Il licenziamento del dirigente: le basi giuridiche

L’art. 7, legge n. 300/1970 dispone, in materia di procedure disciplinari: “Le norme disciplinari relative alle sanzioni e alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo pubblico accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano.

Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa.

Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato…”.

L’art. 2106 c.c. dispone: “L’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione”.

Il riferimento agli artt. 2104 e 2105 c.c. riguarda, rispettivamente, il dovere di diligenza e l’obbligo di fedeltà del datore di lavoro, come già visto più volte.

La Corte costituzionale, con sentenza 204/1982, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 7, “interpretati nel senso che siano inapplicabili ai licenziamenti disciplinari, per i quali detti due commi non siano espressamente richiamati dalla normativa legislativa, collettiva o validamente posta dal datore di lavoro”.

La Corte, nell’argomentazione, ha preso le mosse da un orientamento al tempo formatosi in seno alla Cassazione (Cass. ss.uu. 1781/1981). Più in dettaglio, la S.C., pur riconoscendo che le innovazioni contenute nell’art. 7 “apprestano in definitiva al lavoratore una tutela più efficace di quella predisposta per i licenziamenti individuali con la legge n. 604 del 1966”, ha enunciato il principio di diritto secondo cui: “il licenziamento intimato per inadempimento o mancanza del lavoratore è assoggettato alla disciplina contenuta nell’art. 2119 c.c. e nella legge 15 luglio 1966, n. 604, a meno che non sia applicabile all’atto una diversa disciplina (legislativa, collettiva o validamente posta dallo stesso datore di lavoro) la quale, oltre ad includerlo fra le sanzioni disciplinari, lo sottoponga al regime giuridico per queste previsto dall’art. 7 legge 20 maggio 1970, n. 300 o da altra fonte equipollente”.

Successivamente, con sentenza 427/1989, la stessa Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, commi 2 e 3, “nella parte in cui è esclusa la loro applicabilità al licenziamento per motivi disciplinari irrogato da imprenditore che abbia meno di sedici dipendenti”.

L’esercizio del potere di licenziamento e la giusta causa

In tema di giusta causa, e salvo quanto è stato detto in proposito sull’argomento negli interventi precedenti della rassegna, la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire che il licenziamento – in questo caso di un dirigente – adottato dopo tre mesi e mezzo dal fatto imputato e dalla conoscenza dello stesso deve ritenersi “intempestivo e quindi illegittimo” (V., di recente, Trib. Milano, sez. lav., 2 novembre 2018, n. 4073). La stessa sentenza ha avuto modo di accertare – alla stregua dei principi sulla giusta causa e sul giustificato motivo oggettivo, espressamente richiamati dalla normativa contrattuale collettiva di settore allora vigente – l’assoggettamento della procedura e dell’atto di licenziamento alle norme disciplinari ed a quelle contrattuali suddette, in seno alle quali era previsto, in caso di ritenuta ingiustificatezza del recesso, il diritto del dirigente ad essere reintegrato nel posto di lavoro senza interruzioni di anzianità e con pagamento della retribuzione intanto perduta e connessi adempimenti contributivi, ciò anche in presenza di unità produttive con meno di sedici dipendenti. Era questo, dunque, un caso di estensione, a norma della contrattazione collettiva di settore (alcune branche del comparto credito, segnatamente le Casse Rurali), della tutela reale, nonostante la natura dirigenziale del rapporto, anche ai dirigenti e alle “piccole aziende” bancarie.

Dalla sentenza ss.uu. 6041/2005 alla sentenza ss.uu. 7880/2007: il percorso giurisprudenziale

Nella sentenza 6041/1995, innanzitutto, secondo la massima, la Corte ha statuito che “gli obblighi della preventiva contestazione e della attribuzione di un termine a difesa, previsti dall’art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, non riguardano il licenziamento del dirigente … – e cioè il prestatore di lavoro che, collocato al vertice dell’organizzazione aziendale, svolge mansioni tali da caratterizzare la vita dell’azienda con scelte di respiro globale, e si pone in un rapporto di collaborazione fiduciaria con il datore di lavoro dal quale si limita a ricevere direttive di carattere generale per la cui realizzazione si avvale di ampia autonomia, ed anzi esercita i poteri propri dell’imprenditore (del quale è un alter ego) assumendone, anche se non sempre, la rappresentanza esterna (per cui la suddetta esclusione non si estende anche al c.d. pseudo-dirigente o dirigente meramente convenzionale, relativamente al quale le mansioni concretamente attribuite ed esercitate non hanno le caratteristiche del rapporto propriamente dirigenziale) – ove il contratto collettivo ad esso applicabile non preveda procedimento e sanzioni disciplinari, ma richieda la motivazione del recesso soltanto ai fini del procedimento arbitrale, dovendosi applicare a tale licenziamento, oltre che alle norme contrattuali, la disciplina di cui agli artt. 2118 e 2119 c.c.”.

Ora, nei casi in cui il licenziamento ad nutum è consentito, l’effetto tipico, risolutorio del rapporto, che la legge ricollega all’atto unilaterale del datore di lavoro, non è subordinato né all’oggettiva presenza di determinati presupposti, né alla esternazione dei motivi che lo hanno ispirato ed alla loro comunicazione al lavoratore. Ne consegue che l’espressione delle ragioni del licenziamento non vale a qualificarlo ai fini della produzione degli effetti restitutori, a meno che il motivo non sia illecito e dominante, secondo i principi generali (artt. 1345 [Motivo illecito: “Il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe”] e 1324 c.c. [Norme applicabili agli atti unilaterali: “Salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale”]).

