Fusioni e incorporazioni: strategie nuove, pensieri da rinnovare, colleghi diversi…
Il tema delle fusioni aziendali è un argomento caldo e attuale, una strada continuamente da ritracciare che crea momenti e spazi impegnativi da maneggiare sia a livello organizzativo sia a livello individuale.
In tutta questa complessità sorge una domanda: Che cosa ci può sostenere nell’andare verso il futuro in questi spazi?
Le riflessioni qui di seguito scaturiscono da un tempo consistente di lavoro sul tema, come consulenti sul campo (in banche, aziende di produzione di beni e servizi, enti), ma anche come diretti interessati, con momenti che ci hanno toccato direttamente nelle organizzazioni di cui facciamo parte.
Sappiamo bene come i percorsi di fusione portano fortemente a galla il tema dell’incertezza – poche conferme se non quelle relative al passato, al come era ieri – accanto a curiosità, sfida, paura… Così a tutti i livelli si pone il problema di come ci stiamo attrezzando per imparare a stare in questo flusso di emozioni. In molti casi più si avverte l’incertezza, più si attivano processi di controllo e di dominio degli eventi, nel vano tentativo di “raddrizzarli”. Ogni situazione distonica rispetto ai programmi, che arrivi dall’interno o dall’esterno, è vissuta come un intralcio al ripianare”, “raddrizzare”; un forte impedimento a costruire il lavoro, il progetto aziendale, dell’ente, del proprio servizio. Allora nel presente cogliamo esclusivamente la distruzione dei legami tra le persone, con, a volte, nostalgia del passato e del “come funzionavano bene le cose allora”. Si osserva un forte attaccamento, da parte di ogni livello professionale, al proprio modo di intendere il lavoro, al modo di pensare/sentire i rapporti con i colleghi. Questo attaccamento non consente di sviluppare un pensiero riflessivo sugli interrogativi che il presente ci pone ed impone, una riflessione sul funzionamento di un’organizzazione che non è – e non lo è mai stata anche se ci siamo illusi che lo fosse – coerente, lineare, razionale. Nasce in questi spazi un po’ di ansia e destabilizzazione rispetto ad una complessità che pretende uno spostamento continuo di pensieri e punti di vista.
Forse l’unico modo per procedere è quello di mettere al centro delle riflessioni delle domande, domande che ci consentano uno sviluppo innanzitutto di pensiero, che ingaggino tutti gli stakeholder, anche se a livelli diversi. Una potrebbe essere: “Come poter sostenere il costante e continuo processo di costruzione sociale del futuro organizzativo in uno spazio che amplifica le emozioni latenti?”.
Se in tempi non “sospetti” la visione del futuro da parte delle organizzazioni porta ansia, paura, incertezza e si preferisce orientarsi sul “qui e ora”, proprio questa tendenza, nei momenti di “forte trasformazione” alimenta una visione del futuro minacciosa e “determinata da altri”. Così l’immaginario che si crea è quello in cui soltanto alcuni possono vincere–guadagnare, mentre altri sono destinati a vivacchiare, producendo sempre più velocemente o in condizioni sempre più sfavorevoli, facendo fronte “per il meglio che possiamo”. Si genera quindi un profondo impatto emotivo, che non può essere ignorato e che condiziona pesantemente le rappresentazioni del futuro, prevalendo sulla realtà. Il peso della dimensione emotiva rischia, in altre parole, di diventare il vero e proprio blocco che impedisce di accostarsi ai contenuti, per comprenderli, renderli espliciti, con il rischio di ripiegarsi sulla propria realtà di ogni giorno, sotto il peso dell’impotenza che la stessa quotidianità allenta nella sua anestetizzante e tranquillizzante ripetitività. Questa tendenza si può anche nascondere nella costruzione ossessiva di piani, programmi, progetti, delibere che tendono a fare “la massima” chiarezza sul futuro, con l’illusione di poter controllare, ordinare, eliminare problemi ed incertezze. Si punta quindi, tendenzialmente, a “buone idee” per costruire grandi progetti e riorganizzazioni, piuttosto che cogliere anche le idee buone, ma piccole o parziali, che permettono di costruire il “tangram” dell’organizzazione.
