Il Trasferimento nei Contratti Collettivi Dirigenziali
Un altro caso di dimissioni qualificate, previsto frequentemente dalla contrattazione dirigenti, è quello connesso con un ordine di trasferimento del lavoratore che, come noto, può avvenire (“da un’unità produttiva ad un’altra”) solo “per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” (art. 2103 c.c.).
In questi termini, nel settore industria (art. 14) e terziario/commercio (art. 16) è previsto, con clausole sostanzialmente identiche, che il dirigente, il quale proceda alla risoluzione del rapporto entro sessanta giorni dalla comunicazione scritta di trasferimento, motivando il proprio recesso con la mancata accettazione del trasferimento, ha diritto al trattamento pari all’indennità sostitutiva del preavviso spettante in caso di licenziamento e al trattamento di fine rapporto.
Le previsioni globali in ordine all’istituto del trasferimento, sono, in genere, piuttosto complesse ed articolate, secondo una casistica che varia notevolmente da settore a settore.
Non essendo possibile, all’evidenza, parlare dell’ipotesi di dimissioni in parola, senza aver presente la disciplina contrattuale del trasferimento, si ritiene di esporre in questa sede un commento alle disposizioni contrattuali.
La formulazione delle clausole in oggetto lascia chiaramente intendere che il trasferimento da un’unità produttiva ad un’altra deve essere causalmente collegato – e collegabile – ad un’esigenza oggettiva dell’azienda, riassumendosi in tale unitario concetto la previsione delle ragioni specifiche di cui all’art. 2103 c.c. richiamato.
Le ragioni tecniche sono quelle che fanno riferimento ad una particolare considerazione della figura professionale del dirigente, in relazione alle sue specifiche competenze e ai compiti ad esso spettanti, ovvero attribuiti in seno alla struttura imprenditoriale.
Le ragioni organizzative sono quelle propriamente riconducibili al concetto di “organigramma” (e “funzionigramma”) aziendale ed alla sua configurazione, sia in funzione della collocazione del dirigente nella struttura gerarchica – genericamente intesa – sia in forza dei diversi assetti della stessa, stabiliti in sede manageriale dagli organi di gestione.
Le ragioni produttive, infine, sono quelle relative agli aspetti più specificamente riconducibili a quello che è l’oggetto dell’impresa, sia esso di natura produttiva, in senso stretto, sia di natura diversa, ma comunque rientrante nell’attività aziendale.
Sono possibili, evidentemente, interferenze fra i tre criteri di valutazione e definizione delle ragioni dell’azienda, in modo da ottenere una concorrenza duplice o triplice dei rispettivi aspetti nei quali si manifesta il singolo problema.
In ogni caso, le “ragioni” in parola devono essere “comprovate”, cioè obiettivabili e dimostrabili sulla base di riscontri e di valutazioni tipicamente imprenditoriali, con il limite dell’arbitrarietà, sfociante nella soggettività del relativo criterio di espressione.
In presenza di tali comprovate ragioni, dunque, il trasferimento può “avvenire”: l’espressione lascia intendere che, salvo l’esercizio della facoltà di non accettazione, con le conseguenze del caso in ordine al rapporto di lavoro in essere, il consenso dell’interessato non sia necessario. A questa regola generale è sovente posto un temperamento per il caso in cui il dirigente abbia raggiunto determinati limiti di età, indicati nei vari contratti e spesso coincidenti con l’età pensionabile: in tali ipotesi si richiede espressamente il “consenso”, con l’esclusione degli effetti in ordine al licenziamento ed alle dimissioni, così come specificati nelle singole clausole.
Un altro limite al potere di trasferimento riguarda il caso del dirigente che sia stato eletto a funzioni pubbliche. Al riguardo si prospetta un problema per l’eventuale elezione del dirigente in un periodo successivo al trasferimento e la soluzione dovrebbe essere quella dell’ininfluenza sul trasferimento già disposto – e accettato – alla luce anche del fatto che la valutazione in ordine all’opportunità dell’accesso alla carica pubblica elettiva dovrebbe, in tal caso, essere effettuata dall’interessato in base alla considerazione della nuova e diversa sede di lavoro.
È sempre prevista una comunicazione formale (per iscritto) del trasferimento; secondo la S.C., in fattispecie riferita all’art. 14 del contratto industria, che prevede, appunto, la comunicazione scritta, il giudice non può ritenere, senza il conforto di un’indagine accurata e una ricostruzione complessiva della volontà delle parti del contratto collettivo, che il requisito di forma sia previsto nel solo interesse del lavoratore, assegnando, così, alla clausola contrattuale una incidenza diversa a seconda delle parti del rapporto di lavoro. In questi termini, la presunzione prevista dall’art. 1352 c.c. – a norma del quale, se le parti hanno convenuto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che essa sia stata voluta per la validità del contratto stesso – può essere superata soltanto nel caso in cui si pervenga, sulla base dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c., ad una interpretazione certa di segno contrario della volontà delle parti.
La comunicazione, comunque, sembrerebbe avere ad oggetto solo il fatto dell’assegnazione ad altra sede e/o filiale, indipendentemente, quindi, da una contestuale indicazione dei motivi: in realtà, non può ammettersi una comunicazione scevra da indicazioni di quelle che sono le ragioni alla base del prospettato trasferimento, pena la impossibilità, per il dirigente destinatario, di esercitare le facoltà indicate nelle singole norme contrattuali, ovvero le opportune reazioni di fronte a situazioni di palese immotivazione. In particolare, deve ritenersi che il dirigente possa esigere una comunicazione (contestuale e) scritta delle ragioni alla base del disposto trasferimento, nel rispetto dell’indicato termine di preavviso, stabilito nei vari contratti. Questo anche se non sono mancate, in giurisprudenza, decisioni piuttosto singolari sul punto, come quella di merito secondo cui è illegittimo il licenziamento intimato a un dirigente per essersi rifiutato, in assenza di un preciso ordine in tal senso, di trasferirsi all’estero a svolgere la propria attività lavorativa come prospettatogli dalla società datrice di lavoro: la singolarità del caso è proprio connessa alla situazione specifica, laddove l’azienda aveva solo comunicato verbalmente – e informalmente – la possibilità di un futuro trasferimento e il dirigente non aveva opposto nessuna preclusione di principio.
La giurisprudenza, invero, ha già avuto modo di chiarire come, in tema di mutamento della sede di lavoro, proprio il provvedimento di trasferimento – diversamente da quello di licenziamento – non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba necessariamente contenere sin da subito l’indicazione dei motivi, non avendo il datore neppure l’obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda. Fermo questo, tuttavia, ove sia contestata la legittimità del trasferimento medesimo, il predetto datore ha comunque l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la motivazione già eventualmente enunciata, non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve in ogni caso dimostrare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il suo atto (Cass. 13 gennaio 2017, n. 807, richiamata da Trib. Udine 14 gennaio 2019, n. 215, www.dejure.it, secondo cui, oltremodo, la previsione contenuta nel contratto individuale di lavoro, laddove sia specificato che il luogo di lavoro al quale sia adibito il lavoratore può essere variato in funzione di esigenze aziendali e che il lavoratore si rende disponibile a prestare attività lavorativa nelle località stabilite e comunicate preventivamente in un ambito territoriale predeterminato è a dir poco superflua, nella parte in cui richiama esigenze aziendali già costituenti, ex art. 2103 c.c., il presupposto di legittimità di ogni trasferimento del lavoratore da una unità produttiva ad un’altra; risulta invece nulla, se finalizzata ad aggirare la ratio di tale previsione normativa con l’ottenimento di una sostanziale rinuncia preventiva del lavoratore medesimo a sollevare contestazioni per ogni suo eventuale spostamento di sede).
Il termine di preavviso è fissato, in linea generale, in un periodo che oscilla da tre mesi o, laddove il dirigente abbia familiari a carico, a quattro mesi. Il concetto di familiari a carico, ossia di quei soggetti risultanti tali dall’apposita certificazione anagrafica, deve ritenersi sussistente in assenza di redditi da parte del coniuge ed eventuali figli minori e/o studenti conviventi, in particolare non ritenendosi sufficiente il solo fatto della convivenza e/o coabitazione. La ragione pratica è, evidentemente, connessa al presumibile maggiore disagio derivante da tale ultima situazione, in relazione al prospettato mutamento di residenza.
Laddove le ragioni oggettive legali siano fonte di una particolare situazione di urgenza, tale da non consentire un preavviso, l’eventuale – conseguente – trasferimento viene, generalmente, ad essere parificato, nei profili normativi e retributivi, ad una trasferta, con il diritto al relativo trattamento contrattuale ed al rimborso delle spese per l’eventuale rientro settimanale in famiglia.
Successivamente alla comunicazione, il dirigente, previa valutazione della propria situazione personale e/o familiare, si trova di fronte all’alternativa di accettare o meno il trasferimento, con una serie di conseguenze in ordine al rapporto di lavoro.
L’azienda può, innanzitutto, procedere al licenziamento del dirigente che non accetti il trasferimento, e la relativa vicenda estintiva del rapporto deve configurarsi come un recesso giustificato, con diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva del preavviso. La valutazione delle parti – collettive – contraenti, in ordine all’intreccio tra le ragioni dell’azienda e il – legittimo – rifiuto del dirigente, rende immune il licenziamento da un giudizio di ingiustificatezza, per gli effetti di cui alla tutela convenzionale.
Il dirigente che non ritenga di dover accettare il trasferimento e rassegni le proprie dimissioni – così motivate – entro il termine – essenziale – previsto dal contratto, ha invece diritto, oltre alle normali competenze di fine rapporto, al trattamento economico previsto, articolato in una somma pari all’indennità di preavviso (teoricamente) spettante in caso di licenziamento, nonché ad una indennità supplementare al TFR pari ad 1/3 del corrispettivo del preavviso individuale maturato.
È, comunque, inammissibile, per il dirigente, l’esercizio di una sorta di autotutela, concretantesi nel rifiuto di svolgere le prestazioni nel luogo – di trasferimento – indicato dall’azienda, continuando, in ipotesi, a prestare la propria opera nella sede originaria, configurandosi il provvedimento datoriale di destinazione ad altra sede, “come l’esercizio di un potere privato”, ancorché sottoposto a verifica di legittimità in sede giudiziale. È infatti da escludere che nel rapporto di lavoro possa trovare applicazione la norma di cui all’art. 1460 c.c. (Eccezione d’inadempimento: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto”), con riferimento al potere del datore di lavoro di variare il luogo della prestazione, non potendosi, conseguentemente, inquadrare la sostanziale manifestazione di autotutela nello schema giuridico dell’eccezione di inadempimento.
I vari contratti collettivi dirigenziali, poi, contengono una serie di disposizioni particolarmente favorevoli al dirigente in ordine all’accollo di alcune spese connesse al disposto trasferimento (viaggio, trasloco del mobilio, provvisoria sistemazione in albergo, etc.) e ad eventuali situazioni di disagio economico del dirigente (indennità una tantum, etc.).
Articolo a cura di Pasquale Dui
Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista