Gruppo chiuso: esito di una leadership autoreferenziale
In azienda spesso viene posto l’accento sulle doti carismatiche che si richiedono a un leader. Resta il fatto che il leader è una persona e, in quanto tale, i suoi rapporti con gli altri e le sue scelte sono spesso orientati dal binomio sim-patia/anti-patia.
Con sim-patia qui intendiamo il sentirsi vicino a chi, all’interno dell’organizzazione, mette in atto dei comportamenti che rientrano nel proprio sistema di riferimento. Non ci riferiamo a chi dice sempre sì. Chi è accondiscendente, compiacente, chi fa sempre quello che gli viene detto di fare. Con sim-patia vogliamo significare una sorta di richiamo che, per lo più, non è spiegabile razionalmente eppure c’è ed è forte. È, come si dice semplicisticamente, “a pelle”.
Con anti-patia, invece, intendiamo la percezione di una distanza emotiva rispetto a chi assume atteggiamenti che sono al di fuori del proprio modello comportamentale e dal complesso di convinzioni/ pensieri/ idee/ emozioni su cui esso poggia. Anche in tal caso si tratta di un vissuto “a pelle” che non trova un immediato senso logico ma che si traduce in comportamenti ben definiti (potremmo chiedere ad un neuro-fisiologo di dirci qualcosa rispetto al “cervello rettile”, ma per il momento ci basta quello che già ci dice il senso comune che, nel quotidiano, dà credibilità ai fenomeni “a pelle”).
Per il leader, comunque, il vero nodo da sciogliere non è tanto provare attrazione o repulsione “inspiegabili”: si tratta pur sempre di vissuti del tutto umani. Normali. Molte persone agiscono e re-agiscono, spesso, a pelle. Nel lavoro, nella vita sociale, nei rapporti privati. Il vero problema, per chi ha un ruolo dirigenziale all’interno di una organizzazione, è che spesso vive queste dinamiche come se fossero generate da variabili razionali. Come se al loro interno esistesse un nesso causa-effetto spiegabile attraverso parametri logici. Come se non si trattasse, invece, di una confusione tra dentro e fuori che equipara ciò che piace a ciò che è giusto e funziona e quel che non piace a ciò che è sbagliato e non funziona.
In termini analitico-transazionali, ad esempio, si potrebbe affermare che un comportamento che presenta forti contaminazioni del Bambino e del Genitore viene ritenuto, da chi lo mette in atto, come sostenuto dallo Stato dell’Io Adulto[1].
Ecco che, allora, un leader che predilige comportamenti aggressivi orienterà le proprie energie verso quei follower che assumono naturalmente atteggiamenti autoritari. Può trattarsi, ad esempio, di un gruppo di venditori in cui il leader lascerà ampio spazio a chi agisce in base al criterio “il cliente va aggredito”.
Al contrario, un leader che valuti positivamente comportamenti più equilibrati si sentirà automaticamente vicino a chi mostrerà atteggiamenti moderati. Allora nel gruppo si farà strada il venditore che agisce sulla base del principio “il cliente va ascoltato e mai aggredito”.
Vero è che, per un gruppo di lavoro, ciò che conta sono i numeri, i risultati. Ad esempio per un team di venditori conta il numero di contratti che si stipula nel mese. Eppure, a volte, tale predilezione per l’uno o l’altro stile comportamentale è così intensa che il leader, in caso di produzione insufficiente, dà una seconda opportunità, tra tutti, a chi non ce l’ha fatta ma rientra nei propri canoni etici (con ciò che ne consegue sulla tenuta del gruppo).
Si sa che il tema simpatia/antipatia riguarda anche altre figure professionali che, nell’organizzazione, svolgono ruoli significativi: pensiamo, ad esempio, a quanto tale dinamica possa coinvolgere/stravolgere l’attività di recruiting finendo per inficiare la selezione di validi collaboratori e dipendenti. Chi piace può essere scelto ma non necessariamente è adeguato al compito per cui si propone. Allo stesso modo chi non piace e viene scartato potrebbe essere, invece, il candidato ideale.
Quando il leader esercita il suo ruolo intrappolato nella dinamica simpatia/antipatia il vero rischio non è la preferenza o la distanza verso il singolo follower bensì che egli/ella formi, inconsapevolmente ma progressivamente, un gruppo chiuso che generalmente così si caratterizza:
- nelle relazioni tra leader e team, nonché all’interno del team stesso, si afferma la dimensione personale invece che quella professionale. Ciò significa che, più che la competenza e il fare, sono valutate qualità quali motivazione (spesso è forza di volontà o motivo, più che vera attrazione verso il compito da svolgere), determinazione (anche in tal caso si fa confusione con volontà), adesione a canoni comportamentali condivisi;
- si instaura una forte chiusura verso l’esterno ovvero il gruppo manifesta, direttamente e indirettamente, una refrattarietà verso:
– nuovi ingressi;
– nuove strategie relazionali sia interne all’organizzazione che verso l’esterno;
– metodi e regole che non corrispondano ai propri canoni etici e professionali;
– in ultimo, le direttive dello stesso leader.
Il gruppo, dunque, si consolida nella sua resistenza a ogni forma di cambiamento destinandosi, in tal mondo, ad una lenta discesa verso l’insuccesso.
Come prevenire questa dinamica? Le strade percorribili sono diverse ma ognuna richiede che il leader sia consapevole dei rischi della autoreferenzialità. Che sia disposto a valutare ipotesi di lavoro che coinvolgano il gruppo al suo interno e non più, o non solo, variabili esterne quali ad esempio:
- il mercato (ormai il mercato è saturo, …la concorrenza è spietata, …i prodotti si equivalgono, …tutti hanno tutto);
- la tipologia di cliente (ormai i consumatori sono bombardati da inviti ad acquistare, …sono sempre più scaltri, …non riconoscono la qualità di ciò che proponiamo);
- le caratteristiche commerciali del prodotto/servizio che si propone al consumatore (…non è concorrenziale);
- le strategie aziendali di recruiting (…il nostro lavoro non è facile, bisogna scegliere persone adatte).
Ferma la validità delle considerazioni in merito a queste variabili, resta che il dilemma dell’autoreferenzialità può essere anticipato, gestito, eventualmente sciolto solo focalizzando le energie sulle dinamiche interne al gruppo e sulla qualità del rapporto tra leader e team.
L’autoreferenzialità, in sintesi, si previene adottando uno stile di leadership che:
- sia orientato verso i comportamenti e non le persone;
- si rivolga e coltivi la normalità invece che l’eccezionalità;
- promuova il metodo di lavoro e non il proprio;
- favorisca, insieme, la personalizzazione del metodo da parte dei singoli componenti dello staff, fermo restando il rispetto dei principi teorico-esperienziali su cui quello stesso metodo si poggia e da cui esso deriva[2].
Note
[1] Stan Woollams, Michael Brown, Transactional Analysis, A Modern and Comprehensive Text of TA Theory and Practice, 1978, tr. it. Analisi Transazionale, psicoterapia della persona e delle relazioni, Cittadella, Assisi, 1985.
[2] Per approfondire: https://www.leadershipmanagementmagazine.com/articoli/la-didattica-del-leader/.
Articolo a cura di Alfonso Falanga
Formatore specializzato in Analisi Transazionale.