Il licenziamento del dirigente per giusta causa

L’art. 2119 cod. civ. stabilisce che “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto”.

In questi termini, con la previsione in oggetto, viene a ricomporsi, nella sua interezza, l’impianto codicistico sul licenziamento del dirigente (articoli 2118 e 2119).

Si definisce come giusta causa il comportamento del lavoratore che si profila di una gravità tale da minare irreparabilmente il profilo fiduciario del rapporto dirigenziale, anche e soprattutto in ragione della marcata accentuazione che tale ultimo elemento ha in questo rapporto di lavoro.

Il licenziamento per giusta causa è strutturato naturalmente quale recesso avente natura disciplinare, in ragione del fatto che si definisce tale il licenziamento che è motivato da un comportamento imputabile a titolo di colpa (intesa in senso generico) al lavoratore. Tale licenziamento copre l’area del giustificato motivo soggettivo (notevole inadempimento, nei limiti di riferibilità alla fattispecie del rapporto dirigenziale) e, in parte, quella del licenziamento per giusta causa, escludendosi, tra l’altro, per ciò che qui interessa, l’area del recesso ad nutum.

In particolare, la giurisprudenza della Suprema Corte considera giusta causa, che autorizza il licenziamento senza preavviso, alla stregua della ratio dell’art. 2119 cod. civ., una mancanza oggettivamente e soggettivamente di rilievo tale da risolversi in una grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, in particolare, di quello fiduciario, così da non consentire, neppure in via provvisoria, la continuazione della collaborazione tra le parti, che trova, appunto, nell’elemento fiduciario, il suo presupposto fondamentale (Cass. 4175/1997). In base a tali principi si ritiene configurabile una giusta causa di licenziamento non solo quando si verifica un danno patrimoniale a carico del datore di lavoro, ma anche se si produce un intralcio all’attività aziendale e, in particolare, un ostacolo all’esercizio dei poteri imprenditoriali di direzione e di organizzazione. Questo, peraltro, presupposto che l’imperizia del dirigente non legittima il licenziamento per giusta causa e non obbliga il medesimo al risarcimento dei danni subiti dall’azienda, al contrario del mancato apprestamento delle dovute cautele nello svolgimento della prestazione, da valutare in riferimento alla peculiarità delle mansioni.

La giusta causa va tenuta distinta dalla giustificatezza, categoria contrattuale del rapporto di lavoro dirigenziale. In questo senso, mentre la giusta causa consiste – come visto – in un fatto che in concreto valutato e, cioè, sia in relazione alla sua oggettività, sia con riferimento alle sue connotazioni soggettive, determina una grave lesione dell’elemento fiduciario, con le conseguenze di cui si è detto, la ricorrenza della giustificatezza dell’atto risolutivo – ancor più strettamente vincolata al carattere fiduciario del rapporto dirigenziale – è da correlare alla presenza di valide ragioni di cessazione del rapporto, come tali apprezzabili sotto il profilo della correttezza e della buona fede, sicché non giustificato è il licenziamento per ragioni meramente pretestuose (Cass. 7838/2005), al limite della discriminazione, ovvero anche del tutto irrispettoso delle regole procedimentali che assicurano la correttezza dell’esercizio del diritto (Cass. 13839/2001). D’altro canto, quanto più è esteso e diffuso l’ambito operativo della attività del dirigente, entro il quale deve essere valutato l’inadempimento dell’obbligazione (che, pur essendo di mezzi, non vede estranea la considerazione dei risultati, qualora questi si rivelino adeguati), tanto più la giusta causa del recesso datoriale non può consistere nella generica, e sia pur grave, carenza consistente in una condotta inadempiente protrattasi nel tempo, ma postula la sussistenza di specifiche situazioni o eventi che rendano immediatamente inaccettabili nel loro complesso e non proseguibili le prestazioni lavorative nell’impresa.

A questo proposito è stato, peraltro, posto bene in evidenza che, per la giusta causa, la valutazione della condotta in relazione alla sua efficienza lesiva dell’elemento fiduciario deve essere operata sulla base di dati oggettivi puntualmente accertati.

