Intervista a Sergio Riolo, direttore del Museo dell’Archivio Storico del Banco di Napoli “ilCartastorie”
La rubrica che ospita la nostra intervista si chiama “Voci dell’Innovazione”. Per te l’innovazione che voce ha? Che lingua parla? E qual è il suo interlocutore privilegiato?
La vera innovazione ha la voce autorevole dei vecchi saggi, parla una lingua semplice, chiara e comprensibile, ed ha come interlocutore fondamentale chi occupa posizioni marginali nella società. In altri termini l’innovazione deve avere una profonda utilità sociale, altrimenti rischia solo di aumentare le distanze tra le persone, mentre deve farsi strumento per ridurre i gap di ogni tipo. Se intendiamo l’innovazione come linguaggio, dobbiamo ammettere che porta antropologicamente con sé dei significati che vanno oltre le parole. Semioticamente l’innovazione deve voler dire democrazia, uguaglianza, apertura.
Tu dirigi il Cartastorie, il Museo dell’Archivio Storico del Banco di Napoli che valorizza e mette a fattor comune il patrimonio degli antichi banchi pubblici napoletani. Ci spieghi esattamente come è nata l’idea e che tipo di esperienza si consuma all’interno del Museo?
L’idea è nata da Daniele Marrama, Presidente della Fondazione Banco di Napoli, proprietaria dell’Archivio che, amando e frequentando fin da bambino l’Archivio, nel suo ruolo di Presidente ha voluto porre al centro delle politiche della Fondazione un ampio e articolato progetto di valorizzazione e divulgazione dell’Archivio, con il convincimento che si trattasse di un patrimonio che merita di essere conosciuto, dalla città e dai turisti. La prima volta che mi parlò della sua idea disse più o meno queste parole “vorrei fare un museo dell’Archivio…” e in quel momento, nella mia testa di persona che si occupa di musei e valorizzazione del patrimonio culturale da oltre quindici anni, in una frazione di secondo balenarono davanti visoni tristi di incomprensibili documenti antichi sotto teca (che è un po’ come dire sotto naftalina…); poi il Presidente aggiunse “…un museo di storie”. E mi si illuminò lo sguardo, credo. Perché con quel cambio di prospettiva – da museo di documenti a museo di storie – tutta l’aspettativa di lavorare a questo progetto cambiò radicalmente.
Ecco perché oggi si può dire che chi viene nel nostro piccolo ma prezioso museo vive un’esperienza di meraviglia e conoscenza; immergendosi nell’Archivio, che di per sé è un luogo strabiliante, ascolta voci e suoni, vede immagini e proiezioni che letteralmente danno voce ad alcune delle milioni di storie che gli antichi documenti celano. Tutto questo avviene grazie alla multimedialità, che costituisce un supporto alla fruizione e non un diaframma.
Ci fornisci qualche numero del Museo (es. stanze, carte, anni di storia coperti) e ci racconti come vengono conservate le carte dell’Archivio?
Circa 80 chilometri di carte, conservate in 330 stanze che coprono un intervallo che va dal 1539 ai primi anni 2000. Uno spaccato profondo e ampio della storia del Mezzogiorno d’Italia vista dalla specialissima prospettiva delle transazioni economiche che riguardano qualsiasi aspetto della vita sociale, politica, antropologica, artistica etc. etc. di quasi 500 anni di storia.
Le carte si conservano senza particolari accorgimenti nello stesso luogo dal 1819. La carta è così ricca di cellulosa e gli inchiostri così ricchi di china, il microambiente venutosi naturalmente a creare nei due palazzi che le ospitano in pieno centro storico di Napoli così favorevole alla loro conservazione, che tutti i nostri visitatori restano sorpresi nell’apprendere che non siamo costretti a diavolerie tecnologiche per mantenere questo immenso patrimonio di carta e di memoria.
Quest’anno il Cartastorie si è aggiudicato il Premio Cultura + Impresa, promosso dall’omonimo Comitato non profit fondato da Federculture e The Round Table, dedicato ai migliori progetti di sponsorizzazione, partnership e produzione culturale d’impresa in Italia. Che valenza ha questo riconoscimento per voi?
Un’impresa culturale e creativa come la nostra, nata nel 2016, ha bisogno di conferme; l’affermazione nel settore del patrimonio culturale è lenta e complessa e la costruzione di una domanda numericamente consistente, per di più in un settore ed in una città dove la tensione competitiva è sempre più alta, può richiedere anni se non decenni. Per questo dico sempre che un premio come Cultura + Impresa rappresenta la dimostrazione, da parte della comunità di riferimento, che hai avviato un buon lavoro; è energia e stimolo a proseguire e migliorare.
Anche a livello europeo è stato gettato un faro su di voi, basti pensare al fatto che il Cartastorie è tra i vincitori del premio dell’Unione Europea per i Beni Culturali “Europa Nostra Awards 2017”, nella categoria “Educazione, formazione e sensibilizzazione”. In Europa esiste una esperienza simile alla vostra? E, secondo te, cosa l’Italia potrebbe insegnare (o imparare) all’Europa nell’ambito della valorizzazione del patrimonio culturale?
Il premio Europa Nostra è interessante: esiste da una quindicina di anni, molto noto in Europa, meno in Italia. In ogni caso, l’Italia nel corso degli anni ha vinto un bel po’ di premi Europa Nostra, quasi esclusivamente nei settori tradizionalmente forti nel nostro Paese, la ricerca e il restauro/conservazione. Nell’ambito della valorizzazione (“Educazione, formazione e sensibilizzazione”), in Italia sono arrivati solamente tre premi prima del nostro. L’Italia ha un grande patrimonio culturale, ma enormi difficoltà a raccontarlo e narrarlo. Quando siamo andati a ritirare il premio in Finlandia, lo scorso maggio, la giuria ci ha candidamente detto di avercelo assegnato “per l’idea”, per il fatto di aver pensato di trasformare un archivio storico in un luogo di narrazione aperto ad un’esperienza per non specialisti, addirittura di tipo turistico.
L’anno scorso siete stati protagonisti di un fatto di rilevanza mondiale: grazie alla descrizione contenuta in un documento del 1606 che conservate nel Museo e che descrive una committenza fatta da un mercante croato a Caravaggio, avete dato rappresentazione multimediale ad un quadro di cui si era solo sentito parlare, la cosiddetta “Pala Radolovich”. Ci racconti come è andata?
È un caso quanto mai emblematico. Il documento è noto agli studiosi da almeno 25 anni, grazie alle ricerche del Direttore del nostro archivio, Eduardo Nappi; in più, una delle caratteristiche di questo documento è che si tratta di una sintesi perfetta della specificità del nostro Archivio. Mi spiego meglio: la causale di pagamento descrive nei minimi dettagli un dipinto di Caravaggio di cui non si ha altra traccia, al di fuori di queste cinque righe. Lo scorso anno abbiamo lavorato su questo documento chiedendo ad una compagnia teatrale specializzata in tableaux vivants di Caravaggio, di immaginare, proprio partendo dalla causale di pagamento di questo antico “assegno”, come sarebbe potuto essere il dipinto. Ne è nata una straordinaria performance in Archivio in cui otto attori hanno dato letteralmente vita al dipinto; dalla performance (quindi dall’analogico) è nato un prodotto multimediale (giungendo dunque al digitale) che utilizziamo con i nostri visitatori per far loro comprendere in maniera “plastica” cosa voglia dire avere un Caravaggio “china su carta”, un Caravaggio che si può affermare “esista” solo in quanto esiste un antico documento bancario. Insomma, guai a chi dice che la pala Radolovich non esiste! Se ne esiste l’idea (contenuta nel documento) allora l’opera, in qualche modo, per noi è “reale”. E questo paradosso i nostri visitatori lo comprendono benissimo e attraverso questo paradosso comprendono cosa sia e a cosa serva un archivio, un qualsiasi archivio.
