Innovazione vs Imitazione: qualche riflessione
Introduzione
L’ “Imitazione” può essere definita come l’atto di emulare o copiare l’azione di qualcun altro. L’imitazione è un atteggiamento piuttosto comune dell’agire e del comportamento umano ed è un connotato molto frequente all’interno dei processi decisionali. Molto spesso infatti il comportamento imitativo implica l’adozione di decisioni o il cambiamento di azioni sulla base dell’osservazione e dell’imitazione del comportamento altrui. Quando si parla di imitazione con riferimento alla tecnologia, all’innovazione o a questioni commerciali ed economiche, questo termine tende ad assumere connotazioni non particolarmente positive anche perché l’imitazione viene spesso possa in opposizione diretta all’innovazione. E’ un’idea abbastanza diffusa e condivisa che l’innovazione (e le economie ad alto tasso di penetrazione dell’innovazione) tenda a generare prodotti avanzati di alta qualità mentre l’imitazione (e le economie con maggiore incidenza di imitazione), spingerebbe alla realizzazione di prodotti/servizi di bassa qualità, magari anche creati in odore di pirateria industriale e commerciale con la violazione delle norme sulla proprietà intellettuale.
Indubbiamente molti dei preconcetti e dei pregiudizi sull’imitazione sono fondati. Resta tuttavia il fatto che l’imitazione resta un aspetto cruciale all’interno dei processi di diffusione della conoscenza, delle innovazioni e delle tecnologie poco approfondito. L’imitazione dovrebbe essere considerata una forma non irrilevante di apprendimento, di circolazione di informazioni, di condivisione di conoscenza.
E’ risaputo che fare innovazione significa fare i conti con alti costi, dovuti alle fasi di ricerca e sviluppo, e soprattutto molti rischi: inoltre anche i costi di apprendimento (formazione delle risorse umane coinvolte) di un’innovazione o una nuova tecnologia sono sempre tendenzialmente molto elevati. Tutto questo può essere affrontato da un numero relativamente piccolo di imprese (spesso di grandi dimensioni) con una posizione piuttosto consolidata sul mercato. L’esperienza ci insegna invece che molte imprese iniziano la loro attività semplicemente “imitando” per poi magari migliorare i propri prodotti/servizi, sviluppare innovazioni e nuove tecnologie sulla base del know how creato da altri. Il caso più esemplare è quello della Toyota che è entrata nel settore automobilistico piuttosto tardi (dato che produceva telai tessili). La Toyota ha fondamentalmente appreso i sistemi produttivi dalla Ford, li ha replicati e li ha continuamente migliorati fino ad arrivare alla creazione di un proprio sistema di produzione originale altamente efficiente denominato “Lean Production System” di cui molti aspetti sono stati a loro volta imitati da parecchie imprese americane del settore automobilistico e non. Anche in altri settori gli esempi non mancano: dall’informatica all’elettronica, dai servizi bancari alle telecomunicazioni, ecc…
Imitazione: come, dove, quando e perchè
Anche se tante imprese alla fine si basano sull’imitazione e anche se oggetto di molti studi di neurologia, sociologia, psicologia, economia, management e organizzazione, in Occidente (in Oriente – è risaputo – decisamente meno) questo concetto ha spesso una connotazione negativa. L’imitazione non va nemmeno nominata e quindi si “imita” di nascosto senza nemmeno cercare di comprendere le implicazioni che questo fenomeno implica. Invece bisognerebbe riflettere su cosa significhi realmente “imitare” soprattutto in un periodo, come quello che stiamo vivendo, di grave stagnazione economica, di difficoltà a difendere la competitività dell’intero sistema economico nazionale e di continui tagli alle già risicate risorse per la ricerca scientifica.
Se ci si pensa bene l’imitazione non dovrebbe essere considerata un male di per sé: al contrario, la capacità di apprendere da quanto è già stato fatto dagli altri può essere un beneficio per un’impresa e per una rete di imprese con impatti positivi per l’economia nel suo complesso. Bisogna tuttavia comprendere quali legami si stabiliscono fra innovazione ed imitazione sotto molteplici punti di vista. Indubbiamente l’imitazione riduce i profitti delle imprese che innovano e limita l’inclinazione stessa delle imprese ad innovare. Esistono poi delle problematiche complesse in primo luogo per quello che riguarda i diritti di proprietà intellettuale (Intellectual Property Rights – IPR). I vantaggi ed i benefici dell’innovazione (ad es. i profitti) devono essere infatti garantiti e tutelati attraverso una protezione legale affinché possano tradursi in tecnologie innovative. L’imitazione massiva e senza controllo scoraggia l’innovazione perché in primo luogo erode la credibilità dei sistemi di tutela di IPR.
L’imitazione quindi danneggia l’innovazione e la creatività? Forse, ma non sempre. Se si considera il caso ad esempio delle cosiddette “innovazioni cumulative” le cose potrebbero andare diversamente. Vengono definite “innovazioni cumulative” quelle che risultano da più flussi innovativi ovvero quelle in cui le innovazioni di oggi gettano le basi e le premesse per le innovazioni di domani, che a loro volta gettano le basi per il flusso successivo e così via. Questi processi cumulativi spesso si legano all’imitazione anche perché le innovazioni che danno via a questi processi cumulativi spesso nascono da poche imprese d’avanguardia che innescano l’intero processo di stratificazione di innovazione. Se l’imitazione viene del tutto bloccata, anche a causa di protezione di IPR troppo rigidi, mancanza di adeguati ed efficienti open innovation system, i flussi successivi cumulativi potrebbero incepparsi perché gli imitatori non riescono a trasformarsi in innovatori. Gli outsiders devono poter imparare dalle conoscenze tacite/esplicite presenti nelle tecnologie esistenti grazie all’imitazione per poter essere in grado di innovare l’esistente e/o inventare nuove soluzioni tecnologiche altrimenti il processo di accumulazione e stratificazione di innovazioni inevitabilmente si blocca: gli imitatori di successo possono quindi entrare nel mercato, competere con le imprese innovatrici e stimolare la nascita di nuove innovazioni. Si trasformano quindi da imitatori in innovatori.
Il profilo dell’innovazione e quello dell’imitazione
E’ arcinoto che innovare significa affrontare grandi modificazioni nelle competenze individuali e dei gruppi di lavoro, mettere in campo cospicui investimenti di tempo e denaro, avere a disposizione laboratori, strutture, infrastrutture e personale dedicato, ecc… E questo è vero sia nel caso in cui si intenda sviluppare attività di R&S in proprio sia in caso di azioni di trasferimento tecnologico (TT) da centri di ricerca pubblici o privati. Un’impresa orientata all’innovazione è quindi quella che ha una strategia di sviluppo ed introduzione sul mercato di nuovi prodotti/tecnologie/servizi innovativi prima dei concorrenti. Queste imprese entrano nel mercato per prime con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso. Le innovazioni infatti creano nuovi mercati, nuovi filoni di business, presentano un elevato grado di profittabilità, danno una forte carica emotiva al “marchio”, danno forma alle stesse preferenze e gusti dei consumatori, fino a modificarne i comportamenti e gli stili, orientano il mercato e creano le traiettorie tecnologiche: e questo si realizza già solo per il semplice fatto di non doversi confrontare con prodotti/servizi concorrenti. Le innovazioni sono sempre una terra incognita perchè hanno un notevole margine di rischio: potrebbero non funzionare, potrebbero non incontrare i gusti del mercato, potrebbero fallire perché non ci sono precedenti su cui fare affidamento.
Un’impresa orientata all’imitazione invece adotta idee e tecnologie fondamentalmente mature prese dai concorrenti fondamentalmente per evitare il carico dei grandi costi legati alle attività di R&S: ma, anche in questo caso con dei precisi vantaggi e svantaggi. Se è vero che i prodotti esistenti forniscono tutte le informazioni necessarie all’imitatore per lo sviluppo dei propri prodotti/servizi, queste imprese devono fare i conti con le imprese all’avanguardia e con gli altri imitatori, quindi all’interno di un mercato concorrenziale dove pertanto i margini di profitto possono essere decisamente più limitati. Una possibilità di farsi spazio in mercati “affollati” è quindi quella di imitare introducendo miglioramenti/innovazioni incrementali per confrontarsi meglio con la domanda.
Questi orientamenti insomma delineano degli approcci imprenditoriali con delle caratteristiche abbastanza precise (tabella 1). Questo per dire che di per sé entrambi gli orientamenti sono praticabili: l’innovazione non è l’unico sistema per entrare nel mercato. Anzi, poiché l’innovazione è sempre portata avanti da pionieri, alla fine l’imitazione è una strategia molto più comune e diffusa dell’innovazione.
L’imitazione non è tuttavia un fenomeno uniforme, dato che presenta delle sfumature tali da renderla un oggetto molto più sfaccettato di quello che si potrebbe immaginare. Oltre all’imitazione pura esiste anche una forma di imitazione creativa (copy-but-improve) che può avvicinarla all’innovazione vera e propria.
Con l’imitazione “pura” un’impresa realizza fondamentalmente dei “cloni” identici ai prodotti della concorrenza, mentre con l’imitazione “creativa” l’impresa modifica il prodotto aggiungendo miglioramenti al prodotto originale della concorrenza. L’imitazione pura porta l’impresa ad entrare velocemente sul mercato con prodotti-replica realizzati a basso costo (dato che non ci sono i costi insiti nella R&S), con prezzi quindi decisamente più bassi (spesso con impatti negativi sulla qualità) rispetto agli originali per essere concorrenziali. Con l’imitazione creativa, l’impresa, apportando miglioramenti al prodotto originale, replica dei prodotti che presentano un loro grado di innovazione seppur limitato, ma sfrutta tutti i vantaggi delle attività di R&S già svolte dalle imprese innovatrici. Si impara soprattutto dagli errori che si celano nelle innovazioni ed è qui che si concentra il maggior focus del miglioramento di prodotto/processo. In questo modo in particolare l’imitazione creativa può apparire vantaggiosa anche rispetto all’innovazione vera e propria. La strada dell’imitazione non è tutta in discesa perché per essere un buon imitatore servono notevoli capacità di management e di marketing. Per molte categorie di prodotti, agire solo sulla leva del prezzo non è infatti sufficiente per entrare sul mercato con prodotti clone. Per ritagliarsi una vera fetta di mercato con delle repliche (da imitazione pura o creativa) è indispensabile in qualche modo che questi prodotti appaiono diversi dagli originali. Spesso infatti vengono adottate a tal fine massicce campagne pubblicitarie e promozioni per fare fronte a eventuali percezioni negative da parte dei consumatori soprattutto in caso di bassa qualità (vera o presunta) del prodotto/servizio (gli imitatori partono sempre inevitabilmente con una fama non particolarmente buona), supportare l’affidabilità, la reputazione e la credibilità dell’azienda, invertire l’immagine di impresa copy-cat (copiona). Tutto questo ha un costo, un costo piuttosto elevato che nel lungo periodo può cancellare tutti vantaggi generati dall’imitazione. Anche questi aspetti devono essere quindi tenuti in debita considerazione.
Un elemento importante nella caratterizzazione di questi orientamenti è senza dubbio il fattore “creatività”. La creatività è la capacità di mettere in pratica idee e visioni in modo tale da portare alla realizzazione di nuovi oggetti, prodotti, servizi, ecc… ed è un fattore critico all’interno dei processi di apprendimento, generazione e diffusione della conoscenza. Siamo soliti pensare che la creatività sia una specificità esclusiva dell’innovazione e degli innovatori. In realtà anche l’imitazione implica una certa dose di creatività soprattutto quando l’imitazione è la premessa per lo sviluppo di innovazioni incrementali e miglioramenti su prodotti innovativi maturi.
Conclusioni
Si può affermare che la diffusione della conoscenza e delle innovazioni si basa fondamentalmente sulla capacità di replicare e di imitare. L’imitazione può avvenire sia sottoforma di trasferimento volontario di innovazione da un centro di ricerca ad un’impresa o da un’impresa ad un’altra (ad esempio per mezzo di licenze o brevetti) sia anche sottoforma di riproduzione “non volontaria” da parte di imprese concorrenti.
