Kant, filosofo e anticipatore della modernità, ci ha lasciato molte opere di indubbio valore intellettuale che continuano a mostrare l’attualità delle sue concezioni, soprattutto se inserite in contesti pratici e concreti; ciò proprio per lo spirito di pragmaticità insita nella filosofia agita e nel concetto di morale che ci tramanda.
Mi sono quindi chiesta come sarebbe trasporre la sua dottrina nel campo aziendale e quali insegnamenti potremmo trarne. Agli scettici che ritengono che i filosofi andrebbero confinati nelle accademie, vorrei ricordare che Marchionne aveva una laurea in filosofia.
All’inizio del libro parafrasato nel titolo, Kant parla di “volontà buona”, ciò che è possibile considerare buono in sé o in senso assoluto. Esso si distingue dai talenti dello spirito e dai doni della fortuna in quanto questi ultimi non sono buoni in senso assoluto e quindi, senza una volontà buona che ne guida l’uso, possono dispiegare effetti negativi e disastrosi.
Il primo compito per un imprenditore che si propone di impiegare un nuovo lavoratore è quindi quello di scovare colui che abbia una “volontà buona”, al di là dei titoli e dell’esperienza. Esso è un po’ come una lampadina il cui vetro, affumicato e annerito, assopisce la luce che comunque rimane presente e brillante all’interno: sta al bravo datore di lavoro (e alle risorse umane nella pratica) di scovare costui e rimetterlo a nuovo. Per aiutarci nell’impresa di trovare questo tipo di lavoratore, Kant mette a punto la nozione di dovere.
Un’azione morale compiuta per dovere possiede il suo valore morale non nello scopo ma nella massima in base alla quale è stata decisa. Quindi, non un pavido che rispetti gli ordini ma una persona dotata di raziocinio e problem solving, che si ponga davanti alle situazioni in maniera creativa. Il dovere però è anche “necessità di un’azione per rispetto della legge”: pertanto bisogna adattare le proprie decisioni e comportamenti all’etica dell’azienda, anche andando contro a ordini dei diretti superiori.
È importante, infatti, trovare qualcuno che lavori con (e per) l’azienda e non per il suo capo: come sappiamo, superiori e manager si susseguono velocemente e la volontà e le inclinazioni umane sono volubili e precarie. Ciò che deve rimanere sempre fedele a se stessa è l’etica aziendale, la sua mission, nell’ottica di rispettare la fedeltà accordata dal cliente. Sfatiamo quindi un mito marxista-proletariale: l’obiettivo per l’imprenditore non è generare profitto ma implementare la qualità. Solo uno stupido spremerebbe i suoi lavoratori per produrre merci mediocri in un mercato internazionale, globalizzato e votato alla legge della libera concorrenza.
Ma come accordare la propria mission al pensiero etico kantiano?
Innanzitutto, ricordiamo che ciò di cui Kant parla è un’etica pratica che si esprime attraverso la scelta di azioni morali concrete, pertanto, ciò di seguito descritto può essere utile per stilare il codice deontologico o il codice etico dell’azienda, a cui i lavoratori (e anche i capi) devono attenersi. Come suggerisce Kant nella descrizione di ciò che è dovere, esso esula da mere forme esteriori per interessare la volontà di scegliere di adattarsi a quel codice aziendale che si ritiene buono in sé e generatore di esternalità positive per i lavoratori, i clienti, gli stakeholder e la società circostante. Il dovere diventa quindi un dover essere.
Kant descrive quindi due tipi di imperativi: l’imperativo ipotetico e l’imperativo categorico. L’imperativo ipotetico comanda un’azione in vista di altro, è ferma sul dovere, mera estrinsecazione e azione fattuale, scevra da una volontà buona. Un esempio potrebbe essere arrivare puntuali per non prendere l’ennesima ramanzina invece che per la consapevolezza che il mio tempo vale come quello dei miei colleghi ed è moralmente giusto, percependo lo stesso stipendio, rispettare gli orari concordati. Dall’altro lato, il responsabile non deve riprendere l’impiegato in ritardo per compiacere il superiore e avere la promozione in quanto ha dimostrato di essere ligio al dovere, quanto mettere in campo una capacità discrezionale e rinnegare ogni possibile manifestazione di “positivismo aziendale”.
L’imperativo categorico, invece, rappresenta un’azione in se stessa oggettivamente necessaria. Solo gli imperativi categorici, perciò, sono la legge morale. A questo punto Kant introduce le tre formule dell’imperativo che, essendo universali, possono essere trasposte anche in campo aziendale:
Ciò che per Kant è importante sottolineare è, comunque, il rinnegare un adeguamento alle leggi puramente esteriore.
Senza addentrarci in discorsi filosofici complessi, ciò che è importante sapere è cosa guida la volontà che, essendo legislatrice, pare essere totalitaria. La ragione riferisce ogni massima della volontà avendo a mente l’idea di dignità di un essere razionale che obbedisce solo alle leggi che egli stesso si dà. Non quindi costrizione ma comprensione e dialogo.
Bisogna, inoltre, tenere a mente una differenza importante: nella tua azienda ti troverai ad avere a che fare con qualcosa che ha un prezzo e con qualcuno che ha dignità. Il prezzo è quello dei beni e servizi prodotti, deciso dal mercato, designa qualcosa che può essere comprato per usufruirne a piacimento. Ciò che ha dignità è fine in se stesso, ha valore e non prezzo e, quindi, non è acquistabile. Il lavoratore ha quindi dignità e non prezzo: ciò che l’imprenditore paga in salario monetizzato è il suo tempo e le sue capacità, non la persona in sé (quella si chiama schiavitù ed è punita in molti stati civili già dalla fine dell’800) che non è acquistabile semplicemente perché non è in vendita. Ricorda sempre che sei (o hai) un capo, non un padrone.
In conclusione voglio assicurarti che, se hai deciso di introdurre i tre imperativi nel tuo codice etico aziendale, i tuoi lavoratori sostituiranno il cartello che nella loro mente troneggia all’entrata del posto di lavoro – che dice “lasciate ogni speranza voi che entrate” – con uno molto più rassicurante che, nelle parole di Kant, dice più o meno così: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.
Articolo a cura di Sara Santella
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