Il Museo dell’Archivio Storico del Banco di Napoli è un bell’esempio di come tradizione e innovazione possano convivere insieme. Secondo te l’innovazione digitale come entra in rapporto con la cultura e la sua fruizione?
L’innovazione digitale entra in un sanissimo rapporto con la cultura quando è ad essa funzionale; non si contano i casi in cui l’innovazione non è a servizio della cultura, ma ad essa si sostituisce, creando un diaframma percettivo e non un ponte come invece dovrebbe. Si pensi, per fare il più semplice degli esempi, a tutti i sistemi e le applicazioni che attirano l’attenzione dell’utente su di sé anziché dirottarla sul patrimonio culturale che è lì presente. Il paradosso degli utenti che guardano su uno schermo di 5 pollici la facciata di una chiesa che, in tutta la sua monumentalità, è lì davanti a loro, è qualcosa di completamente insensato.
O l’innovazione digitale ha una funzione strumentale rispetto alla narrazione del patrimonio o non serve a nulla. E orientare progetti tecnologici in una direzione non invasiva rispetto alla cultura è compito nostro.
Tra le vostre attività, Il Museo dell’Archivio Storico del Banco di Napoli ospita i licei nei loro percorsi di alternanza scuola-lavoro. Che tipo di opportunità, ed eventualmente di rischi, ravvedi nei percorsi di alternanza scuola lavoro?
L’alternanza scuola-lavoro noi l’abbiamo inizialmente subita. Mi spiego meglio. Come ente strumentale di una fondazione di origine bancaria abbiamo nel DNA l’aiuto al territorio; per questo ci siamo trovati nella condizione di non poter dire di no di fronte alle richieste delle scuole della nostra città di accompagnare i ragazzi in un’esperienza di Alternanza. Tuttavia, al di là di come è nata all’inizio, l’esperienza si è rivelata un successo; i ragazzi sono stati proiettati in un mondo fatto di “carta e polvere” e sono rimasti positivamente disorientati quando hanno scoperto, insieme a noi, come un museo di un archivio potesse essere un centro di creatività così stimolante e si sono misurati con passione con la sfida di tradurre antichi contenuti storici in linguaggi creativi e artistici contemporanei.
Dal 10 al 24 novembre si celebra in tutta Italia la Settimana della Cultura d’Impresa, alla quale anche il Cartastorie aderisce. Impresa, cultura e territorio saranno protagonisti di centinaia di iniziative: secondo te che rapporto c’è tra questi elementi e come si alimentano l’uno con l’altro?
La vedo in questi termini: impresa, cultura e territorio sono elementi di un ecosistema al quale apparteniamo tutti. Generalmente si ritiene che impresa, culture e territori ci appartengano e che quindi, in questo senso, possiamo disporne come meglio crediamo. Io credo che il paradigma debba essere riconsiderato, siamo noi ad appartenere a questo ecosistema che ci fornisce la nostra stessa identità. E in quanto tale abbiamo tutto l’interesse a tutelarlo, pena la nostra stessa crisi identitaria.
Un’ultima domanda: impegno civico e comunità manageriale. Secondo te che tipo di ruolo possono avere i manager nella costruzione di “leadership civiche”?
Esempio e ascolto. Occorre non dimenticare l’enorme ruolo pedagogico dell’esempio fornito agli altri e, in questa prospettiva, mi riferisco alla questione dei valori etici, che non possono essere un vuoto slogan, ma un esempio concreto. E a questo aggiungerei la capacità di ascolto che vuol dire saper vedere le cose anche e soprattutto dal punto di vista di chi non condivide la nostra visione.
A cura di: Marcella Mallen, Presidente Prioritalia
Autore: Francesca Buttara, Board Junior Prioritalia con delega alla Comunicazione e Relazioni con i Media