Il trasferimento d’azienda come disciplinato dall’art. 2112 c.c.
Sotto il profilo interpretativo e applicativo, si profilano intersecazioni tra le fattispecie contrattuali del trasferimento di proprietà dell’azienda, come disciplinate dalla contrattazione collettiva dirigenziale ed esaminate nell’intervento precedente in questa Rivista, e la previsione dell’art. 2112 c.c. (per l’esclusione dalla fattispecie ex art. 2112 delle ipotesi di cessione del pacchetto azionario, a differenza del caso visto per la fattispecie contrattuale, v. Cass. 11645/1992; Cass. 10829/1991; App. Milano 9 luglio 2004), in tema di “Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda”, laddove, nel comma 4, il quale, dopo aver chiarito che “Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento”, dispone – come già visto – che “il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all’articolo 2119, primo comma”.
La disciplina in commento (ripresa dal contenuto – adattato – dell’art. 4, comma 2, direttiva 2001/23 CE) ribadisce che, di per sé, il trasferimento del ramo d’azienda (o dell’intera azienda) non può costituire motivo di licenziamento, e che è comunque “ferma” la facoltà di operare il recesso (si intende prima, contestualmente o anche immediatamente dopo, sia dal cedente sia dal cessionario) in forma individuale o collettiva, purché lo stesso non trovi giuridico e fattuale fondamento nell’operazione di trasferimento “di per sé” considerata, ma su precise circostanze ad essa estranee. Questo potrà avvenire secondo il modulo classico, ad esempio, con la finalità di snellire la forza lavoro per rendere più conveniente economicamente la collocazione sul mercato dell’azienda.
La norma in esame, innanzitutto, conferma la circostanza che l’operazione di trasferimento comporta l’automatismo del passaggio presso il cessionario, indipendentemente quindi da una specifica manifestazione di consenso da parte del lavoratore (cfr. art. 1406 c. c.: “Ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l’altra parte vi consenta”); a semplice riprova, cfr. Cass. 11908/2003, secondo cui anche dopo le variazioni introdotte dal d.lgs. 18/2001, l’art. 2112 c. c. (nel testo già modificato con la legge n. 428/1990), relativo alla successione dell’imprenditore cessionario all’imprenditore cedente nel rapporto di lavoro, “non prevede che il lavoratore ceduto presti il consenso al trasferimento del suo rapporto di lavoro, con conseguente inapplicabilità dell’art. 1406 c. c.”, “la cui disciplina sarebbe incompatibile con le esigenze dei processi di ristrutturazione aziendale, di riconversione industriale e di delocalizzazione delle imprese, alle quali è finalizzata la normativa dettata dall’art. 2112”. Sotto il profilo in esame, poi, stabilisce una forma particolare di dimissioni a favore dello stesso lavoratore (anche in questo caso salva l’applicabilità del regime generale di cui agli artt. 2118 e 2119 c. c.) che, in questo senso, è dunque da considerare (già) indubitabilmente in forza presso l’acquirente.
Non può altrimenti spiegarsi la possibilità concessa al medesimo di presentare le suddette dimissioni, provocandone gli effetti economici di cui all’art. 2119, a mente del quale l’azienda deve corrispondere il preavviso contrattualmente previsto (secondo importi, fasce di anzianità e modalità individuate da quella contrattazione temporalmente applicabile al rapporto, in relazione alle complesse ed articolate previsioni del comma 3 dell’art. 2112). Il presupposto fondamentale è quello che la norma definisce una “sostanziale modifica” delle “condizioni” di lavoro (Trib. Bologna 11 gennaio 2005).
Sul punto può segnalarsi, innanzitutto, l’interpretazione (invero piuttosto restrittiva) di una certa giurisprudenza, secondo cui l’espressione “modifica sostanziale” deve intendersi riferita “al solo caso in cui la variazione in peius di dette condizioni derivi dall’applicazione, al lavoratore ceduto, del contratto collettivo del cessionario in luogo di quello applicato dal cedente”. Peraltro, secondo il Ministero del lavoro (nota 31 maggio 2001, prot. 5/26570/70), rientrano nella fattispecie legale “le sole dimissioni del dipendente motivate dalla circostanza che il trasferimento d’azienda abbia comportato un complessivo peggioramento delle condizioni di lavoro del dipendente stesso”, ma anche questa ricostruzione appare piuttosto sterile, considerato che, sostanzialmente, si limita a ribadire il contenuto della disposizione di legge, senza alcun apporto critico.