In particolare, la ragione del licenziamento, nei casi in cui sia consentita la risoluzione ad nutum, può rilevare esclusivamente ai fini dell’indennità di preavviso, senza effetto alcuno sulla idoneità del recesso a risolvere il rapporto: in questo senso, può leggersi già la sentenza 2596/1993, secondo cui, nell’area della recedibilità ad nutum, la giusta causa non può identificarsi altro che “in un presupposto di fatto del quale il datore di lavoro può avvalersi”, osservando le regole procedimentali ex art. 7, “per conseguire l’effetto dell’esonero dal preavviso”, con la conseguenza logica che “la violazione di dette regole formali (o l’inesistenza della giusta causa) non dà luogo ad invalidità, ma comporta l’obbligo dell’indennità di preavviso” (Cass. 2596/1993).

L’ambito e la portata della decisione ss.uu. n. 7880/2007

La motivazione della sentenza n. 7880/2007, nell’ambito dell’evoluzione giurisprudenziale in esame, muove proprio dalla censura del ricorrente, fondata sulla circostanza che il giudice del merito avrebbe dovuto tenere presente che la regola della licenziabilità ad nutum è applicabile solo al dirigente in posizione verticistica, le cui mansioni nell’ambito della azienda sono caratterizzate dall’ampiezza del potere gestorio tanto da poter essere definito un vero e proprio “alter ego dell’imprenditore”, in quanto preposto all’intera azienda o ad un ramo di particolare importanza in posizione di sostanziale autonomia. Conseguentemente, dalla non provata natura di dirigente non apicale del ricorrente conseguiva, da un lato, l’applicabilità dell’art. 7 statuto e, dall’altro, l’inapplicabilità del recesso ad nutum; istituto questo contemplato solo per i dirigenti posti in posizione verticistica. Con l’altro motivo significativo, il ricorrente rilevava che la decisione impugnata era affetta da motivazione contraddittoria perché dopo avere premesso che la società aveva errato nel non applicare nel caso di specie il disposto dell’art. 7, era poi caduta in evidente logica contraddizione dal momento che, nel definire privo di giustificazione il recesso datoriale, aveva posto a base della sua decisione i fatti che andavano contestati, ed aveva conseguentemente finito anche per disconoscere il suo diritto all’indennità supplementare, da esso ricorrente rivendicato nel corso del giudizio.

Nella motivazione la Corte richiama, innanzitutto, il senso e la portata della precedente sentenza 6041/1995, ugualmente a Sezioni Unite, la quale, come già più volte visto, invertendo una tendenza volta ad estendere le garanzie procedimentali dell’art 7 anche al licenziamento dei dirigenti, ha ritenuto inapplicabile ai dirigenti le garanzie previste dalla norma statutaria “in ragione della natura spiccatamente fiduciaria del rapporto che esclude la stessa configurabilità del potere disciplinare del datore di lavoro”.

La procedimentalizzazione dell’esercizio del potere disciplinare

Ora, a ben vedere, alla luce della sua indiscussa impostazione ontologica il potere disciplinare resta tale, e merita la procedimentalizzazione (quanto al profilo specifico della tempestività ed immediatezza della contestazione, può già vedersi Cass. 26 novembre 2007, n. 24584/2007), di cui si discute, anche se i particolari connotati del rapporto, che nessuno vuole negare, fanno sì che esso venga esercitato se non con la sanzione espulsiva.

In questo senso, le Sezioni Unite ritengono che un’interpretazione del dato normativo costituzionalmente orientata, che voglia rispondere anche a criteri logico-sistematici, induca a condividere la tesi favorevole ad estendere a tutti coloro che rivestono la qualifica di dirigenti in ragione della rilevanza dei compiti assegnati dal datore di lavoro – e, quindi, senza distinzione alcuna tra dirigenti top manager ed altri (c.d. dirigenti “medi” o “minori”) appartenenti alla stessa categoria – la procedura di cui all’art. 7.

D’altro canto se, come è innegabile, il tratto caratterizzante dell’art. 7 va individuato, come già sottolineato da numerosi interventi della Corte costituzionale, nell’esigenza di garantire ad ogni lavoratore – nel momento in cui gli si addebitano condotte con finalità sanzionatorie – il diritto di difesa, e se non è di certo estraneo alla ratio della norma in esame l’intento di tutelare la “persona” del lavoratore nella professionalità, nel decoro e nella sua stessa immagine, “tutto ciò attesta che non risponde a consequenzialità logica una lettura restrittiva del dato normativo che finisca per penalizzare i dirigenti”, i quali – specialmente se con posizioni di vertice e se dotati di più incisiva autonomia funzionale (Cfr. Cass. 20895/2007) – “possono subire danni, con conseguenze irreversibili per la loro futura collocazione nel mercato del lavoro, da un licenziamento, che non consentendo loro un’efficace e tempestiva difesa, può lasciare ingiuste aree di dubbio sulla trasparenza del comportamento tenuto e sulla capacità di assolvere a quei compiti di responsabilità correlati alla natura collaborativa e fiduciaria caratterizzante il rapporto lavorativo”.

Conseguenze della mancata applicazione della procedura disciplinare

All’esito dell’iter argomentativo sviluppato dalla Corte e qui riassunto per sommi capi, ben può intendersi, dunque, il seguente principio di diritto: “Le garanzie procedimentali dettate dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 2 e 3, devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o in senso lato colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, ne scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all’inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso” (Cass. 5213/2003).

Articolo a cura di Pasquale Dui

Profilo Autore

Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista

Condividi sui Social Network:

Ultimi Articoli