Tre elementi abbiamo visto hanno aiutato a evolvere in questi momenti:
- Avere uno scopo chiaro e dichiarato e coinvolgere in questo le persone in modo da renderlo “visibile”, ma soprattutto “ accoglibile anche se non sempre totalmente “accettabile”.
- Rendere a qualche livello le persone partecipi del processo di costruzione lasciando anche degli spazi di riaggiustamento autonomi.
- Creare spazi di comunicazione e riflessione condivisi trasparenti e chiari, perché le persone non si sentano sole. Sembra infatti paradossale, ma in questi percorsi organizzativi uno dei temi più delicati è proprio il senso di solitudine nel quale le persone si trovano, come se il percorso riguardasse in primis proprio loro come individui.
La costruzione sociale del futuro può darci l’occasione di ritrovare il potere di stare nella realtà senza trovare rassicurazioni ingabbianti che bloccano il futuro. Si tratta di costruire un pensiero che ci aiuti ad entrare in reale contatto con le diverse storie, biografie individuali anche, presenti nei contesti organizzativi; che ci sostenga nel gestire il timore e l’ansia, il senso di inadeguatezza per costruire ipotesi e suggestioni per affrontare l’incertezza del futuro. La sfida diventa pertanto la possibilità di pensare il futuro svincolandolo, almeno in parte, da letture ed indicazioni di tipo economico, politico e sociale, che hanno un potere fortemente paralizzante sulle scelte, le strategie, la riflessività, il ripensare l’organizzazione… Dati esterni importanti — e per certi versi interessanti — ma che se non assunti con specificità dai diversi contesti organizzativi rischiano di offuscare l’individuazione di obiettivi e priorità, per la costruzione di cambiamenti e progetti che abbiano un senso specifico.
Un altro aspetto che rileviamo frequentemente è la tendenza alla completa delega ai “vertici,” ai “capi”, all’“azienda a pensare al nuovo disegno. Si chiede a chi detiene ruoli di autorità di tracciare la rotta, di dare indicazioni, di costruire il sogno e gli strumenti per realizzarlo, infondendo sicurezza. Aspettative dense di idealizzazioni, di attese salvifiche che spesso perdono il loro potenziale nel momento in cui al ruolo si associa un nome, che spesso viene sottoposto a pesanti valutazioni da parte degli stessi collaboratori. Del resto da parte degli stessi capi, rari sono i casi di condivisione con il resto dell’organizzazione, del team, fermandosi a dichiarazioni programmatiche, slogan che spesso rimangono affissi ai muri o chiusi in un cassetto. L’investimento sull’autorità rispetto al futuro rischia di oscurare iniziative parziali, alle volte individuali, in quanto non codificate all’interno di istruzioni e costruzioni formali. Queste parzialità si “rivelano” positive soltanto nel momento in cui vengono condivise con altri, e soltanto allora permettono agli stessi proponenti di coglierne il carattere innovativo. Il rischio è, altrimenti, una scissione sempre più grande tra il ruolo sempre più spinto a dare soluzioni e risposte e il sistema sociale che ripropone dinamiche spesso poco comprese ed assunte dai vertici. Si rileva pertanto una difficoltà generalizzata a riconoscere e dare credito a progettualità, azioni, iniziative che già di per sé producono risposte e soluzioni, ma che se non condivise non diventano patrimonio. Questo potrebbe spingerci a rivedere il ruolo dell’autorità nei momenti di criticità, perché diventi promotore di corresponsabilità nella costruzione del futuro. Nasce così l’interrogativo su come costruire alleanze nella visione dei problemi e sulle azioni per affrontarli; su come alimentare fiducia sapendo che si tratta di un percorso progressivo in cui occorre essere aperti ad accogliere la fatica; su come sostenere riconoscimenti, contrastare banalizzazioni, aiutare iniziative e legittimazioni. Si apre la questione del rapporto tra futuro collettivo ed organizzativo, individuale e professionale. Nella piccola dimensione questo sembra più plausibile in quanto il singolo sente di poter incidere maggiormente sulla propria organizzazione; nelle grandi aziende e nella pubblica amministrazione il potere di influenzare sembra più limitato e circoscritto, ma non per questo impossibile. Il rischio è altrimenti creare ancora più frammentazione e specializzazioni in sistemi organizzativi e sociali sempre più complessi, che necessitano di luoghi e strumenti di integrazione e ricomposizione.
