Giochiamo alla gamification

Le aziende cool, quelle poche vere e la stragrande maggioranza delle altre piene solo di parole, oggi mettono davanti a tutto (e a tutti) due termini: storytelling e gamification.

Sul primo, non si contano più i corsi, i manuali e i convegni, tanto che c’è chi dice che ormai siamo giunti al capolinea e che la vera sfida sarà la transizione dallo storytelling allo storydoing, sul secondo, dato anche l’infinito territorio in cui agisce (motivazione operativa e coinvolgimento attivo), la “partita” appare ancora molto aperta.

Perché “giocare” in ambiti non tradizionali per il gioco fa raggiungere meglio e prima gli obiettivi? Posto che il gioco non è un’esclusiva delle età, per così dire, evolutive (quanti adulti “ammazzano” il tempo sul luogo di lavoro con il “mitologico” solitario di Windows?), occorre spingersi verso le cause psicologiche per comprendere come mai questa tecnica sia entrata di diritto nelle strategie aziendali.

Alla base di tutto c’è la soddisfazione di uno o più desideri

Il raggiungimento di un obiettivo, la costruzione di esperienze e la conseguente ricompensa, costituiscono la parte più intima della natura umana. Dentro ci stanno la concorrenza (lo stimolo a fare meglio) e la collaborazione (l’altruismo finalizzato a conquistare successi di squadra).

Il senso del team

Quando i premi vanno a beneficio di tutti, ancorché in un contesto competitivo, diventa vincente la correlazione fra lo spirito di squadra e i migliori risultati che si possono ottenere solo giocando collettivamente. Il gioco di “un uomo solo al comando”, nel breve periodo fa “guadagnare” il singolo, ma indebolisce la prospettiva di crescita aziendale.

Per questa ragione, i “traguardi” devono essere inizialmente facili da raggiungere per tutti, ma successivamente quelli più impegnativi (e remunerativi) andranno conquistati secondo logiche di squadra.

Una buona storia gioca con il cuore

Che si tratti di storytelling o di una “semplice” narrazione motivazionale, lo scopo della gamification è anche quello di accendere un interruttore emotivo. Sapere da parte di tutti i reparti quale sarà la rotta (Perché lo facciamo? Cosa vogliamo raggiungere? Quale sarà il beneficio finale?) accresce l’interesse per il risultato.

Non sempre gli obiettivi sono a portata di mano, anzi può succedere di fallire. Ma se tutto questo avviene nella chiarezza, anche la delusione si trasforma in esperienza.

Un antidoto contro il famigerato burnout

Gli esseri umani hanno scarse capacità multitasking e sono assai poco abili nel gestire sovraccarichi cognitivi importanti. Il gioco allieva lo stress e cancella dal cervello ogni tipo di interferenza.

Quando siamo “impegnati” con il famoso solitario (ma potrebbe essere anche Angry Birds senza che il concetto cambi) la nostra mente non è focalizzata su ciò che faremo domani o sulle scadenze casalinghe, la concentrazione è tutta sul (e per) il gioco.

Ora, se il gioco in chiave aziendale diventasse una pratica non solo fine a se stessa, ma includesse un’esperienza di apprendimento gratificante (divertimento-obiettivo-ricompensa) di sicuro avremmo fatto un investimento sulla concentrazione orientata verso gli obiettivi chiave della crescita.

Ci dispiace più perdere che gioire per un guadagno

Fateci caso, preferiamo di gran lunga evitare di perdere 50 euro, invece che ritrovare una banconota di pari valore.

Spostando il concetto sulla gamification, ciò si rivela come un potente meccanismo di difesa dei livelli (guadagni) acquisiti. La conseguenza? Continuare a giocare per migliorarsi, ma soprattutto per non perdere. A livello aziendale, va da sé il consolidamento di un’enorme capacità a reggere anche i contraccolpi più insidiosi.

Come si è visto, la gamification pone le basi per trasformare radicalmente il modello di business di qualsiasi azienda. Ovviamente, si tratta di mutazioni di medio-lungo periodo e, soprattutto, le “azioni di gioco” non è possibile improvvisarle. All’estemporaneità, sotto molti aspetti folkloristica, di numerose attività di team building, la gamification contrappone la necessità di un metodo, sebbene non rigidissimo.

Infatti, già dalle prime implementazioni occorrerà fare i conti (e saper gestire) i variegati profili psicologici che emergono nelle attività ludiche, in questo caso amplificati dal peso dei differenti ruoli che i player ricoprono all’interno dell’azienda.

L’azionista

Il riferimento non riguarda l’aspetto finanziario, quanto quello del “giocatore” determinato a dimostrare di essere il migliore. Per evitare che questi soggetti abbiano come unico obiettivo la loro auto-realizzazione (facendo, in un certo senso, corsa a sé), diventa essenziale riconoscere la loro “bravura” dentro un sistema premiante collettivo. Le doti e le abilità non comuni del singolo vengono valorizzate (e premiate) solo se sono in grado di trascinare l’intero team. Il concetto è quello delle cronometro a squadre nel ciclismo: il tempo finale della prestazione è quello dell’atleta che taglia il traguardo per ultimo.

L’esploratore

A prima vista, questo “giocatore” potrebbe apparire come una sorta di scheggia impazzita. È sempre il primo a uscire dal seminato, cioè dalle regole del gioco.

Tuttavia, se opportunamente incentivato a scoprire nuove possibilità (non dimentichiamoci che è nella sua natura) è anche ben disposto a condividere le nuove informazioni con il resto della squadra. Nasce da qui il paradigma del metodo in progress della gamification, ovvero le regole e gli obiettivi non vietano l’introduzione di inediti approcci “laterali”.

Il comunitario

La socializzazione rappresenta l’aspetto più importante per questo tipo di “giocatore”. Il suo scopo- obiettivo è essenzialmente quello di discutere con gli altri e, di conseguenza, si aspetta di ricevere dei feedback sulle sue proposte. Prevedere momenti di briefing e di de-briefing periodici sugli obiettivi e i risultati della gamification all’interno dell’azienda, è il modo migliore per coinvolgerlo e motivarlo.

L’antagonista

Il mondo non è perfetto, men che meno quello delle aziende. Quando si introduce una novità (e la gamification lo è al cubo) è inevitabile dover fare i conti con qualcuno che rema contro e che farà di tutto per dimostrare che si sta perdendo tempo.

La schiera dei contrari può essere molto articolata: dal soggetto refrattario a qualsiasi iniziativa al vero e proprio troll che impiega tutte le sue energie per provocare reazioni avverse nel resto del team. Senza poter contare sulla bacchetta magica, la strategia di inclusione non potrà che essere un certosino lavoro di chiarezza scevro da qualsiasi equivoco.

La gamification è sfida (facile da comprendere e altrettanto cristallina nelle ricompense), obiettivi (il beneficio per uno dipende dal beneficio per tutti), feedback (tutti sanno come si gioca e cosa c’è in palio), controllo (le regole sono note a tutti, ma ognuno può metterle in discussione).

La gamification è dappertutto, anche dove pensiamo che non ci sia

Fermo restando il precetto secondo il quale quando un prodotto è gratis, il prodotto siamo noi, non è difficile scovare autentiche logiche di gamification in un servizio di file hosting come Dropbox.

L’obiettivo finale della società è ovviamente quello di vendere il pacchetto a pagamento, ma anche di incrementare la rete degli utenti. Due cose che, a guardare bene, vanno in parallelo.

Siccome la dotazione iniziale di 2GB (gratuita) è per molti versi insufficiente, Dropbox si è “inventata” una strategia che fa perno sul bisogno di aumentare lo spazio di storage. Vuoi l’agognato premio dei gigabyte supplementari gratuiti? Fai iscrivere un tuo amico, salva le tue foto, collega i tuoi account social e via di questo passo.

Un altro brillante esempio di gamification è quello di Duolingo, uno dei migliori servizi online per imparare le lingue. Il livello di apprendimento raggiunto si può mantenere solo attraverso l’esercizio quotidiano. Senza un’applicazione costante, il livello scende.

Non è tutto. Più si raggiungono livelli elevati (come in un videogames) e maggiore è il guadagno di Lingot (la gratificazione). Una sorta di moneta virtuale con la quale è possibile acquistare lezioni extra o “vestire” il gufo (la mascotte di Duolingo).

La classifica a punti che fa ottenere dei badge, con il conseguente passaggio al livello successivo, è alla base del sistema di Local Guide di Google. Il colosso di Mountain View ha creato il più grande database di informazioni su locali commerciali e luoghi d’interesse sfruttando la gamification.

Contribuire con foto, recensioni e commenti, oltre a una maggiore visibilità dei contenuti, lo “sblocco” del badge di guida locale (a chi non piace avere una medaglia di Google, ancorché virtuale?), permette di ottenere vantaggi come l’accesso in anteprima ad alcune funzionalità dell’eco-sistema Google e l’estensione di privilegi riservati ai partner.

A cura di: Sergio Gridelli

Profilo Autore

Si occupa di comunicazione aziendale e dell’elaborazione di contenuti per il web. Cura i profili social di aziende e professionisti. Nell'ambito della formazione aziendale tiene corsi sulla comunicazione interpersonale, il public speaking, il marketing digitale e su come realizzare presentazioni multimediali efficaci.

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