Governare il cambiamento nell’era dell’incertezza con l’aiuto dell’innovazione. Con il digitale e oltre, verso l’industria 4.0, passando per IoT, AI, AR/VR, Cloud Computing & Big Data
Il nostro Paese è nel mezzo di un delicato passaggio che richiede ad imprese, lavoratori, famiglie ed Istituzioni un “cambio di passo” per affrontare le tante sfide che si presentano, con una atteggiamento più proattivo di quanto è avvenuto fino ad ora. Crisi sistemiche e finanziarie, un quadro internazionale di grande incertezza, bassa crescita, invecchiamento della popolazione, indebitamento, disoccupazione, alta tassazione ed un certo ritardo nella definizione delle politiche industriali governative, ci dovrebbero indurre ad adottare un atteggiamento più deciso rispetto all’“ordinario” modello di procedere.
In particolare, per le imprese, sarà necessaria una maggiore determinazione per raccogliere le opportunità connesse ai grandi cambiamenti in atto, mettendo in campo la giusta dose di innovazione tecnica al fine di consolidare ed accrescere la propria competitività.
Le sfide da affrontare
Ad agosto 2017 sono ormai passati dieci anni dalla grande crisi sistemica che nel 2007, partendo dagli Usa, ha poi colpito l’Europa e quindi il nostro Paese. Non è stata l’unica. Come ci informa Isabella Bufacchi nell’articolo “Cosa imparare dalle ultime cento crisi” apparso su “Il Sole 24 Ore” del 17 agosto 2017[1], “Dal 1970 ad oggi, l’Europa è stata colpita da 50 crisi sistemiche e 43 crisi finanziarie non sistemiche caratterizzate da forti turbolenze sui mercati azionari, obbligazionari e valutari che hanno a volte distrutto, a volte scosso i sistemi bancari nazionali e che hanno rallentato duramente o fatto crollare l’andamento economico nei 28 Paesi della Ue più la Norvegia. In questo mezzo secolo di turbolenze, l’Italia è stata travolta dalle ondate delle grandi crisi subendo la stessa sorte dei principali Paesi europei, registrando tre crisi sistemiche (una negli anni 1991-1997 e due tra il 2011 e il 2013) e sei crisi finanziarie molto rilevanti ma non sistemiche (nei periodi 1973-’79, 1981-1983 e 2008-2011)”. L’effetto – evidenziato da Llewellyn Consulting – è stato che “Nonostante gli sforzi delle banche centrali, i tassi, l’inflazione e la crescita viaggiano su livelli storicamente molto modesti e potrebbero rimanere così bassi per un lungo periodo”, considerando poi alcuni critici aspetti strutturali “l’invecchiamento della popolazione, un rallentamento del progresso tecnologico e della produttività; la decentralizzazione delle economie; l’indebolimento della spesa sulle infrastrutture; la prudenza degli investimenti privati; la diseguaglianza e il divario tra ricchi e poveri; gli spiriti animali oramai fiacchi; l’incertezza politica.” Tra i suggerimenti, “promuovere innovazione e investimenti in R&S”.
Nel frattempo, le imprese faticano a trovare le competenze sul mercato: per quanto riguarda i laureati, la richiesta di profili tecnici (ingegneri e specialisti scientifici) supera le attuali immissioni da parte delle Università, come emerge dalla ricerca Excelsior-Unioncamere/Anpal[2]. Peraltro, tra le più lente in Europa, come emerge dai dati Eurostat, richiamati da Davide Mancino in “Il passaggio da studio a lavoro in Italia è il più lento del continente. I dati Eurostat raccontano la difficoltà dei giovani italiani a entrare nel mondo del lavoro. A tre anni dal diploma lavorano quattro ragazzi su 10, per chi si laurea la quota si alza a sei. Meglio nelle altre nazioni europee”, pubblicato su Wired.[3]
L’evidenza di un “disaccoppiamento” tra le esigenze delle imprese ed i percorsi formativi si ha considerando l’elevato tasso di disoccupazione giovanile, come ricorda Eurostat nel bollettino 131/2017 del 31 agosto 2017[4]: “In July 2017, 3.792 million young persons (under 25) were unemployed in the EU28, of whom 2.670 million were in the euro area. Compared with July 2016, youth unemployment decreased by 450 000 in the EU28 and by 272 000 in the euro area. In July 2017, the youth unemployment rate was 16.9% in the EU28 and 19.1% in the euro area, compared with 18.7% and 20.8% respectively in July 2016. In July 2017, the lowest rate was observed in Germany (6.5%), while the highest were recorded in Greece (44.4% in May 2017), Spain (38.6%) and Italy (35.5%).”. E’ opportuno ricordare come tra i principali fattori che mantengono la produttività del lavoro più bassa in Italia vi sia proprio l’insufficiente livello di occupazione giovanile. Il nostro Paese non riesce infatti a garantire un futuro ai giovani, come emerge dalle seguenti considerazioni [3]: “Il 68% dei giovani sotto i 34 anni di età – quasi nove milioni di anime – vive ancora coi genitori […]pure quel 24,3% dei giovani tra i 14 e i 29 anni – dieci punti sopra la media europea – che non studiano né lavorano […] Il tasso di natalità tra i più bassi al mondo, […] Un’agenda di priorità che lascia ai margini la scuola, la formazione, l’innovazione, favorendo l’assistenzialismo.”.
