La cooperazione, quale strumento di regolazione pattizia interna ed internazionale della conflittualità economica tra gruppi sociali
Scopo del presente lavoro è ipotizzare una possibile soluzione no-conflict per la ordinaria gestione delle attività nazionali, tese alla normale espansione economica / energetica di uno Stato.
Lo strumento scelto consiste nel tentare di accostare argomenti che – troppo spesso e per vari possibili motivi – sono stati trattati separatamente; intendo: analisi economica del diritto, analisi di qualità normativa, intelligence economica, attività finanziaria con l’estero.
Più in particolare, attraverso strumenti convenzionali (internazionali) ([1]) e volontari (statali o consuetudinarii), non solo si attua una sorta di ‘controllo qualità’ dell’azione legislativa, ma anche un “contrasto alla inefficacia” dell’azione amministrativa – per quanto specificamente entrambe collegate ad evasione fiscale e ad elusione economica, od anche al depauperamento di assets materiali e immateriali – ma si pone in essere una strategia economica tesa (pure grazie ad una attenta azione preventiva e successiva di ‘intelligence economica) ([2]) a migliorare “in modo paritario” le relazioni tra Culture ([3]), diretta ovviamente a facilitare l’espansione di esportazione di prodotti e servizi nazionali.
Ma c’è di più. Se questa finalizzazione del comportamento di ogni ‘tribù’ umana poteva esser compresa fino a ieri, oggi –ove non si pongano freni- potrebbe sfociare in situazioni catastrofiche nelle quali non ci sarebbero vincitori.
Il rischio infatti è che fenomeni – quale il Terrorismo politico e quello ambientale o, peggio, il Banditismo economico o quello criminale – divengano non solo incontrollabili ma diffusi.
E ove si pensi che ciò sarà tanto più probabile, quanto più sarà attuato il disfacimento dell’Etica sociale, cioè dei principi base su cui si fondano i gruppi sociali a cui si appartiene e che –soli- determinano la ‘liceità introiettata’ dei comportamenti personali, le prospettive non appaiono rosee. La ‘cooperazione internazionale’ pertanto assume un valore non solo giuridico ma etico, o addirittura morale: cercare di contribuire al passaggio di VALORE EFFICIENTE tra la nostra era e le altre a venire.
Perché “Analisi Economica del Diritto” e “Analisi Giuridica dell’Economia”
Mi propongo di fare una breve presentazione delle varie, complesse e molteplici problematiche che afferiscono al “come fare le scelte” e, quindi, ineriscono a ciò che viene definito come “strategia politica”.
Facciamo degli esempi classici: a) la Borsa di Francoforte utilizza sistemi previsionali costruiti sulle leggi della fisica dei fluidi per definire la congruità dei flussi finanziari; b) il Ministero delle Telecomunicazioni britannico utilizza la teoria matematica dei giochi, per definire a chi affidare le licenze di banda; c) la Commissione UE utilizza modelli econometrici per stabilire la convenienza dell’utilizzo o meno di Stati con “tenue” fiscalità; d) ancora la Commissione UE utilizza l’analisi econometrica per stabilire il valore dell’impatto economico-sociale di accordi ed intese e in generale la rispondenza alla normativa antitrust; e) le Autorità federali USA utilizzano le scienze neurobiologiche per calcolare l’impatto del crimine sull’economia.
Altri esempi più vicini: 1) scegliere se defiscalizzare o meno un prodotto o un servizio; 2) tassare o meno i BOT o i redditi da risparmio; 3) gestire direttamente un’azienda, un ospedale, o un carcere; 4) mantenere un esercito di mestiere o di leva obbligatoria; 5) espropriare un terreno oppure obbligare ad un utilizzo specifico; 6) spiegare come la selezione di un prodotto da parte del mercato non privilegi necessariamente quello migliore (es. nel campo delle videocassette, il metodo Betamax è di qualità migliore del VHS, ma il mercato ha scelto il VHS); …. fino a 7) decidere la linea da seguire nelle competenti sedi per cercare di influenzare legislazioni comunitarie non di nocumento per settori produttivi nazionali.
Come si vede, da tempo, coloro che sono chiamati a “gestire la cosa pubblica” debbono effettuare scelte; se e quanto oculate, è stato spesso una questione verificata solo ex post (e troppo sovente senza alcuna responsabilizzazione per casi non colposi). Certo il “Decisore” aveva a disposizione, oltre il fiuto ed il buon senso, vari manuali (da Sun Tzu a Macchiavelli, da Vegezio a Von Clausewitz, per citarne alcuni e tra i più datati). Ma la faccenda era questione da risolvere “sul campo”. La stessa “strategia” – nella sua accezione più larga – non è stata mai particolarmente popolare. Ciò che, però, non dovrebbe mai accadere è lasciare la ‘cabina di regia’, ovvero la scelta della strategia, di tattiche e di gestione degli imprevisti, oltre che la finalizzazione dell’operatività, a fatti imponderati o ad azioni casuali, tantomeno subornate a decisioni di poteri estra- o contra –statuali, anche ‘interni’ al sistema ([4]).
Ciò che desidero affermare, quindi, non consiste in una questione di “dottrina generale” del diritto (anche se – come dimostra il dibattito di EAL in corso sulle clausole generali quali l’errore – essa ne è direttamente interessata). Desidero invece trattare la problematica, non solo da un punto di vista della mera “rilevanza economica” della decisione, ma dell’applicazione di metodologie finora impensate e che danno luogo a nuove branche della scienza. Mi riferisco, in particolare, a quelle nuove discipline complesse, cui è stato dato nome di ECONOFISICA ed di NEUROECONOMIA ([5]).
A tal proposito, credo non sia fuor di luogo ricordare come il Diritto Romano, nella sua opera di razionalizzazione ed organizzazione della Società civile, aveva posto nei criteri di Cittadinanza sociale e Proprietà privata i punti cruciali dello sviluppo dell’economia, oltre che ovviamente dei rapporti tra privati e istituzioni.
Esso, tuttavia, non sembra oggi essere più in grado di preordinare la priorità etica delle scelte umane, momento specifico a cui sono preordinate le principali regolazioni ordinamentali.
Già nell’epoca medievale e fino alla Rivoluzione Francese, peraltro, i detti criteri furono variamente criticati di pari passo con le modifiche di pensiero e le evoluzioni scientifiche (tra cui le grandi scoperte tecniche e di nuovi mercati ed i nuovi criteri di Ricchezza e di Tecnologia).
E’ però alla fine del ‘700, con la crisi dei rapporti mercantili, che il criterio di Cittadinanza – strettamente legato com’era ai concetti di Proprietà e di Contratto – viene posto seriamente in discussione.
Non è un caso, quindi, che nel ‘900 – con l’ampliarsi dei sistemi di comunicazione (ivi compresi quelli di scambio commerciale) – tutti i citati criteri vengono ridefiniti e rielaborati.
Non è un caso neppure che oggi acquistino importanza delle “sottocategorie” della Proprietà, come i diritti su beni immateriali (che ci introducono nel mondo della disciplina dei rapporti virtuali). Ed è proprio questo, assieme al diritto della concorrenza, che più di altri hanno ospitato le prime elaborazioni di EAL.
Non è neppure un caso poi che, parallelamente nel campo dell’azione istituzionale, perda importanza la “tassazione reale” dei beni e prenda invece piede un sistema di “imposizione personale”, avente di mira l’aumento della ricchezza posseduta oppure spesa od anche le movimentazioni virtuali della ricchezza stessa. E’ naturale, quindi, che si cerchino di applicare criteri di public choise alla gestione della Fiscalità, di pari passo con l’introduzione di criteri della teoria economica del Benessere (sociale) ([6]).
A tale proposito, tuttavia, non posso non richiamare un problema: sovente si è assistito all’utilizzo di istituti tributari in base a criteri non del tutto connessi a quella oggettività che è propria alla Scienza delle Finanze, ma piuttosto a finalità politiche peraltro momentanee.
Gli Obiettivi dell’EAL – il mito del ‘valore efficiente’
Lo scopo dell’Analisi Economica del Diritto o ‘E.A.L.’ in riferimento alla materia contrattuale sostanzialmente è: perseguire il raggiungimento dell’efficienza, attraverso le norme che governano i contratti. Tuttavia non si deve pensare al concetto di “efficienza” come ad un paradigma astratto ed a priori, bensì bisogna rapportarsi alla suddetta nozione come ad una categoria che deve essere definita dallo stesso interprete. E’ infatti quasi impossibile sciogliere simultaneamente le varie problematiche che si affrontano nell’ottimizzare l’output generato da un negozio contrattuale.
In verità, come sancito nel celebre Teorema di Coase – vera pietra angolare dell’EAL – solo in un mondo privo di costi negoziali a prescindere da chi detiene il diritto, si raggiungerà un assetto efficiente.
Essendo quindi, purtroppo, il nostro un mondo tutt’altro che perfetto, il problema essenziale per l’interprete è di capire fino a che punto sarà opportuno rendere vincolante fra le parti un contratto che – in definitiva e per macronumeri – comporta un costo per l’intera economia (cioè: la Società civile, sia il suo ambito visto a livello regionale, nazionale, o internazionale)?
Ovvero, al contrario, quando sarà consigliabile sciogliere il vincolo, liberando i contraenti dalle proprie rispettive obbligazioni (ad es. per: eccessiva onerosità sopravvenuta, errore, avverarsi di una condizione risolutiva, ecc. ecc.) ?
Ulteriori problemi riguardano poi metodo di coercizione e tutela del vincolo contrattuale: allorché si sia giunti alla conclusione che, nella circostanza presa in esame, sarebbe inefficiente permettere lo scioglimento del contratto, come punire il contraente inadempiente? con un’azione in forma specifica ? con i danni da aspettativa ? o con quelli da affidamento ? o addirittura con i cosiddetti punitive damages ?
Come si può percepire da questo sommario esame, le prospettive cui l’EAL ci porta sono estese: innanzitutto il sistema giuridico di mercato, imprese e consumatori; poi, anche quello economico-finanziario di stati e popoli, quindi di “aree e zone” ([7]).
Non è certo un caso, credo, che proprio in questo contesto culturale siano state riprese “vecchie” (ricordo il QUESNAY ([8]) e “rare” (cito la recente “equazione della concorrenza internazionale” del BOYD [9]) teorie in tema di misurazione dell’efficienza, che nascevano dai “fallimenti” del Mercato e di varie teorie economiche.
In tale senso, gli effetti esterni ed i connessi danni ambientali sono considerati fattori misurabili, conseguenza del comportamento di Attori che, nel perseguire il proprio interesse, determinano una situazione di non-efficienza nell’ambito del Mercato ([10]).
Quanto detto è evidentemente applicabile alla scelta della giusta strategia per l’agire di uno Stato, di un’Impresa o di un Cittadino.
Per tali soggetti l’attività di “creazione di valore” deve esser innanzitutto misurata in termini di INTERRELAZIONE, cioè di interscambio, con l’ambiente circostante; conseguentemente, se adottato a rango di “metodo del Sistema”, esso determina un complessivo aumento del VALORE dell’intero contesto di pertinenza economica.
In tal senso, è assolutamente corretto – mi pare – dire che il Consumatore deve esser considerato come un “portatore di interessi” nei confronti delle Imprese, cioè è un loro vero e proprio stakeholder, al pari dei “soci di diritto” ([11]).
Trattando di Analisi Economica e magari partendo dalle sofisticate formulazioni della Teoria dei Giochi, ci si è – tra l’altro – chiesti qual sia il segreto del successo della Mediation rispetto ai procedimenti in sede giudiziale (per ora quasi esclusivamente ‘civile’). La risposta, considerando quale “progressione geometrica” la evoluzione di un conflitto inter partes nella fase conciliativa, è che la seconda attività e non la prima crea VALORE nel rapporto sociale. Quindi ne deriva che l’interscambio umano porta di per sé ad un aumento di ricchezza!
Risulta evidente, mi sembra, che in termini macro e specificamente pubblicistici la ‘creazione di Valore efficiente’ sia prerogativa di ogni Sistema-paese, o meglio di qualsivoglia ‘sistema di dominio’ ([12]). Ne consegue che la scelta della COOPERAZIONE quale strumento adeguato per la creazione di valore efficiente, sia proprio anche dei rapporti internazionale.
Tecnica normativa e politica tributaria, nel contesto economico internazionale
Il mio scopo, come anticipato, è cercare di mettere in evidenza come il principio cardine dell’analisi economica – cioè: ottimizzare risorse, rispetto ad un risultato desiderato – possa e debba trovare attuazione anche nella azione amministrativa, sia essa la gestione del contenzioso pubblico oppure la gestione dei rapporti internazionali. E tale approccio metodologico dovrebbe costituire una valida chiave di lettura di problematiche pratiche, consentendo un concreto tentativo per una loro soluzione in linea con le esigenze degli stake holders dello Stato, cioè: Cittadini, Imprese, Istituzioni.
Problematiche non solo giuridiche, quindi, ma anche economiche e sociali; che, peraltro, si pongono in un contesto non ristretto in confini territoriali predefiniti.
A fronte di concetti economici – quali quelli di Pareto sulla scarsezza delle risorse, con conseguente ricerca dell’efficienza attraverso il mercato, o di Arrow sull’impossibilità delle scelte, con conseguenze sull’efficacia delle azioni – ritengo legittimo porsi il problema se sia astrattamente possibile tendere ad una ‘attività amministrativa scevra da costi sociali, via via considerabili inefficaci o ingiusti.