E’ arcinoto che il trasferimento tecnologico e il “technology learning” sono componenti cruciali dei processi di crescita e di innovazione all’interno dei quali l’imitazione gioca un ruolo critico ma spesso sottovalutato. Questa sottovalutazione è il risultato di un’incomprensione del significato più profondo del concetto di “trasferimento tecnologico” che viene spesso associato alla sola applicazione al livello di business di conoscenze e risultati che provengono dalla ricerca scientifica tramite licenze o brevetti. Questa in realtà è una delle sfaccettature del trasferimento tecnologico: modificazioni nelle competenze professionali, nelle capacità di apprendimento degli individui, apertura di nuove visioni e relazioni, stimoli alla creatività, nuovi profili organizzativi, modificazioni culturali negli agenti coinvolti, ecc… sono aspetti altrettanti critici. Questi sono elementi che si muovono nel trasferimento alcuni dei quali sono imitati in modo creativo, altri replicati tout court. La “codificazione”, ovvero la capacità di trasformare i fattori taciti/espliciti della conoscenza in componenti accessibili, è un passo essenziale per rendere comprensibili i risultati della ricerca scientifica a soggetti che operano sul mercato e quindi per permettere ad un processo di trasferimento tecnologico di generare impatti positivi. E’ evidente che più efficiente è la codificazione, più agevole la comunicazione, più efficiente il trasferimento tecnologico. Inoltre più è fluida la comunicazione e più semplici i contenuti, più facile sarà la replicazione, l’imitazione: inoltre il tempo dell’imitazione sarà più breve (imitation lag). E’ abbastanza ovvio che l’imitazione infatti può generare alti benefici se implica dei tempi piuttosto rapidi. L’imitation lag infatti è la lunghezza di tempo che intercorre dall’introduzione di un prodotto originale e l’apparizione della replica. L’imitation lag si lega al tempo di apprendimento necessario per “capire” il prodotto originale, estrarne le informazioni necessarie alla sua replicazione, allestire le tecnologie e l’organizzazione operativa necessarie alla sua produzione, strutturare il know how richiesto: quindi acquisto degli inputs, operatività dei macchinari, lavorazione degli inputs, trasferimento del prodotto sul mercato, campagne di marketing, ecc… L’imitation lag potrebbe essere anche piuttosto lungo.
Abbiamo visto che quando si parla di imitazione ci si riferisce ad un fenomeno molto più variegato di quanto si possa a prima vista pensare, ricco di sfumature e variabili. Tutte queste sfumature rendono quindi molto più articolato lo stesso rapporto che intercorre fra l’imitazione e l’innovazione: tra le grandi innovazioni di “rottura” che nascono dai grandi centri di ricerca scientifica e tecnologica avanzata fino alla più rozza contraffazione compiuta nei sottoscala esiste infatti un ventaglio molto esteso di gradazioni e situazioni particolari ciascuno caratterizzato da aspetti e profili specifici e peculiari (fig. 1).
L’imitazione presenta poi delle implicazioni non meno interessanti e degne di riflessione. Nel famoso testo giapponese del XVIII “Hagakure” di Yamamoto Tsunetomo sta scritto:
“Il maestro Ittei racconta: ‘Copiando un buon modello ed esercitandosi con impegno, anche un cattivo calligrafo può migliorare’.[..]è bene crearlo da sè, prendendo le differenti qualità da persone diverse … Cogliendo il lato migliore di tutti, si crea un buon esempio.”
Questa è la descrizione di un classico esempio di “learning by examples”. L’esperienza quotidiana di ciascuno di noi ci mostra come il nostro Paese sia pieno di storture e “bad practices” di ogni genere. Su tante questioni (non solo prodotti o servizi, ma anche approcci, metodi, mentalità, modi di operare e di gestire, ecc…) avremmo bisogno di imparare da buoni esempi che possiamo trovare in Italia o all’estero e cercare di replicarli nei nostri contesti. Bisognerebbe fare come facevano un tempo i turisti giapponesi e cinesi che invadevano le nostre città: fotografavano tutto, non solo i monumenti, ma tutto quello che, anche se apparentemente banale, ritenevano potesse essere in qualche modo utile ed interessante. Difficile dire quante cose siano state sviluppate in Oriente imitando e copiando da quelle fotografie, ma molto è servito sicuramente come modello da replicare in patria per poi migliorarlo. Quei modelli sono stati usati spesso per eguagliare e, in non pochi casi, superare il nostro “Made in Italy”. Viene da pensare allora che quando si viaggia all’estero invece di preoccuparci di trovare un posto per mangiare un piatto di pasta o una pizza, dovremmo dedicare del tempo ad osservare “come e cosa fanno gli altri”, trovare buone idee ed esempi e possibilmente trovare il modo di replicarli. Sempre secondo l’arcinoto principio: “Non imitare mai chi fa le cose peggio di te”.
A cura di: Carmelo Cannarella e Valeria Piccioni, Consiglio Nazionale Ricerche (CNR), Istituto di Metodologie Chimiche (IMC), Gruppo per la Facilitazione e Disseminazione (GFD)