Con il risultato di spingere all’estero i giovani più qualificati, come evidenzia Andrea Carli nell’articolo “Oltre 250mila italiani emigrano all’estero, quasi quanti nel Dopoguerra” del 6 luglio 2017 su “Il Sole 24 Ore”:[5] “a partire a partire dalla crisi del 2008 e specialmente nell’ultimo triennio, le partenze hanno ripreso vigore e hanno raggiunto gli elevati livelli postbellici, quando erano poco meno di 300.000 l’anno gli italiani in uscita […] il 34,6% con la licenza media, il 34,8% con il diploma e il 30,0% con la laurea, per cui si può stimare che nel 2016, su 114.000 italiani emigrati, siano 39.000 i diplomati e 34.000 i laureati […] i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di 2,5 volte e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero, un livello pari ai flussi dell’immediato dopoguerra”.
Queste difficoltà si inseriscono in un contesto internazionale caratterizzato da una significativa globalizzazione, con la sua insostenibile spinta alla riduzione dei prezzi (e dei costi, particolarmente sentita nelle attività lavorative con minori contenuti professionali), da una deflazione di lungo periodo europea e da una competitività senza sconti tra aree mondiali e tra Paesi all’interno di queste. L’Italia ci aggiunge di suo un consistente aggravio per il servizio del debito pubblico (debito che ha raggiunto oltre 2.260 miliardi di euro) e di carico previdenziale (stimabile intorno ai 90 miliardi l’anno) su imprese e cittadini. Un peso che contraddistingue il nostro Paese e si traduce in prelievi e tassazione più elevati indotti da un welfare “già speso”.
Criticità che vanno affrontate, con la consapevolezza dei molti punti di forza esistenti. Anche quantitativi. Come la capacità di esportazione, che nel 2016 ci vede, con 417 miliardi di euro, al quarto posto per valore in EU28 dopo Germania, Olanda e Francia (per fare un esempio il Veneto da solo, con quasi 60 miliardi di esportazioni, supera 13 dei 28 Paesi europei) ed al terzo posto in termini di bilancia commerciale con ben 50 miliardi di attivo. Senza dimenticare i ben 1500 miliardi di euro di PIL (quarta posizione in EU28) e la seconda posizione nel manifatturiero dopo la Germania. [6]
L’impatto dell’high-tech
Una prima considerazione è di natura quantitativa: le big five americane dell’alta tecnologia (Apple, Google, Microsoft, Amazon e Facebook) insieme creano ogni anno più ricchezza di un intero continente. Producono oltre cinquecento miliardi di fatturato all’anno e nello stesso periodo generano un utile intorno a cento miliardi. Insieme, hanno una capitalizzazione di circa tremila miliardi.[7]
A cosa è dovuta tanta ricchezza generata? Probabilmente all’inarrestabile sviluppo delle tecnologie digitali – che hanno visto un progresso di un’entità mai registrata in nessun’altro settore. La formulazione originale della “legge di Moore” descrive un ritmo esponenziale di miglioramento dell’efficienza dei microprocessori risale al 1965 che da allora, per oltre cinquant’anni, è stata sempre confermata. Si tratta di un fattore di evoluzione tecnologica caratterizzata da un ritmo molto sostenuto e regolare, affiancato da fenomeni similari – persino più rapidi – per quanto riguarda la connettività e la memoria di massa che non ha confronti in nessun altro settore industriale. Tale sviluppo ha avuto un impatto diretto sulla società, sulle imprese e sui cittadini, sulla vita di ogni giorno, consegnandoci ogni anno apparati, comunicazioni e spazio digitale con prestazioni e caratteristiche sostanzialmente raddoppiate ogni anno. La “corsa” delle tecnologie digitali ha ora raggiunto un punto critico di svolta che sta ormai travalicando il solo contesto dell’informatica, arrivando a coinvolgere anche il modo con cui ci relazioniamo, il modo in cui ci spostiamo, i nostri strumenti, le nostre città.
