volontà di chi lavora → libertà come possibilità di agire secondo i propri desideri o progetti.

“Far agire” rappresenta una competenza irrinunciabile del manager. Gli esempi qui riportati sono solo alcuni, forse quelli più evidenti. Ma ne esistono altri che occorre portare alla luce del management e che sono il frutto del voler comprendere il mondo che coinvolge chi organizza e chi agisce.

Occorre chiedersi:

  • Vivere in una organizzazione significa essere inclusi o farne parte?
  • Agire significa fare o compiere un’azione?
  • Come ci si può accorgere dell’agire intenzionalmente?
  • Come ci si può accorgere dell’agire spontaneamente
  • Decidere di fare è equivalente al solo fare?
  • Cosa significa essere responsabili?
  • Come si relazione la libertà all’esigenze dell’organizzazione?
  • Sono evidenti le necessità delle risorse che lavorano?
  • C’è disponibilità all’ascolto dei suggerimenti dati dai collaboratori?
  • Si favoriscono nuove idee e si dispone di efficienti canali di ascolto per sollecitarle?
  • Le competenze di ciascuno sono a disposizione di tutti, la collaborazione tra colleghi viene incoraggiata dal management?
  • L’attribuzione della responsabilità decisionale è chiara e ben definita?
  • Le nuove e diverse idee vengono messe alla prova?
  • Si apprezza chi esegue il proprio lavoro anche fuori dalle procedure?
  • I collaboratori possono contribuire alla pianificazione e all’organizzazione del lavoro?
  • Esiste un allineamento degli obiettivi di lavoro assegnati agli obiettivi dell’organizzazione?
  • Esiste una chiara visione delle responsabilità di ogni attività?
  • Regolamenti e norme sono chiari e puntuali?
  • La maggior parte del personale è al corrente delle finalità aziendali?
  • Vengono assegnati compiti di adeguato contenuto professionale?
  • Viene concessa autonomia senza eccessivo controllo?
  • Il management ascolta quando viene espresso il dissenso?
  • Il management comunica o impartisce ordini?
  • Il management incoraggia a decidere in modo autonomo?
  • Il management è attento allo sviluppo delle professionalità delle proprie risorse?
  • Il management offre possibilità di progressione di carriera e crescita professionale?

 

Articolo a cura di Antonello Goi

Profilo Autore

Laureato presso l’Università Statale di Milano in Filosofia, ho acquisito un’esperienza nell’ambito delle Risorse Umane.
In particolare ho assunto la responsabilità, in azienda Leader delle telecomunicazioni, della Selezione del personale, della Formazione, Gestione HR, Relazioni Industriali.
Collaboro per gambelassociati per quanto riguarda la Formazione Manageriale Aziendale e Interaziendale, attraverso attività di consulenza, progettazione ed erogazione di corsi di formazione.

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