L’ampia formulazione, invero, può essere estesa sino a ricomprendere, oltre gli aspetti economici, normativi, professionali in senso stretto, anche quelli relativi a difficoltà di adattamento al nuovo contratto, in relazione al suo sviluppo potenziale ed all’influenza che lo stesso può avere sulle condizioni personali, familiari, di vita e di relazioni sociali (senza nulla togliere alla circostanza, pure deducibile dal tenore e dal contesto della disposizione, che il lavoratore possa discrezionalmente valutare la possibilità delle dimissioni anche per il rifiuto di “condizioni” lavorative che possano costituire un miglioramento – o, comunque un “non peggioramento” di quelle precedenti e/o originarie), non potendosi poi escludere, ovviamente, una possibilità di riferire le motivazioni in parola anche a quel mutamento nella titolarità (attiva) del rapporto di lavoro che è alla base di tutto l’impianto normativo del trasferimento d’azienda, ovvero, infine, a un’assorbente considerazione, riassuntiva, in questo senso, delle suddette ipotesi, relativa alla circostanza sul presumibile mancato consenso alla stipulazione di un ipotetico nuovo contratto alle condizioni risultanti successivamente al trasferimento. Non è detto, infatti, che la persona (fisica e/o giuridica) del nuovo datore di lavoro – il titolare – sia pienamente gradita al dipendente, anche in considerazione del fatto che, fondamentalmente, lo stesso non ha possibilità di opporre rifiuto alcuno al passaggio alle dipendenze di questi e che, in questo senso, sotto un certo punto di vista, subisce il trasferimento. Questo secondo aspetto assume importanza fondamentale con specifico riferimento al rapporto dirigenziale, in relazione al marcato grado di fiducia che permea lo stesso ed in ragione del quale le variazioni in parola acquistano ben maggiore rilevanza che nel rapporto ordinario. In questo senso verranno esposte, di seguito, considerazioni particolari sulla connessione tra la previsione in oggetto e quelle della contrattazione collettiva dirigenziale – ove esistenti, peraltro con particolare attenzione ai settori industria e terziario/commercio.
Per l’individuazione del termine entro il quale la facoltà di dimissioni può essere esercitata, occorre riferirsi alla lettera della legge, che induce una chiara direzione interpretativa. In questo senso, infatti, è indubitabile che la norma si riferisca ai “tre mesi” (decorrenti dalla data legale del trasferimento) per individuare il periodo entro il quale deve verificarsi e manifestarsi la modifica delle condizioni di lavoro, non certo, dunque, per stabilire la data finale entro cui esercitare la facoltà di recesso. Tale ambito temporale a disposizione del lavoratore deve allora individuarsi con il criterio della (relativa) immediatezza rispetto al fatto causativo della situazione – ovvero alla notizia dello stesso – che costituisce presupposto delle dimissioni.
La facoltà di cui in parola deve essere esercitata per iscritto e con motivazione, quantomeno a salvaguardia di eventuali, successive necessità probatorie. L’erogazione prevista dalla legge deve ritenersi avere natura meramente indennitaria e non risarcitoria.
Come può arguirsi, la fattispecie contrattuale del “mutamento di posizione”, pur avendo qualche momento di incontro con quella di cui all’art. 2112 c. c., connessa necessariamente ed esclusivamente a un trasferimento di azienda, se ne differenzia sotto diversi profili:
- l’ambito di operatività della situazione disciplinata dall’art. 2112 è sensibilmente più ampio, avendo come presupposto, da un lato, sempre e comunque un trasferimento d’azienda (nel senso di cui alla norma stessa), e, dall’altro, (unicamente) una “sostanziale modifica” delle “condizioni di lavoro”; considerata di per sé stessa, trova applicazione, oltre che per il personale con qualifica di dirigente, anche per operai, impiegati e quadri;
- le condizioni di lavoro cui si riferisce la norma di legge vanno individuate secondo la più ampia accezione di cui si è detto precedente, ovvero sotto l’aspetto economico, normativo, professionale, personale, familiare, sociale e, da un certo punto di vista, anche discrezionale, posto che nulla impedisce, stante il tenore della norma, una valutazione unilaterale delle “condizioni” di lavoro e delle conseguenti dimissioni, configurabili come scelta personale;
- il “mutamento” cui fanno riferimento le clausole contrattuali riguarda (esclusivamente) la “posizione” del dirigente, come tale assunta all’interno dell’impresa (gerarchia interna, poteri sostitutivi, collocazione deteriore, di “effettivo detrimento” per alcuni contratti, etc.) e ivi esclusivamente valutabile per il giudizio relativo di accertamento della fattispecie;
- per il dirigente, dunque:
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- opera l’art. 2112 in caso di generico mutamento (pure sostanziale) delle condizioni di lavoro;
- operano le clausole contrattuali per il caso, più specifico, del mutamento della posizione professionale (già) ricoperta all’interno dell’azienda;
- la prima ipotesi (legale) è da ritenere più favorevole al dirigente quanto al presupposto (di portata più ampia) ed è selettiva rispetto alla seconda;
- non è ammissibile il cumulo fra entrambi i benefici, quanto meno per la parziale sovrapposizione dei presupposti e per l’impossibilità di configurare un’ipotesi disciplinata dal contratto collettivo che non sia già ricompresa in quella di legge.
Articolo a cura di Pasquale Dui
Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista