La comunicazione duale capo e collaboratore

Il colloquio tra capo e collaboratore è connotato da un contesto formale determinato da un ambiente lavorativo e da una situazione strutturata nella quale gli attori esclusivi sono da una parte un responsabile organizzativo e dall’altra una risorsa, che agiscono in un rapporto complementare di interdipendenza, per un fine prestabilito. È sostenuto da una motivazione intrinseca: entrambi i soggetti coinvolti hanno un interesse da promuovere o difendere.

Ogni organizzazione aziendale, qualunque sia la sua dimensione e la sua missione, è costituita da un determinato numero di persone che interagiscono tra loro percependosi come membri che vi appartengono, agendo da realizzatori per il raggiungimento degli obiettivi che ne costituiscono la ragione d’essere. Ciascun membro contribuisce in funzione della propria professionalità, esperienze, prospettive, delusioni e successi. Si può affermare che un’organizzazione “vive” quando vi sono persone in grado di comunicare tra loro, disposte a dare un contributo individuale con l’intento di perseguire un fine comune. La comunicazione rappresenta la modalità con cui l’organizzazione sviluppa e mantiene le relazioni e i rapporti con coloro dai quali dipende la sua esistenza, il suo sviluppo e il suo benessere.

L’insieme dei messaggi, diversi tra loro per natura del contenuto, costituisce la comunicazione che scorre attraverso vari canali: procedure, circolari, avvisi in bacheca o tramite mail, telefonate, riunioni e, non escluse, le chiacchierate alla macchina distributrice del caffè. Esistono poi altri messaggi, di tipo analogico, costituti dal contesto in cui si lavora: arredamento, composizione architettonica, agibilità dei locali, sensazione di sicurezza, pulizia, clima aziendale.

L’organizzazione aziendale rappresenta, dunque, un sistema di comunicazione all’interno del quale le soggettività delle persone, differenziate dai ruoli, dagli status, dai regolamenti e rapporti gerarchici, sono portatrici di diversi tipi e gradi di bisogni, e di conseguenza, in maniera più o meno consapevole, agiscono comportamenti che possono condurre al conflitto o all’intesa.

Ogni responsabile deve saper gestire situazioni conflittuali o ambigue, al fine di instaurare un clima comunicativo sereno e sostenitore di efficaci reti di rapporti interpersonali.

Il comportamento umano costituisce infatti una delle aree più problematiche del sistema azienda e richiede strumenti gestionali non a base ideologica, ma finalizzati a valutare ogni variabile come positiva o negativa non in sé, ma in funzione del tipo di comportamento atteso dall’organizzazione.

Uno di questi strumenti, che offre un’ampia potenzialità d’uso, è il colloquio tra responsabile e collaboratore che si può realizzare nella dimensione azienda attraverso un processo articolato, mirato e, soprattutto, scientifico. Alcune tipologie di colloquio, come ad esempio quelle relative al processo di Selezione del personale, spesso sono delegate a specialisti dell’Area Risorse Umane, ma al manager compete sempre l’incarico di effettuare la “valutazione delle prestazioni”, la “valutazione del potenziale”, di rilasciarne il giudizio realizzato, di gestire la difficile situazione del biasimo e della critica, o più in generale stabilire relazioni dirette con un collaboratore.

Quando la necessità comunicativa si colloca in uno di questi contesti, è necessario conoscere le tecniche di conduzione del colloquio in relazione ai tre possibili diversi obiettivi che ne caratterizzano, in un certo senso, la tipologia.

La comunicazione si realizza attraverso l’emissione dei “messaggi.” I messaggi costituiti dal linguaggio parlato si possono classificare in:

I tre tipi di messaggio possono esistere separatamente, ma anche essere parte di un messaggio più articolato e ampio.

Se si deve far agire per ottenere un determinato risultato è utile utilizzare il messaggio di esortazione, tralasciando la constatazione e l’opinione non utili ai fini dell’effetto atteso.

Convincere ad eseguire un determinato compito richiederà una valutazione della situazione (opinione) poi sostenuta da una esortazione.

Interessare significa rappresentare una certa situazione (constatazione) poi connotata da una opinione.

Infine un’informazione renderà necessaria la sola rappresentazione di una fatto osservato.

Affinché il colloquio non si trasformi in un interrogatorio o, peggio, si rovesci facendovi prendere il ruolo del vostro collaboratore, ossia siate voi l’oggetto di qualsiasi valutazione, è fondamentale conoscere le strategie adatte. Per affrontare un colloquio “formale” in azienda, occorre essere interiormente interessati, non è strettamente indispensabile possedere delle basi di tipo socio-psicologico, ma una profonda disponibilità ad accettare “l’altro” e un discreto investimento di tempo e di spazio da dedicare ad un mo-mento particolarmente delicato.

Costruitevi una griglia per la raccolta dei dati e delle informazioni che volete ottenere/offrire; la griglia può costituire il file rouge del suo sviluppo, sia che si tratti di una valutazione delle prestazioni o del potenziale, oppure un momento di riflessione per commentare un errore, oppure quando si deve assegnare una delega.

In relazione allo scopo ed al tipo di collaboratore è sempre possibile ipotizzare e programmare l’effettiva durata del colloquio; occorre porre attenzione all’ambiente dove si svolge, in quanto la distanza interpersonale che si instaurerà tra voi e il vostro interlocutore può far assumere una dinamicità che fornisce informazioni sulle intenzioni di iniziare, mantenere o concludere una relazione: maggiore distanza tra le persone è tipico di chi vuole mettere una barriera nel rapporto, mentre l’avvicinamento è segnale d’apertura.

Anche l’orientamento, ovvero l’angolo con cui le persone si collocano nello spazio in cui interagiscono, costituisce elemento di comunicazione degli atteggiamenti interpersonali, indicando quale scambio comunicazionale si sta realizzando. Le principali orientazioni che si stabiliscono tra due persone nel corso di una relazione interpersonale sono quelle “faccia faccia” e “una di fianco all’altra”. La prima orientazione è tipica dei rapporti di complementarietà, come nei rapporti gerarchici dove il superiore si pone di fronte al dipendente-inferiore, l’ufficiale di fronte al sottoposto. Una persona che occupa una posizione più alta (perché su una pedana, una tribuna, sopra un palco) o che sta in piedi (rispetto ad una persona seduta) assume una posizione dominante. Altrettanto segnale di potere è dato dalla scrivania: da una parte il responsabile, di fronte il collaboratore. La seconda orientazione, a fianco, regola le relazioni simmetriche, come tra amici, compagni di squadra, colleghi ecc.

Nel colloquio capo-collaboratore è consigliata la posizione “A” dove il ruolo del responsabile (lato scrivania) viene mantenuto, mentre la posizione di fianco del collaboratore agevola un avvicinamento mantenendo la formalità della situazione.

La programmazione del colloquio deve prevedere assolutamente che il collaboratore sia preventivamente informato e che gli sia stato spiegato lo scopo e garantita l’assoluta riservatezza di quanto sarà discusso, escludendo qualsiasi strumentalizzazione o utilizzo per finalità diverse da quelle dichiarate.

In questo modo si agevolerà la persona a parlare di sé, del proprio lavoro, dei problemi o aspettative, dei propri punti di vista ed a garantire il positivo sviluppo di una comunicazione che può essere anche iniziata con timore, imbarazzo o su base emotiva. Si tratta, in sintesi, di porre le basi per una fiducia che garantisca una reciproca collaborazione.

Prima di mettervi in una dinamica di colloquio accertatevi di avere:

  • la giusta disponibilità interiore che garantisca una vera motivazione ad intraprendere quel tipo di relazione interpersonale;
  • ben chiare le finalità, la disposizione per percepire senza distorsioni le risposte che vi verranno fornite, le sfumature, gli accenni, il tono della voce, il ritmo, le espressioni;
  • capacità di valutare con obiettività ed accuratezza mantenendo costantemente concentrata l’attenzione su ciò che interessa;
  • la consapevolezza che il collaboratore che vi sta di fronte è prima di tutto una persona alla quale devono essere riconosciuti i suoi diritti;
  • una buona apertura ad operare un giudizio con una visione sgombera da punti di vista estremistici o rigidi nei confronti delle persone e delle situazioni, ma fortemente ancorata all’autocontrollo in modo da non essere influenzati e orientati dai propri sentimenti personali;
  • la disponibilità a mettersi nei panni dell’altro (empatia) in modo da comprendere le origini del comportamento; saper riconoscere se il collaboratore è la persona che sta intervistando o se è la situazione del colloquio che lo fa percepire in una determinata maniera;
  • la volontà di saper utilizzare adeguatamente il tempo programmato per dare spazio sia alle do-mande che alle risposte.

Una fase importante e cruciale del percorso del colloquio, è quella conclusiva, ovvero la redazione di un rapporto di quanto è successo. Abbiamo detto che è necessario, ancora prima di iniziare il rapporto con il collaboratore, avere stilato una griglia ad hoc per la raccolta delle informazioni. È pericoloso dedicarsi alla stesura dei dati e delle informazioni ottenute solo a colloquio chiuso. Si corre il rischio di perdere, benché guidati dagli item della griglia, informazioni importanti, elementi salienti, e di basarsi su un ricordo che può creare dannose distorsioni.

Conviene quindi, durante il colloquio, registrare gli elementi salienti che via via emergono. Per ovviare alla possibilità che l’interlocutore si innervosisca o si preoccupi di quanto state facendo, avvisatelo e chiarite quali punti state registrando (non gli scopi) «ciò che mi ha detto è molto interessante, ne prendo nota per evitare di dimenticarmene» oppure «non le dispiace se prendo un appunto su ciò che mi ha appena detto?».

Queste modalità mostrano un atteggiamento aperto e franco, il vostro collaboratore vi percepirà come persona corretta e nel contempo si rafforzerà la fiducia che i punti essenziali del suo discorso sono stati compresi e interpretati correttamente. Ciò faciliterà la prosecuzione dell’interazione, vi agevolerà nella fatica di dover contemporaneamente prestare attenzione a quanto detto mentre scrivete, ed inoltre vi garantisce della validità di quanto state scrivendo, in quanto condiviso dall’interlocutore.

La gestione del biasimo

Il biasimo, o il rimprovero, costituiscono un giudizio negativo, un commento di disapprovazione per un evento, un atteggiamento o un comportamento posto in essere da una persona. La situazione nella quale avviene la comunicazione di una critica, di un biasimo o di un rimprovero è ricca di coinvolgimenti emotivi (nostri e dell’interlocutore) che possono creare distorsioni nella percezione, mancanza di chiarezza nel trasmettere e sentire idee e pensieri, cosi che la comunicazione può essere contaminata da errori di cui non ci si rende conto.

Se ciò avviene, allora il rapporto non è più tra capo e collaboratore, ma tra avversari che si combattono.

Le persone in genere sono abbastanza disposte a correggersi, ma il loro orientamento è condizionato dalle modalità in cui si manifesta l’approccio. Per prima cosa realizzate una corretta valutazione degli eventi e assicuratevi che le motivazioni non si basino su un fatto emotivo, indirizzato verso la persona, ma verso il suo comportamento. L’incomprensione costituisce un filtro potente: se ho un’immagine, consciamente o inconsciamente, distorta dell’altra persona, sarò orientato sicuramente ad interpretare ogni sua azione e comportamento, e tutti i suoi messaggi in maniera scorretta, attribuendogli cattive intenzioni.

Sovente alla base di questo approccio si pone l’enfatizzazione del comportamento di chi ci ha deluso che proietta su di lui, come in un esteso affetto alone, immagini ricche di suggestioni negative. Oppure uno scorretto pregiudizio nei confronti di una certa persona ci orienta ad avere un atteggiamento volutamente avverso qualsiasi cosa faccia o non faccia. Può avvenire che da un singolo comportamento o da un evento isolato si tenda a generalizzare e vedere solo due aspetti estremi della situazione: «ha sbagliato e lo ha fatto apposta», «non ha capito, è il solito incompetente», «è in ritardo perché è un fannullone», «è a casa malato, ma in realtà è un assenteista», ecc.

Spesso questo atteggiamento ci porta a mettere delle etichette alle persone che lavorano (o stanno) con noi, o a credere a quelle messe dagli altri, operando in questo modo un processo alle intenzioni per il quale è già stata emessa una condanna.

Prima di procedere verso un’ipotesi di contestazione per un errore occorre valutare quanto sia verosimile la valutazione di ciò che è avvenuto.

Chiediamoci:

«Che prove ci sono a favore della mia interpretazione?»

«Che prove ci sono contro alla mia interpretazione?»

«C’è una spiegazione alternativa per il suo modo di agire?»

Prima di iniziare il colloquio è bene instaurare una situazione di distensione ponendo in evidenza gli aspetti positivi fino a quel momento mostrati dal nostro collaboratore, per preparare il terreno a fare emergere le sue positive potenzialità e possibilità di recupero verso i comportamenti o i risultati attesi. Questo atteggiamento di partenza non deve apparire come orientato alla ricerca del consenso, ma mostrare che non sussistono pregiudizi di nessun genere.

Nell’iniziare il colloquio è importante introdurre da subito l’argomento in questione e chiarire di cosa si sta discutendo per consentire al collaboratore di avere ben chiaro ciò che sta per accadere e consentirgli di sgombrare la mente da tutti i presupposti che vi si erano formati al momento in cui è avvenuta la convocazione e tramutare un “cosa sarà successo?” in un evento concreto fugando eventuali preoccupazioni.

Quando si è certi che l’evento presentato, attraverso fatti circostanziati e specifici è stato riconosciuto e che si è instaurata una relazione di reciproca accettazione, occorre continuare chiedendo al collaboratore suggerimenti ed indicazioni di come cambiare lo stato della situazione, in modo da creare una positiva e costruttiva responsabilizzazione.

La gestione del biasimo richiede un percorso che deve seguire alcuni step fondamentali:

  • Distinguere il collaboratore dall’errore per valutare l’errore e non il collaboratore;
  • Identificare gli errori attraverso l’osservazione dei comportamenti agiti;
  • Iniziare il colloquio offrendo un riconoscimento:
  • Adottare un approccio di problem solving per stimolare il collaboratore alla diagnosi del problema e alla ricerca della soluzione;
  • Coinvolgere il collaboratore e contestualizzare l’evento;
  • Esplicitare l’obiettivo di recupero e chiedere la collaborazione;
  • Recepire il punto di vista del collaboratore prima di esprimere il proprio;
  • Affrontare subito eventuali conflitti di opinione;
  • Individuare le azioni necessarie per evitarne il ripetersi dell’errore;
  • Evitare un approccio punitivo e colpevolizzante che genererebbe una paralisi del collaboratore, sia sul piano emotivo che sul piano operativo e stabilire insieme un piano di recupero;
  • Passare gradualmente al messaggio di miglioramento, evidenziando le lacune da colmare;
  • Predisporre e concordare un piano di azioni.

La gestione delle critiche

Criticare, o biasimare, non deve essere finalizzato come un mezzo punitivo e coercitivo per ottenere risultati diversi da quelli realizzati dai collaboratori, ma deve fondare per il manager un momento costruttivo e formativo allo scopo di rimuovere le cause che hanno determinato i comportamenti non attesi e mantenere positivo il rapporto di collaborazione e lealtà.

Saper gestire costruttivamente il momento della critica è funzionale al miglioramento del lavoro dei collaboratori e allo sviluppo dell’organizzazione ed è fondamentale per mantenere attive le motivazioni e costituisce uno dei compiti irrinunciabile di ogni responsabile.

La critica distruttiva, infatti, colpisce l’autostima della risorsa che lavora attivando un senso di irritazione e ribellione, e l’effetto negativo viene aggravato dal fatto che si esaurisce su se stessa senza proporre alcuna soluzione per risolvere e rimuovere l’errore.

La funzione della critica è quella di lanciare dei feedback costruttivi e non demolitivi. Per questo la comunicazione deve essere sviluppata senza enfasi né tensione emotiva, ma connotata da poche parole centrate su fatti concreti e riferiti su un fatto avvenuto, su un comportamento agito o in un’ottica di prevenzione.

Il feedback, soprattutto se negativo deve essere rilasciato soltanto se si ha la certezza che un determinato comportamento ha prodotto un certo risultato. Mai dare giudizi sulla base di informazioni parziali o di supposizioni.

