Il senso d’appartenenza
L’attaccamento emotivo all’azienda per la quale si lavora è una grandissima forza che nasce dal sentirsi al sicuro all’interno del gruppo, trova nutrimento nella condivisione di valori, simboli, ideali e si esplica in atteggiamenti e comportamenti produttivi.
Alla fine dello scorso anno, dopo quasi sette mesi di viaggio nello spazio, la sonda statunitense InSight è atterrata su Marte.
Grazie a questa missione si potrà, probabilmente, arrivare a comprendere com’è nato il Pianeta Rosso o addirittura come si sono formati tutti i pianeti.
Nonostante la rilevanza scientifica, le immagini che hanno maggiormente colpito la mia emotività (non me ne vogliano scienziati e ingegneri) non sono state quelle inviate dal robot, ma la spontanea standing ovation scoppiata nel centro di controllo della Nasa: lunghi silenzi interrotti all’improvviso da urla d’esaltazione, braccia al cielo, improbabili balletti e anche abbracci e qualche lacrima d’euforia.
Dopo anni d’intenso lavoro, l’obiettivo era stato raggiunto. La sonda InSight, toccando con successo il suolo marziano, ce l’aveva fatta e con lei tutti erano riusciti ad arrivare su quel pianeta, ognuno aveva contribuito, il successo era generale! Chiunque si sentiva parte del gruppo e, contemporaneamente, il gruppo era parte di ciascuno di loro.
Attraverso quelle immagini, penso d’aver visto materializzata una grande forza: il Senso d’Appartenenza.
D’altronde già negli anni 50 lo psicologo statunitense Abraham Maslow, nella sua Teoria della Gerarchia dei Bisogni, pone al di sopra delle necessità puramente Fisiologiche e di Sicurezza e sotto quelle di Stima e Autorealizzazione, il bisogno d’Appartenenza, cioè la necessità che ogni essere umano ha di sentirsi parte di un gruppo.
Le applicazioni pratiche di questa teoria in ambiente lavorativo sono molto intuitive: ogni lavoratore ha bisogno di sentirsi emotivamente e fisicamente sicuro e accettato all’interno della “squadra”, prima di riuscire a progredire e raggiungere il pieno potenziale, la massima soddisfazione e produttività.
Più è intenso il senso d’appartenenza a un’azienda, maggiori saranno il nostro coinvolgimento passionale e l’impegno per assicurarle sviluppo e benessere.
Tuttavia, tale percezione emotiva non è una questione contrattuale (sono assunto da quest’azienda, quindi…) ma piuttosto un aspetto psicologico.
Nessun manager di nessuna società sarà mai in grado d’imporre a qualcuno di “appartenere”; toccherà, però, a lui creare le condizioni che faranno sentire i collaboratori coinvolti, aumentare la condivisione della cultura aziendale e quindi l’attaccamento alla maglia.
Sono convinto che per un’azienda il senso d’appartenenza sia l’investimento degli investimenti: con un impegno di risorse relativamente basso, si possono riuscire a migliorare le performance di tutti i comparti e ottenere un cospicuo tornaconto economico.
Infatti una ricerca dell’Università di San Gallo, in Svizzera, compiuta su 33 aziende e 20000 persone, ha evidenziato che, dove i collaboratori si sentono motivati e coinvolti, l’utile è mediamente più elevato del 71%.
Per contro altre ricerche mostrano che, negli Stati Uniti, solamente un dipendente su cinque è entusiasta del team di lavoro del quale fa parte (Franklin Covey, azienda mondiale specializzata nel miglioramento delle performance), in Germania tre dipendenti su quattro fanno solo “quello che è loro richiesto di fare” (Gallup, società americana di analisi e consulenza) e anche in Italia le cose non vanno meglio: infatti solo l’11% dei lavoratori si sente motivato, contro il 49% che dichiara di essere moderatamente o completamente demotivato (Towers Perrin, società di servizi professionali specializzata in risorse umane e servizi finanziari di consulenza).
Cosa fare, quindi, per sviluppare senso d’appartenenza e condizionare positivamente l’andamento di tutte le attività?
Come far entrare in azienda una ventata di coinvolgimento ed entusiasmo?