Ora, fermo restando il divieto di licenziamento per motivo illecito o discriminatorio e la necessità di valutare la gravità dell’inadempimento del dirigente, possono venire in rilievo anche condotte che non integrerebbero, di per sé, giusta causa di licenziamento e che, per la maggior latitudine del concetto di giustificatezza, non debbono essere provate e valutate con la stessa puntualità delle circostanze configuranti la giusta causa, ma possono essere oggetto di una valutazione globale e complessiva, purché non arbitraria (Cass. 6729/1999).

In buona sostanza, come avverte la giurisprudenza, si deve cogliere la profonda differenza che esiste concettualmente tra un licenziamento sanzionatorio di una mancanza, un licenziamento intimato per giusta causa, che consente il recesso unilaterale senza dovere l’indennità di preavviso, ed un licenziamento in area di libera recedibilità, nel quale può seguire un processo ordinario, e sono previste onerose conseguenze economiche (l’indennità supplementare) ove l’autorità giudiziaria ritenga ingiustificato il recesso.

La differenza tra i due piani sui quali si collocano la giusta causa e la giustificatezza del licenziamento si rende evidente proprio sul piano della prova, in quanto, per la ricorrenza della prima fattispecie, escludente il diritto al preavviso, occorre sia accertato che il carattere lesivo della condotta del lavoratore sia stato, in concreto, tale non solo da giustificare la risoluzione del rapporto, ma anche da non consentirne neppure la continuazione in via provvisoria per il tempo necessario, secondo le previsioni collettive, per il reperimento di altra occupazione da parte del lavoratore licenziato.

Sotto un altro profilo, poiché ai fini della giustificatezza del licenziamento rileva qualsiasi motivo che escluda l’arbitrarietà, la domanda avente ad oggetto l’accertamento della legittimità del recesso per ingiustificatezza del licenziamento con condanna del datore di lavoro alla corresponsione dell’indennità supplementare, è diversa da quella avente ad oggetto l’accertamento della illegittimità del licenziamento intimato per giusta causa e la condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, con la conseguenza che, accolta quest’ultima per insussistenza della giusta causa, il relativo giudicato non preclude la proposizione della prima (Cass. 14974/2000).

Il licenziamento per giusta causa concretantesi in un gravissimo inadempimento del lavoratore può essere qualificato come licenziamento disciplinare, come già detto.

L’accertamento della sussistenza di una giusta causa deve tener conto di tutti gli aspetti del caso concreto – dovendo il comportamento del lavoratore valutarsi non soltanto nel suo contenuto oggettivo, ma anche con specifico riferimento alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, al particolare vincolo di fiducia che esso implica, per la posizione rivestita nel suo ambito dal lavoratore, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni esercitate in seno all’organizzazione dell’impresa, alle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, ma anche nella sua portata soggettiva, in relazione, cioè, alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi che l’hanno determinato e alla intensità dell’elemento volitivo – e risolversi in un giudizio di congruità della sanzione espulsiva, per l’insufficienza di una qualunque altra sanzione a tutelare l’interesse del datore di lavoro.

In altri termini, il licenziamento per giusta causa – così, in genere, come quello per giustificato motivo soggettivo – debbono evidenziare elementi di grave inadempienza e colpa del lavoratore, immediatamente e direttamente incidenti sull’elemento della fiducia, ai fini della prosecuzione del rapporto, la cui valutazione deve necessariamente incidere, in ragione dei criteri di proporzionalità connessi all’intrinseca gravità delle inadempienze, nella disamina dell’adeguatezza della sanzione.