La costruzione del futuro organizzativo passa quindi, principalmente, dal concedersi una riflessione su alcuni punti essenziali:
- il rapporto con emozioni d’incertezza, timore, ansia che vanno nominate, riconosciute per poterle sfruttare come emozioni che non paralizzano, ma stimolano la creatività, dando spinte generative;
- riconoscere dove siamo per pensare al futuro e poterlo costruire; dove stiamo andando sapendo che nella complessità sociale, dei mercati e del mondo anche le organizzazioni non possono muoversi in modo lineare come aspireremmo; dove vogliamo/dobbiamo andare e scoprire, focalizzare desideri, obiettivi anche nuovi – che forse, ad ora, non abbiamo mai osato mettere in campo; dove possiamo andare;
- come poniamo in dialogo passato-presente e futuro;
- la costruzione di spazi a tutto tondo che consentano una pensabilità sul futuro non imprigionata da rappresentazioni “troppo anguste” o scontate.
Pensare le fusioni significa pertanto investire sul gruppo, sul contesto sociale, il solo che può contenere e sostenere questi punti, in una spinta alla corresponsabilizzazione dell’intero contesto organizzativo. Favorire, pur nella necessaria diversità, lo scambio funzionale al lavorare insieme è l’unico modo che consente di costruire nuovi significati. Questa visione non necessariamente tranquillizza, ma consente un maggiore distacco, centrandosi su oggetti di lavoro e non soltanto su vissuti emotivi. Proprio il contesto sociale (come confermano ormai molte ricerche sul campo), il gruppo, permette riflessioni che rispondono alla complessità del momento e che non possono emergere soltanto dal singolo, dal dirigente, dall’alta direzione. S’innesca così un riappropriarsi; una responsabilizzazione rispetto al futuro che non è più individuale, ma collettiva, abbassando il senso d’incertezza e rendendo il futuro più chiaro, realistico, sostenibile grazie al confronto tra attese dei singoli e dell’organizzazione.
In questa prospettiva la dimensione socio-relazionale diventa il fulcro su cui puntare per la generazione di valore; un valore che è portato dalla capacità/ possibilità di “incrementare” capitale “sociale” (inteso nella sua definizione sociologica di qualità che scaturisce dall’interazione tra persone) attraverso la collaborazione, la capacità di lavorare insieme e di costruire reciprocamente fiducia. Un capitale sociale che consente di generare dei vissuti di appartenenza che sostengono la riflessività oltre che l’“affettività” che ognuno sviluppa nei confronti del contesto organizzativo di riferimento. L’organizzazione diventa un “bene” sociale-collettivo, non relativamente alla proprietà, ma in relazione alla sua costruzione/funzionalità e soprattutto al suo scopo. Investire nei percorsi di fusione sul gruppo, sulle persone, diventa pertanto uno strumento d’intervento a tutto tondo. Si tratta di puntare sul valore qualitativo del gruppo-organizzazione, che permette di sostenere i singoli nella propria realizzazione individuale, oltre che orientarsi sull’efficacia e sulla produttività organizzativa. Prendiamo in prestito le parole di Spaltro in relazione ai processi: “tutto deve diventare un po’ più amico di chi lo fa”, lo stare nel tutto, ma soprattutto la comprensione, l’aprire il senso di ciò che si fa.
Anche nei progetti di fusione pertanto il futuro non può essere pianificato a tavolino, perché non fatto di “grandi idee”, “progetti”, “visioni”, “soluzioni”, ma di piccoli passi quotidiani che vanno anche letti scoperti, individuati, pensati e soprattutto condivisi.
Un futuro che non è “dato”, ma che si configura come una continua ricerca e costruzione da parte dell’intera organizzazione.
Ecco a cosa serve il futuro: a costruire il presente con veri progetti di vita.
Muriel Barbery, L’eleganza del riccio.
A cura di: Ilaria Buccioni
Docente di Consulenza Organizzativa presso Università degli Studi di Siena