Il micromanagement e l’abbandono silenzioso
Voler essere sempre al centro o essere partecipe di ogni decisione da una parte, e disinteressarsi od assentarsi per troppo tempo dall’altra, sono due comportamenti che un buon manager dovrebbe cercare di evitare. Cercare la collaborazione dei propri manager mantenendo alta la loro motivazione è un’arte che non tutti i top posseggono. Ci potremmo chiedere come mai esistono molti CEO o presidenti che non riescono a entrare in sintonia con tutti i loro primi livelli, men che meno avvicinandosi alla base: le dinamiche di ascesa al potere percorrono strade a volte invisibili ai più, e spesso inspiegabili, tanto più quanto le organizzazioni sono estese.
Sta di fatto che c’è sempre un numero di responsabili a cui le cose sembrano andare sempre bene, così placidamente infilati nel loro trantran quotidiano, e probabilmente non cambierebbero nulla per 30 anni di fila.
Il carattere dei manager aziendali d’altronde risente moltissimo della natura del business che si conduce: potrei dire che un’azienda dedita alla produzione industriale di qualcosa ideato e progettato altrove formerà giocoforza una serie di supervisori e manager poco inclini a cambiamenti, innovazioni, specie quando l’emblema aziendale sono affidabilità e qualità, granitiche costanti nel tempo, seppur in miglioramento continuo. In aziende del genere è vitale abituarsi ed abituare a lavorare seguendo rigidi schemi procedurali.
E’ certo che, all’interno di ogni azienda apparentemente solida ed affiatata nei suoi membri, vi sono componenti insoddisfatti. Impossibile quantificarne la percentuale, ma più le aziende iniziano a soffrire di sindrome da gigantismo, più questa si alza. Va da sè che in aziende stabili, con protezioni sociali e finanziariamente solide, il livello motivazionale tende a calare man mano.
La motivazione che si abbassa è il cancro dell’impresa. Alla lunga i rami aziendali affetti da demotivazione diventano secchi e dovranno sottostare a cure spesso poco piacevoli come tagli, cessioni o chiusure; questo perchè inevitabilmente in aziende ove manca la determinazione nel raggiungere gli obiettivi, questi non verranno raggiunti.
Automotivazione
Una ristretta percentuale di manager non ha bisogno di farsi indurre da qualcun’altro la “voglia” di agire per il bene aziendale: i creativi, gli innovatori, sempre più rari e preziosi, sono persone che non dovrebbero mai mancare nel cuore pulsante dell’azienda. Sono motivatori, tipicamente inguaribili ottimisti, visionari ed accettano sfide di ogni tipo. Questa ristretta cerchia di persone non hanno necessità di essere motivati: agiscono di moto spontaneo.
Motivare mediante obiettivi
Per la maggioranza non è così: per poter dare il massimo devono sentirsi coinvolti in un gioco di squadra che ne metta in risalto i pregi e li porti alla ribalta. Un bel contributo alla crescita della motivazione è la definizione e la condivisione dei propri obiettivi. La consapevolezza dei propri obiettivi e la comprensione vera degli obiettivi del resto dei reparti aziendali è determinante. Ricordo come un presidente illuminato (illuminante…) per la prima volta instituì la walk of pride, un corridoio dove tutti i reparti aziendali pubblicavano i loro target ed i piani strategici, spiegati sinteticamente, impostati per il raggiungimento di tali obiettivi. Così facendo, tutti si rendevano direttamente conto che il proprio lavoro era fondamentale per il successo di un altro dipartimento e viceversa: la walk of pride aprì un pò a tutti gli occhi sul vero significato di gioco di squadra. Con in mente gli obiettivi da centrare, la motivazione rimane mediamente ad un buon livello e, se gli obiettivi sono posti in tipologia SMART[1], le cose andranno per il verso giusto.
L’arte nel far diventare i propri collaboratori a loro volta pianificatori ed artefici dei loro progetti sta alla base dell’incremento motivazionale e della crescita in loro dell’autostima. Non è cosa da poco. Alla base probabilmente c’è la capacità di instaurare una comunicazione facile, in cui uno cerca l’altro e viceversa senza ostacoli, remore o formalismi o timori referenziali, fuori dagli schematismi aziendali e dalle frasi di rito: ammesso che a priori non vi siano barriere linguistiche.
Voler intromettersi di persona in ogni attività aziendale non è un indicatore nè di attaccamento aziendale, nè tantomeno della propria professionalità. Piuttosto è un comportamento che trapela molta insicurezza e soprattutto mancanza di fiducia nei propri collaboratori. Mentre la prima è una caratteristica che andrebbe analizzata e potenzialmente migliorata con l’esercizio o con precise tecniche mirate(…), la mancanza di fiducia è la perfetta arma per il suicidio aziendale.
Altro non è che l’onda lunga, a volte lunghissima, di una strategia di scelta dei collaboratori non mirata alla crescita. Il processo di assunzione deve mirare a persone sempre più capaci, lungimiranti, aperte al cambiamento, intelligenti ed emotivamente non complicate. Le aziende che non riescono a sviluppare una politica delle risorse umane di altissimo profilo, in grado di ingaggiare risorse con queste caratteristiche, prestano il fianco ad essere conquistate da manager sempre più micromanager, costrette a gestire in prima persona organizzazioni non più abituate a creare piani in autonomia. Da qui alla “dittatura” aziendale, il passo non è poi così lungo. In una azienda comandata da micromanagers, fanno strada personaggi sempre proni ad obbedire, abituati ad accettare i “no” senza possibilità di alternative, spesso dovendo digerire spiegazioni incomprensibili. L’azienda viene inesorabilmente ingessata e trasformata in un automa.
Va da sè che ci si pone la domanda del perchè manager insicuri o poco illuminanti occupino posizioni di rilievo: viene da pensare che essi stessi appartengano ad una catena di micromanagement di livello superiore. E’ spesso casuale il trovarsi nel momento giusto al posto giusto, ossia a contatto con un responsabile che lascia libertà di decidere e, perchè no, di sbagliare entro ragionevoli limiti; occorre riconoscere queste opportunità, approfittare di capi che hanno intenzione di fidarsi e dare responsabilità e visibilità: sono i momenti in cui diventiamo artefici della nostra crescita professionale.
Come evitare di dover diventare micromanagers?
Occorre applicare armoniosamente il PDCA, usandolo anche in maniera meno rigida.
Se siamo confidenti di avere una squadra all’altezza e motivata, è saggio definire chiaramente gli obiettivi, collettivi e anche individuali. Non si diventa bravi se non sbagliando e imparando dagli errori; lo dicono tutti, ma quando si tratta di dare spazio a qualcuno quando la probabilità di fallire è alta, occorre metterlo in preventivo ed essere in grado di parare il colpo.
Occorre quindi dare obiettivi commisurati ad un possibile o probabile loro mancato raggiungimento.
E’ doveroso far esporre i propri collaboratori e seguire l’avanzamento dei progetti senza avere la pretesa di correggerli d’autorità. Chiedere dei riscontri (feedback) in maniera informale è una tattica per non far sentire una presenza spesso soffocante e serve anche per uscire dagli schemi di report formali in cui spesso la tendenza è quella di migliorare fittiziamente le cose. Ogni tanto un consiglio buttato lì, se d’altra parte vi è l’abilità a carpirlo, aiuta a correggere le cose ed alleggerisce quella spesso insopportabile attitudine da parte dei micromanagers a sottostimare le considerazioni o decisioni altrui dall’alto del sui “so tutto io, decido tutto io…”
Reagire al micromanagement e sue conseguenze
Alla base di un micromanager c’è tipicamente una conoscenza molto profonda della materia: quindi trovare sul proprio percorso di crescita professionale un micromanager può essere stimolante ed impegnativo allo stesso tempo, nel senso che per ottenere la sua fiducia occorre studiare molto e portarsi ad un livello tecnico almeno considerabile. Se non si riesce a dialogare alla pari o quasi dal punto di vista tecnico, sarà molto difficile liberarsi del micromanagment. A questo punto occorre farsi una domanda e chiedersi con quale status lavorativo siamo più a nostro agio: una situazione in cui siamo più propensi ad accettare decisioni altrui per evitare confronti a priori oppure essere più liberi di pianificare, decidere e ripartire da errori generati da noi stessi? Staticità o dinamismo? Rannicchiarsi nella propria zona di comfort o liberarsi dei tappi per scoprire la bontà delle nostre decisioni senza imposizioni? Si deduce che il micromanagement in sè non è un male oggettivo: anzi, nella stragrande maggioranza dei casi può portare a situazioni di stabilità durature, come in tutte le organizzazioni in cui vi è un leader assoluto e riconosciuto: ancor più se il capo, nonchè micromanager, è anche illuminato.