Una seconda domanda da porsi è come mai realtà di questo tipo siano ad oggi quasi solamente un’esclusiva americana. L’unica realtà comparabile in Europa è “il campione tecnologico europeo, la più grande azienda tech del continente: Sap. È il primo gruppo al mondo nel software per le imprese, con ricavi oltre i 23 miliardi di euro, 85mila dipendenti e una valorizzazione di 110 miliardi, quasi il doppio di Volkswagen. I clienti di Sap producono (anche grazie ai software dell’azienda) il 78% del cibo mondiale e il 76% delle transazioni finanziarie del mondo tocca un pezzo di software Sap” come rileva Beniamino Pagliaro su “La Stampa” del 5 agosto 2017 in “Perché l’Europa ha un solo gigante tech e cosa significa per il continente. Alla scoperta di Sap”. L’articolo riporta alcune importanti considerazioni del vicepresidente di Sap: “abbiamo un vantaggio in Europa, perché abbiamo una cultura di manifattura e ingegneria. Non voglio sottovalutare ciò che succede in America, ma la combinazione che abbiamo in Europa è importante. Questo è vero per le grandi aziende, non per le piccole»”. E aggiunge, in relazione alla concorrenza americana sui mezzi driverless: “Non sono preoccupato per i costruttori di auto europei, c’è una lunga tradizione, si adatteranno”, a patto che “l’Europa sia un mercato unico», con quadro legale e fiscale uniforme, altrimenti le startup non potranno mai raggiungere una massa critica. Dobbiamo avere un mercato unico. Siamo una economia dei dati e le auto driverless non si potranno fermare ai confini nazionali»”. In effetti la frammentazione normativa europea non aiuta le nostre imprese.
L’effetto del cambiamento indotto dal digitale è direttamente percepibile sul mercato del lavoro: le professioni ICT dimostrano la dinamica di crescita più vivace a livello europeo [1]: “Number one is ICT professionals in computer programming and consultancy, a job that has increased by 39% since 2011”, un trend positivo che emerge anche dall’analisi dei redditi a qualche anno da determinate classi di laureati fatta da Alma Laurea [2]. Si tratta di una piccola quota, l’1% del totale, ma con buone retribuzioni: “these high-paying, fastest-growing jobs account for a relatively small amount of total employment” ed in forte crescita per le crescenti esigenze delle imprese più avanzate, “affamate” di competenze digitali.
La rivoluzione in ogni caso sta arrivando anche da noi, come emerge da diversi segnali. In ambito pubblico, con il piano governativo “Industria 4.0”, che però ad un anno dall’annuncio è purtroppo ancora arenato in Corte dei Conti. Le aziende italiane per fortuna si stanno già attivando autonomamente; ad esempio Luxottica, come riporta[8] Il Corriere Economia del 18 luglio 2017, sta attuando “La rivoluzione più importante, […] che in questi due anni ha toccato «ogni aspetto dell’azienda, dalla raccolta e gestione delle informazioni, come i dati produttivi, logistici, finanziari e di vendita […] entro l’estate entrerà in produzione un database unico per il gruppo, in grado di aggregare in modo omogeneo e rendere facilmente disponibili tutte le informazione generate da ogni singolo reparto, divisione o Paese”.
Anche se la stampa nazionale indugia sul rischio sostituzione del lavoro con i robot, “Il vero problema di Industria 4.0 non saranno tanto i posti di lavoro che si perdono, quanto quelli che non si recuperano per la mancanza di know how e competenze. Ci preoccupiamo tanto, ma di robot in Italia ce ne sono già una marea e non arrivano oggi”, ci suggerisce[9] Alfonso Fuggetta di Cefriel. Emerge inoltre evidenza il fatto che la ricerca ha bisogno di laboratori e di reti di ricerca con le caratteristiche di capillarità, presenza nel tempo, regolarità dei finanziamenti purtroppo sconosciute in Italia: solide reti di ricerca applicata come la “galassia Fraunhofer” tedesca composta da ben 69 istituti[10], o la corrispondente “galassia Carnot” francese composta da 38 istituti[11], vere e proprie “cinghie di trasmissione” della conoscenza dall’accademia all’industria.