Non è facile stabilire una relazione diretta tra senso d’appartenenza e azioni da intraprendere; tuttavia, ritengo indispensabile, prima di tutto, valutare concretamente il reale clima. Determinare, in altre parole, il divario che esiste tra le attese dei dipendenti e la realtà da loro vissuta, lo scarto tra ciò che il top management crede d’aver raggiunto in termini di condivisione della cultura aziendale e l’effettivo livello d’accettazione da parte del personale.
Esistono metodi molto efficaci e con un ottimo rapporto costo/beneficio per misurare, in maniera semplice e veloce, il benessere organizzativo di un’azienda.
Per esempio, riscuote molto successo l’indagine tramite un questionario anonimo che, dopo le opportune personalizzazioni, può essere somministrato ai dipendenti.
È un metodo tanto valido quanto elementare, per rilevare in maniera rapida come il capitale umano percepisca aspetti del lavoro, sia generali sia specifici.
Tra gli argomenti che possono essere analizzati con questa metodica, cito:
- l’appagamento dei collaboratori sui compiti assegnati;
- la stima tra colleghi e nei confronti dei propri superiori;
- il livello di compiacimento rispetto alla valorizzazione delle personali potenzialità;
- la soddisfazione della retribuzione in relazione al lavoro svolto;
- la percezione di possibilità di formazione e sviluppo all’interno dell’azienda.
Studi di questo tipo rappresentano un concreto punto di partenza organizzativo, perché offrono ai collaboratori la possibilità di confrontarsi e sentirsi parte attiva nel processo di pianificazione e al management l’opportunità di approfondire la conoscenza dell’organico, implementare politiche sempre più basate su aspetti reali e gestire al meglio i processi di cambiamento.
In seguito, costanti monitoraggi consentirebbero di mantenere sotto continuo controllo lo stato di salute dell’organizzazione, individuando tempestivamente potenziali criticità prima che si trasformino in aspetti nocivi, sia per le persone sia per la stessa organizzazione, estremamente costosi e difficilmente sanabili.
Il senso d’attaccamento all’azienda e il benessere della persona che vi lavora si potenziano vicendevolmente
;per questo un leader intelligente, che fa le giuste domande nella corretta maniera e, soprattutto, rispettoso delle risposte che riceve, aumenta le possibilità di creare una squadra sincera, motivata e intraprendente.
Così come ogni momento è buono, quando si parla con i clienti, per ascoltare attentamente, comprendere ciò che pensano e trovare spunti interessanti e utili al miglioramento, un manager, con raziocinio e umiltà, deve essere in grado di accettare i punti di vista dei propri collaboratori, raccogliere i loro pareri in merito alle scelte aziendali, alle emozioni che provano o che vorrebbero provare.
Si potrebbe, per esempio, scoprire che i bisogni e i valori di una parte delle risorse umane non sono in sintonia con la mission aziendale, oppure che qualche lavoratore non abbia chiaro il suo ruolo, le responsabilità e i meriti nel raggiungimento degli obiettivi aziendali.
In definitiva, un gruppo lavorativo legato da un forte spirito d’appartenenza è un gruppo dove tutti si sentono psicologicamente al sicuro, ascoltati e rispettati; dove ogni membro ha la possibilità di esprimere liberamente ciò che pensa e nessuno ha paura di prendere decisioni importanti; dove chiunque ha l’opportunità di formarsi e sviluppare le sue capacità, mettendo al servizio di tutti il proprio talento, in un clima di auto-realizzazione professionale e personale.
Riferimenti
- Abraham Maslow – Motivation and Personality, 1954.
- Giovanna Prina, Saper accettare i feedback nelle aziende vale come un tesoro, ilsole24ore.com/art/management/2019-01-15.
- Charles Duhigg, What Google Learned From Its Quest to Build the Perfect Team, The New York Time Magazine, 25 febbraio 2016.
Articolo a cura di Saverio Greco
Lavora da molti anni come Area Manager per importanti aziende farmaceutiche, occupandosi di selezione, gestione e sviluppo delle competenze.
Da sempre appassionato di leadership e comunicazione è autore dei libri LE PARABOLE DEL MANAGER (Mimep Docete, 2015) e MANAGER E VENDITORE TOP (HOW2 Edizioni, 2020).