Lavorare in regime di micromanagement può diventare deresponsabilizzante; per gli accondiscendenti è qualcosa di positivo e stranamente rassicurante: fanno il loro lavoro, raramente sono interessati che la loro opinione venga presa in considerazione e spesso il lavoro non sta in cima alle loro priorità. Tale condizione giocoforza diventa frequente tanto più ci avviciniamo alla base della piramide aziendale: man mano che si risalgono i gradini dell’organizzazione, il disagio latente di essere microgestiti inizia ad apparire, generando uno spettro di comportamenti più o meno latenti.
I distanti: si sentono sempre più lontani da una azienda che li coinvolge poco nelle strategie aziendali, pur avendo accumulato spesso anni di esperienza che riterrebbero utile all’impresa
I deconcentrati: dovendo lavorare senza voce in capitolo, tendono ad assentarsi mentalmente e non di rado incappano in errori per deconcentrazione
I minimali: lavorano sì bene, ma non spingono per aumentare il loro rendimento oltre la sufficienza, essendone capaci
I contestatori: il loro senso di disagio non riesce a tramutarsi in un comportamento almeno collaborativo e si lasciano andare ad atteggiamenti di contestazione; spesso diventano insofferenti verso i colleghi
I remissivi: si rimettono alle decisioni altrui in maniera accondiscendente senza nè interferire, nè migliorare lo status quo
I succubi: interiorizzano il disagio di essere microgestiti e diventano dei pesi morti per l’azienda
Gli introversi: espansivi al di fuori delle mura aziendali, diventano quasi asociali e difficilmente trovano l’energia in loro stessi e diventare sorgenti di miglioramento per l’organizzazione
Gli arrendevoli: perdono la loro voglia di agire e di combattere contro i problemi aziendali
La presenza di tutti questi stati d’animo in seno all’organizzazione è perdente: molti lo chiamano abbandono silenzioso: il micromanagement ne è una delle cause radice.
La saggezza e la pazienza (se queste virtù sono state coltivate nel tempo) vengono in aiuto in presenza di senso di responsabilità e lealtà nei confronti dell’azienda piuttosto che del direttore, del diretto responsabile o dell’amministratore delegato che non è stato capace di andare più in là della microgestione. C’è sempre una via di uscita e quindi una situazione in cui si riesce a rimanere positivi per dare il massimo. La vita lavorativa è quasi sempre fatta di cicli e si devono evitare colpi di testa o reazioni impulsive contro organizzazioni che nell’insieme funzionano bene. Se poi crediamo in noi stessi più di ogni altra cosa, ben venga la rottura e l’inizio di nuove sfide lavorative, ovviamente cercando di fare tesoro dell’esperienza e cercando di promuovere l’MBO (Management by Objectives) piuttosto che il MBR (Management by Report).
Note
[1] – SPECIFIC (specifico), MEASURABLE (misurabile), ACHIEVABLE (raggiungibile), RELEVANT (rilevante), TIME-BASED (basato sul tempo).
Articolo a cura di Fabio Bordignon
Finder SpA Eldom, Automotive: Marketing Tecnico, Ing di Processo e Prodotto
Bitron SpA Eldom, Automotive: Ing di Processo, Direttore Qualità (DQ), Dir Sistema Qualità (DSQ)
Omron Auto: Ing di Processo, DQ, DSQ, Dir Produzione, Dir Stabilimento
Omron Auto, Eldom, Distribuzione Energia: FAE - Field Application Engineering Manager
Paesi frequentati per motivi di lavoro: Giappone, Cina, Corea, Taillandia, India, UK, Germania, Francia, Spagna, Messico, Stati Uniti, Turchia