Digitale ed oltre: quali percorsi intraprendere?
Una strategia di sviluppo e sperimentazione che faccia leva sull’evoluzione tecnologica – magari declinata sulla scala intermedia coerente con la nostra dimensione caratteristica – appare opportuna, nonché necessaria per le imprese di un Paese avanzato, ricco di competenze e di cultura (non solo) tecnica come il nostro. Una strategia che è possibile attuare nel solco dei percorsi di innovazione che si stanno delineando a livello internazionale, che di seguito richiamiamo brevemente. Ogni evoluzione comporta dei rischi, in questo caso connessi alla sicurezza. E’ questo il dominio della cyber security, a sua volta uno dei settori più dinamici nel mercato delle ICT.
Il cloud computing, metafora fatta realtà di un’informatica “a consumo” onnipresente e sempre disponibile a qualunque scala desiderata, è tra noi da oltre un decennio: era il 2006 quando Amazon, avendo risorse informatiche extra da offrire per i suoi clienti, introdusse l’Elastic Compute Cloud creando da zero un settore completamente nuovo che poi si è saldato con la rivoluzione degli smartphone e dei social media. L’indicazione è quella di adottare questa come altre infrastrutture ICT a vantaggio dell’azienda e magari provvedere a far evolvere gli onnipresenti sistemi di business intelligence verso l’orizzonte del big data, che prevede l’applicazione di tecniche specializzate per estrarre informazioni utili dall’enorme quantità di dati continuamente generata dai sistemi digitali.
Le smart cities, un modello europeo – Amsterdam ed altre capitali continentali sono tra i migliori esempi di città intelligente –, rappresentano invece la sintesi in termini di una visione che affianca le tecnologie digitali all’esigenza di un modello più sostenibile di sviluppo delle aree urbane. Arricchite di gestione delle informazioni, sensori e feedback intelligenti, le città dovranno essere in grado di facilitare la vita ai propri cittadini ed al contempo di ridurre notevolmente gli impatti. Lasciando il vecchio modello della città frenetica, caotica e inquinata per nuovi scenari di mobilità sostenibile e salutare, con le informazioni sempre disponibili e la città stessa in grado di modificare il suo assetto in relazione ai flussi che in essa hanno luogo. Si tratta di uno nuovo spazio fertile all’interno del quale potranno essere offerti utili e innovativi servizi a imprese e cittadini.
Il già citato modello Industria 4.0 si sviluppa nelle grandi imprese manifatturiere americane e nordeuropee che introducono automazione e digitalizzazione spinta; è ricondotto a scale più ridotte nella versione declinata per il nostro Paese. Su di un altro piano, più artigianale, la stampa 3D consente produzioni su misura su piccola scala a metà tra digitale e manifatturiero. La possibilità di connettere ogni singolo oggetto ad internet e consentirne un dialogo autonomo con gli altri oggetti è quanto poi promette l’internet delle cose, Internet of Things (IoT), suscettibile in particolare di ottime applicazioni alla logistica.
Nonostante la negativa reputazione che la criptovaluta bitcoin si è fatta nel dark web dei ransomware, essa ha dimostrato la possibilità di affrancarsi da un’autorità centrale grazie all’innovazione della blockchain, un’infrastruttura di autenticazione basata sullo scambio reciproco, che sta trovando applicazione in numerosi contesti come l’identità digitale, i certificati, i passaporti.
E’ suscettibile, d’altra parte, di ottime applicazioni nell’assistenza remota e nel design la realtà virtuale (virtual reality, VR), che dispone finalmente di sistemi di visualizzazione all’altezza del compito e forse ancora di più la realtà aumentata (augmented reality, AR) che consente di mantenere un sistema sincronizzato che in grado di arricchire le visualizzazioni dei prodotti con informazioni aggiuntive utili per le operazioni tecniche e di manutenzione.
Gli scenari più interessanti si stanno sviluppando però nell’ambito dell’intelligenza artificiale (AI). Si tratta di una disciplina che ha avuto un lento sviluppo, ma ora finalmente matura a sufficienza per applicazioni nel mondo reale, soprattutto se coniugata con la visione artificiale, il deep learning (cfr. [4], con un’applicazione che consente l’automatizzazione del controllo qualità dei prodotti), la mobilità (auto e droni a guida autonoma) e la manipolazione (robot). A tal punto che si prefigurano ormai scenari di sostituzione/automazione per alcune categorie di lavoro: rischio o opportunità?