In ogni caso, conviene premettere che, in ipotesi di licenziamento in tronco (per giusta causa) del dirigente, qualora il giudice adito – ove previsto dalla contrattazione di settore – abbia disconosciuto la sussistenza della giusta causa qualificando, conseguentemente, il licenziamento come avvenuto ad nutum ex art. 2118 cod. civ., e riconoscendo il diritto all’indennità supplementare, spetta al lavoratore anche l’indennità sostitutiva di preavviso, ex art. 2118, comma 2, cod. civ. Ciò è in perfetta sintonia con le disposizioni della contrattazione collettiva. Infatti, l’indennità supplementare consegue al riconoscimento che il licenziamento è ingiustificato, ossia, all’esclusione della sola ipotesi “fatta salva” nella norma che dispone sul preavviso. Per escludere tale obbligo, non basta, quindi, il rilievo che non ricorre l’ipotesi del recesso unilaterale ad nutum, trascurando di considerare, da un lato, che solo ex post si può stabilire che un licenziamento in tronco è ingiustificato e che, dall’altro, nella contrattazione collettiva si trovano le norme che disciplinano non solo le conseguenze (indennità supplementare) di siffatto accertamento, ma anche quelle che disciplinano il preavviso, autonomamente (rispetto alla previsione dell’indennità conseguente al licenziamento in tronco, che risulterà ingiustificato) e con disposizioni articolate concernenti gli obblighi di entrambi i contraenti, i termini, la misura dell’indennità sostitutiva ed altro.

D’altro canto, in tema di licenziamento del dirigente, il cui rapporto – come noto – è caratterizzato da una accentuata fiducia, spetta al giudice del merito apprezzare – con valutazione incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata – se l’atto di recesso sia o meno determinato dalla menomazione di detto elemento fiduciario, e sia, quindi, giustificato dalla presenza di una giusta causa. Tale principio si deve estendere proprio al momento dell’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, che, riservata per sua natura al giudizio di merito è ugualmente incensurabile in Cassazione, negli identici termini, e, cioè, se non per vizi di motivazione e violazione delle regole di ermeneutica contrattuale (Cass. 15898/2000).

Sotto un altro profilo, più in generale, poiché è l’effetto che qualifica il negozio giuridico, secondo l’inquadramento previsto dal diritto, che prescinde ed anzi s’impone alla parte, questa non può scegliere gli effetti, ma solo il tipo di negozio voluto, rispetto al quale l’effetto qualificante è necessario. Conseguentemente, ove l’azienda dichiari di voler recedere in tronco dal rapporto e, allo stesso tempo, corrisponda l’indennità sostitutiva del preavviso, con versamento dei relativi contributi, il licenziamento deve essere considerato ad nutum.

Quando si parla di (giusta) causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, ci si riferisce al carattere dell’immediatezza che deve connettersi all’intimazione della causa di licenziamento. In questo senso, si ritiene privo di giusta causa il licenziamento (del dirigente) il cui comportamento, posto a base del recesso, sia stato tollerato dal datore di lavoro per un tempo incompatibile col requisito dell’immediatezza, senza alcuna reazione disciplinare.

Seppure direttamente riferibile alla fattispecie del licenziamento disciplinare in senso stretto, si può accennare comunque in questa sede, considerata l’assorbente circostanza che un licenziamento ex art. 2119 cod. civ. è per definizione qualificabile a valenza disciplinare, alla questione dell’immutabilità dei motivi di licenziamento, richiamando una singolare fattispecie affrontata dalla giurisprudenza (Cass. 10058/2005). Nel caso relativo, la S.C., in tema di licenziamento individuale, ha statuito che al personale con qualifica dirigenziale, laddove debbano applicarsi le garanzie dell’art. 7, legge 300/1970, trova conseguentemente applicazione il generale principio di immutabilità della causa del licenziamento e della relativa contestazione, che si pone a garanzia della regola costituzionalmente assicurata del corretto contraddittorio, e a garanzia effettiva del diritto di difesa a tutela dell’incolpato. La eventuale variazione dei motivi comporta, all’evidenza, una modifica sostanziale della motivazione del licenziamento che non consente al lavoratore il diritto di difesa riferito a circostanze fattuali identificative di fattispecie diverse rispetto a quelle originariamente dedotte e contestate. Conseguentemente, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto inapplicabile il principio della immutabilità della contestazione e di conseguenza legittimo che al direttore vendite del settore normal trade and catering di una società fosse stata comunicata, come causa del recesso ad nutum della società, prima la soppressione del posto di lavoro da lui ricoperto e poi il rifiuto del lavoratore ad eseguire correttamente la prestazione lavorativa, attraverso un maldestro tentativo di aggirare i vincoli procedimentali dell’art. 7.

 

Articolo a cura di Pasquale Dui

Profilo Autore

Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista

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