FEEDBACK CORRETTO

FEEDBACK SCORRETTO

Riconoscere, valorizzare, rispettare, apprezzare, stimare, ammettere, accettare, ecc. Denigrare, disprezzare, demolire, svalutare, deridere, schernire ecc
Guardare ai miglioramenti. Cercare il confronto, addossare colpe.
Fornire valore aggiunto per il miglioramento delle capacità, competenze, abilità ecc. Esprimere critiche distruttive delle capacità, competenze, abilità, ecc
Rafforzare l’autostima delle aree deboli per produrre il miglioramento Aggredire e minacciare l’autostima delle persone
Chiarire i comportamenti che non contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi prefissati e proporre delle strategie o soluzioni alternative Attendere che sia l’altro ad individuare i motivi della critica e non offre nessun apporto né pedagogico né formativo
Premiare i comportamenti che contribuiscono agli obiettivi prefissati e stimolare a ripeterli ed a migliorarli Sottovalutare i comportamenti che contribuiscono al mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati e consentire che si ripetano

EFFETTO

EFFETTO

Miglioramento consapevolezza, apprendimento Chiusura, abbandono, perdita, ignoranza

Sia la critica che la lode diventano strumento di “potere” se mirano alla persona al posto di ciò che è avvenuto. Nel fare una critica per un comportamento sbagliato è probabile che ci si possa trovare a fronte di tre atteggiamenti:

  1. non dire nulla sperando che il collaboratore ammetta spontaneamente di avere sbagliato;
  2. aver fatto notare indirettamente l’errore commesso evitando di irritare il collaboratore;
  3. andare in collera e aggredire il collaboratore.

In questa prospettiva il rischio che si corre è che il cambiamento nel comportamento non si verifichi.

La critica non deve mai essere generica perché perderebbe di efficacia, ma realizzata cercando di attenersi il più possibile a dati di fatto oggettivi, evitando il campo minato delle opinioni e attraverso l’evidenziazione dei punti deboli rilevati. Deve essere espressa subito dopo aver rilevato l’evento e solo in un contesto riservato, senza che siano presenti altre persone, non devono essere comunicata con un tono di rimprovero né terminare con una pacca sulle spalle.

L’assenza della critica non deve essere intesa come un segnale di approvazione e di soddisfazione. Le risorse che lavorano desiderano, a ragione, sapere come sono giudicate e non venire a conoscenza di eventuali carenze o mancanze professionali solo quando queste vengono commesse e sono quindi causa di deplorazione.

Critica e lode sono degli importanti strumenti per sviluppare le singole persone e mantenere attivo e produttivo il team. Un feedback leale è sempre anche un segno che il proprio lavoro viene considerato.

Il colloquio di ritorno delle valutazioni

La risorsa umana, all’interno dell’organizzazione, ha il diritto di essere valutata e discriminata con imparzialità, equità e giustizia che cancellino l’appiattimento per garantire un criterio meritocratico, cosi che ciascuno possa avere secondo quanto vale. È il diritto di essere apprezzati per i propri meriti e per il proprio valore e di avere tutte le possibilità di crescita. La valutazione, inoltre, non deve diventare un mezzo per generare una critica punitiva e sanzionatoria, né uno strumento per produrre elogi gratificanti, ma deve evolversi come un dispositivo che consenta ad ogni lavoratore di raggiungere la consapevolezza del suo reale valore in relazione a ciò che gli è richiesto di fare per il bene dell’impresa. In particolare la valutazione delle prestazioni si rivolge al passato attraverso l’analisi dei contributi forniti, in termini di operatività e comportamenti, per gli obiettivi specifici dell’organizzazione e fornisce quindi un giudizio di valore, negativo o positivo, riferito al momento in cui viene steso e la cui validità deve essere presa in considerazione (al massimo per un biennio) e deve indicare tutti i percorsi formativi necessari a riallineare la prestazione secondo gli indici attesi.

Il giudizio di potenziale è rivolto verso il futuro, analizza le caratteristiche personali rispetto all’evoluzione dell’organizzazione, presuppone una mobilità verticale od orizzontale immediata o può costituire un bacino di pronto uso in occasione di ampliamenti, sostituzione di risorse strategiche o cosiddette pregiate.

Occorre premettere che una “persona che lavora”, non è generalmente in grado di svolgere autonomamente un apprezzamento su sé stessa e conseguentemente non è in grado di progredire, benché sia in grado di svilupparsi grazie alle proprie capacità, alle motivazioni e all’impegno personale. È indispensabile l’intervento del responsabile diretto, che deve avere interiorizzato, come parte integrante del proprio lavoro, anche lo sviluppo dei propri collaboratori, che guarda al loro potenziale come la miglior possibilità di utilizzazione e un investimento al lungo termine che può realizzarsi anche in posizioni al di fuori della sua unità.

Il momento di ritorno della valutazione attraverso un colloquio con la risorsa interessata ha come caratteristica di fondo quella della formalità e un’opportunità irrinunciabile di sviluppo motivazionale e professionale che risponde alle domande che ogni persona pone a se stessa: «Lavoro bene? – Si sono accorti di me? – Qualcuno mi dirà come sono giudicato?»

L’importanza del colloquio di valutazione relativa all’impatto sulla risorsa deve essere condotto con cura e seguire una puntuale checklist:

  • concordare con adeguato anticipo con il collaboratore spiegando di cosa si tratta, senza lasciare tuttavia trascorrere molto tempo per evitare un possibile instaurarsi di momenti d’ansia
  • individuare un luogo riservato e che garantisca l’assoluta riservatezza per tutto il tempo necessario senza che possano avvenire interferenze o interruzioni
  • deve concernere solo su fatti acquisiti e documentati, su comportamenti agiti e non presunti
  • finalizzare a mostrare punti di forza e fornire piani formativi per migliorare i punti di debolezza

Il management deve garantire che vengano riconosciute le caratteristiche individuali e venga effettuata la differenziazione dei singoli contributi, ponendo ad ogni singola risorsa richieste corrispondenti a quello che per ruolo, competenze e qualifiche deve fare, attribuendo di conseguenza non solo un corrispettivo economico, inquadramento, ma soprattutto visibilità del proprio ruolo all’interno dell’organizzazione allo scopo di agevolare l’espressione del saper fare in tutte le sue potenzialità, tecnico-professionali, trasversali e sociali, promuovendo lo sviluppo dell’aggiornamento, della condivisione e circolazione delle conoscenze. La valutazione diventa, in estrema sintesi, uno strumento a sostegno dei processi di sviluppo individuale e organizzativo.

Il colloquio di assegnazione della delega

Il management è costituito dalla catena di responsabilità sviluppata attraverso la via gerarchica che deve garantire il fare in proprio, ovvero agire autonomamente, il far fare ai propri collaboratori e il fare accadere attraverso il ricorso a risorse esterne alla struttura.

Un’organizzazione consapevole, che detiene l’autorità, trasmette parte della stessa ad un’altra posizione subordinata attraverso la delega, precisando limiti e responsabilità nell’esecuzione dei compiti assegnati. Ciò determina un legame tra posizione delegante e delegata, la quale, se ciò è previsto nella cultura e nel progetto organizzativo dell’azienda, a sua volta può delegare ad altre posizioni subordinate parte dei suoi compiti. Viene così a determinarsi una serie di rapporti verticali tra la prima posizione delegante e le successive delegate e deleganti, denominata “catena del comando”.

La delega è un potente strumento organizzativo, non un comportamento casuale o episodico. Soprattutto è la scelta di uno stile di direzione, quello della leadership di chi non teme di perdere il controllo del coordinamento delle attività di cui è responsabile, ma che confida d’aver scelto i collaboratori giusti cui affidare il compito di moltiplicare se stesso e le sue capacità. Viene definita come il decentramento temporale di una responsabilità senza modificare il ruolo del collaboratore in quanto è limitata nei contenuti e nel tempo. Il processo di delega è un’attività insita nel lavoro di ogni responsabile, o, più in generale, del management e consiste nell’assegnare al delegato l’adozione di provvedimenti importanti ed irreversibili su operatività, risorse ed evoluzione all’interno dell’organizzazione aziendale.

La delega quando attuata correttamente, rende maggiormente flessibile, operativa e produttiva la stessa organizzazione. In questa prospettiva delegare significa affidare compiti e relative responsabilità ad altre persone, conferendo le risorse di cui hanno bisogno per eseguirli, chiedendo che rispondano dei risultati attesi e conseguiti. Chi delega i compiti, responsabilizza i propri collaboratori. Quando si è responsabilizzati in generale aumenta l’impegno e l’accuratezza con cui si svolge un compito o una mansione e inoltre si produce maggiore autostima e la percezione della fiducia e consapevolezza di sé.