“… when you’re talking about AI, the question of automation and its potential to replace human jobs isn’t far behind […] around 38 percent of U.S. jobs could potentially be at high risk of automation by the early 2030s, followed by Germany (35 percent), the U.K. (30 percent) and Japan (21 percent). The automation appears highest in the transportation (56 percent), manufacturing (46 percent) and wholesale/retail (44 percent) sectors, but lower in healthcare and social work (17 percent)” [5]; “we should have AI do better than humans in translating languages (by 2024), writing high-school-level essays (by 2026), writing top 40 songs (by 2028) and driving trucks […] We should get AI-driven machines in retail by 2031. By 2049, AI should be writing New York Times bestsellers and performing surgeries by 2053. Overall, AI should be better than humans at pretty much everything in about 45 years”.[12]
E’ ovviamente preferibile governare proattivamente i cambiamenti piuttosto che subirne passivamente le conseguenze. Si tratta di una possibilità reale per le imprese di un Paese come il nostro che, pur assommando numerose criticità, è capace di significativi scatti in avanti nello sviluppo tecnologico e garantisce una buona disponibilità di competenze tecniche sia in termini di Università, Laboratori ed Enti di Ricerca, che di giovani brillanti. L’impegno richiesto agli imprenditori è quello di mantenere una visione in avanti e, al netto delle potenziali difficoltà che si potranno incontrare, di intraprendere gli appropriati percorsi di innovazione.
Riferimenti:
[1] Eurofound, Highest-paying and lowest-paying jobs grow most[13], luglio 2016
[2] Alma Laurea, Condizione occupazionale dei Laureati[14], XIX Indagine, 2017
[3] F. Cancellato Giovani senza futuro, ascensore sociale bloccato: i dati Istat sono da allarme rosso[15], maggio 2017
[4] A. Albarelli, Il Deep learning e la rivoluzione dell’ispezione non metrologica, Rivista “Qualità” N.3/2017, speciale Industria 4.0 e Innovazione Digitale, maggio/giugno 2017
[5] M. Quindazzi, Artificial Intelligence and the Role of Workers[16], maggio 2017
Note:
[1] http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2017-08-17/cosa-imparare-ultime-cento-crisi-205118.shtml
[2] Cfr. http://excelsior.unioncamere.net/images/comunicati/04082017_com_excelsior_titolistudio.pdf
[3] https://www.wired.it/economia/lavoro/2017/09/04/eurostat-studio-lavoro-giovani/
[4] Disponibile presso: http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2017/08/3-31082017-AP-EN.pdf
[5] http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-06/oltre-250000-italiani-emigrano-all-estero-erano-300000-dopoguerra-094053.shtml
[6] Cfr. Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/data/database e per i dati regionali le rielaborazioni di CGIA Mestre.
[7] Cfr. “Utili a 50 miliardi per le ‘Big Five’ hi-tech”, di Riccardo Barlaam, “Il Sole 24 Ore” del 30 luglio 2017.
[8] http://www.corriere.it/economia/17_luglio_18/del-vecchio-svolta-high-tech-luxottica-non-possiamo-invecchiare-faf0c7b4-6bf2-11e7-9094-d21d151198e9.shtml?cmpid=tbd_0c2c7efdmO
[9] Cfr. “Fuggetta (Cefriel), problemi 4.0 non sono i robot”, Ansa, intervista del 26 luglio 2017 http://www.ansa.it/industry_4_0/notizie/interviste/2017/07/26/fuggetta-problemi-4.0-non-sono-i-robot_6a0a3704-f8e5-4388-b992-598afc831ad8.html
[10] Cfr. https://www.fraunhofer.de/en/institutes.html
[11] Cfr. http://www.instituts-carnot.eu/fr/38-carnot
[12] http://bigthink.com/paul-ratner/heres-when-machines-will-take-your-job-predict-ai-gurus.amp
[14] http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione15
[15] http://www.linkiesta.it/it/article/2017/05/18/giovani-senza-futuro-ascensore-sociale-bloccato-i-dati-istat-sono-da-a/34298/
[16] https://insights.samsung.com/2017/05/04/artificial-intelligence-and-the-role-of-workers/
A cura di: Antonio Candiello
PhD in fisica teorica, è consulente e formatore per i processi di innovazione in informatica, tecnologia, sistemi di gestione, qualità e ambiente presso imprese e pubbliche amministrazioni. Insegna economia e organizzazione aziendale all’Istituto Universitario Salesiano Venezia.