Una delega efficace deve rispondere a particolare condizioni quali

  • verifica del possesso della disponibilità e preparazione professionale della risorsa necessarie allo scopo di conferma della scelta effettuata;
  • definizione del compito da delegare, prevedere possibili difficoltà e rischi fornire eventuali linee guida;
  • illustrazione di ciò che deve essere fatto, dove, quando e la sua finalità per comporre il processo operativo;
  • indicazione degli step di controllo dell’avanzamento lavori per facilitare rinforzare la responsabilità del delegato sugli aspetti critici del compito affidato;
  • tollerare un eventuale margine di errore all’inizio dell’operatività delegata nella prospettiva che è possibile che ciò avvenga senza pregiudicare l’autostima del delegato;
  • concordare eventuali necessità di riallineamento con linee guida in ottica formativa considerando un eventuale errore come necessità di addestramento;
  • trasmettere all’interessato il messaggio implicito che si ha fiducia in lui;
  • incoraggiare ad iniziare quanto delegato e offrire disponibilità per ogni necessita work in progress

I maggiori ostacoli alla delega

  • i collaboratori hanno troppo da fare
  • i collaboratori non sono capaci
  • i collaboratori non vogliono
  • non ho nessuno a cui possa delegare
  • il mio ruolo non me lo consente
  • sono l’unico in grado di fare questo lavoro
  • è un lavoro che mi piace fare
  • non ho tempo per spiegare
  • meglio che lo faccia da solo
  • tenere nascoste le informazioni
  • lasciare indeterminati i limiti di tempo
  • delegare solo parte del compito
  • delegare senza gli strumenti e le risorse necessarie
  • utilizzare sistemi di controllo a posteriori
  • abbandonare i collaboratori dopo aver assegnato la delega
  • assicurarsi il successo e cercare capri espiatori se non si raggiunge l’obiettivo

Il colloquio di delega significa, dunque, trasferire della responsabilità da parte del delegante, il responsabile, al delegato, il collaboratore. In questo senso è bene che si svolga nell’ufficio del diretto responsabile per connotare il “contesto”, ovvero dove risiede l’origine della responsabilità che deve essere conferita e accettata.

La necessita di trasferire delle indicazioni operative richiede l’utilizzo di una comunicazione particolarmente dedicata.

È necessario preparare una lista delle informazioni da fornire ovvero solo quelle che si ritengono utili ed evitare un eccesso che potrebbe creare confusione. La lista deve essere organizzata secondo una sequenza logica che faciliti la comprensione del percorso nel suo svilupparsi e procedere solo dopo che ci si è accertati che ogni passaggio sia stato esauriente e compreso.

Non basta, dunque, scegliere e organizzare le informazioni, bisogna anche legarle bene tra di loro. I messaggi articolati con un eccesso di vocaboli possono essere motivo di difficile ricezione o peggio di distrazione. Una buona regola è quella di far corrispondere ogni indicazione ad una informazione, evitando ripetizioni tramite informazioni analoghe e aggiuntive che richiedono un inutile sforzo cognitivo.

Ogni indicazione non è semplicemente una serie di frasi isolate messe una dopo l’altra, ma una serie di frasi coerenti tra di loro e ben legate le une alle altre con assoluta linearità e nel rispetto della sua successione prevista dalla lista (nel senso che ogni elemento deve sostenere il precedente ed essere di transito/appoggio per il seguente), deve essere chiara e completa (non devono mancare informazioni o parte di esse), deve essere utilizzato un lessico concreto sviluppato con vocaboli propri delle attività in questione che aiutano il collaboratore a visualizzare nella propria mente il concetto rappresentato, non deve mancare la trasparenza e la evidenza dell’obiettivo. Inoltre si deve verificare con un attento feedback l’esatta comprensione di quanto detto e verificare la presenza di una effettiva volontà collaborativa.

 

A cura di: Antonello Goi

Profilo Autore

Laureato presso l’Università Statale di Milano in Filosofia, ho acquisito un’esperienza nell’ambito delle Risorse Umane.
In particolare ho assunto la responsabilità, in azienda Leader delle telecomunicazioni, della Selezione del personale, della Formazione, Gestione HR, Relazioni Industriali.
Collaboro per gambelassociati per quanto riguarda la Formazione Manageriale Aziendale e Interaziendale, attraverso attività di consulenza, progettazione ed erogazione di corsi di formazione.

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