In sostanza, ritengo si possa e si debba rispondere positivamente alla domanda che già anni addietro si pose l’Istituto AGEIE, se sia possibile – nel campo pubblico, come nel privato – predefinire Regole efficaci o riscrivere Norme inefficienti, misurando come / quando / perchè l’attività dello Stato provochi conseguenze nel Mercato (e, quindi, su sé stesso!) ([13]).
All’altra domanda posta sul tavolo della discussione – cioè: quando e come esse siano censurabili, da parte di Autorità internazionali, nel caso si riconosca che le azioni dello Stato siano influenti o confluenti nell’economia globale, oltre che in quella comunitaria – ritengo tuttora sia da rispondere con un richiamo alla teoria delle micro crisi e delle aree, a cui mi permetto di rinviare ([14]); a tale proposito, debbo sottolineare come da tale pur complessa costruzione non si possa prescindere ove si ritengo utile costruire rapporti inter-statali ‘equi’, quindi ‘stabili’. Cosa che, in sé, non è molto differente con quanto avviene nel mondo industriale privato, attraverso una ponderazione degli interessi importati nei contratti tra soggetti operatori.
In verità, come sancito nel celebre teorema di Coase, solo in un mondo privo di costi negoziali, a prescindere da chi detiene il Diritto, si raggiungerà un assetto efficiente. Essendo però il nostro un mondo tutt’altro che perfetto, il problema essenziale per l’interprete pubblico è di capire fino a che punto è opportuno porre in essere comportamenti fra “Parti” che – in concreto – comportano un costo per l’intera economia. Ma Stato e Cittadini / Imprese sono “Parti” del “contratto civile”?
Oggi, abbiamo forse un’arma in più che, magari perché “oggettiva” o forse solo perché “nuova”, potrebbe condurre l’azione pubblica verso nuovi traguardi: oltre l’economicità e verso la produttività. Questa “arma” è fornita da nuove scienze, frutto di innesti e modifiche di approccio delle “vecchie”, intendo riferirmi alla econofisica, alla bioeconomia, alla neuroeconomia (fino a ieri c’erano solo l’ingegneria dei sistemi e la statistica economica)
Da questo punto di vista, le “certezze” statistiche assumono “valore” per l’analisi giuridica ed il tema della “certezza” del diritto assume “rilevanza” per la teoria economica, non solo per quanto riguarda l’efficienza dell’azione pubblica e la concorrenza internazionale, ma anche il tema fondamentale dell’equità e dell’etica.
Recenti innovazioni legislative sembrano andare verso un ‘contesto economico internazionale’; Innanzitutto, desidero richiamare due termini che rappresentano altrettante situazioni: “comunicazione” e “tecnologia” e tre modi di essere della realtà socio economica: “globalizzazione” dei mercati; “connessione” tra le reti infrastrutturali; “standardizzazione” di beni, prodotti e servizi, ma anche di norme ed istituzioni.
Esse spiegano la attuale situazione internazionale e conducono – attraverso passaggi alcuni dei quali analizzeremo – ad auspicare l’introduzione di una forma generalizzata di Analisi di Fattibilità delle norme, quale necessaria premessa e base per la costruzione di un “sistema nazionale”.
Quindi, da una parte, si può sottolineare come l’avvenuto ampiamento – in quantità e qualità – della sfera di Comunicazione (che corrisponde, non solo ad un meccanismo necessario per trasmettere informazioni, ma anche e soprattutto di “fornire dati”) comporta parimenti un aumento sia di notizie che di comportamenti; quindi, anche di scopi che si vogliono perseguire. Ciò, peraltro, vale non solo per la Comunicazione istituzionale o pubblica, ma anche per quella privata (ed è diversa dalla Pubblicità). In sostanza, oggi la Comunicazione si fonda sull’esigenza – largamente intesa e richiesta – di “trasparenza nei rapporti”.
Dall’altra parte, da qualche anno a questa parte si riscontra un aumento – sia in termini quantitativi che qualitativi – delle risorse tecnologiche, che rappresentano la vera fonte di ricchezza per persone, Paesi, Aree ([15]) ([16]).
E la tecnologia oggi permette, anche a motivo del suo basso costo e della sua progressiva “umanizzazione”, sempre più un utilizzo indiscriminato anche delle (sempre meno disponibili) risorse materiali: in entrambi i casi, essa non necessita – spesso e soprattutto per i suoi applicativi – di specifiche conoscenze tecniche; peraltro chiunque, anche singole persone fisiche e Paesi molto poveri, può avervi accesso.
Nello specifico, è aumentata la comunicabilità della tecnologia, ma anche la tecnologia della comunicazione.
Ciò ha concorso tra l’altro a determinare un aumento enorme degli scambi commerciali, a livello internazionale; ma ha anche, d’altra parte, contribuito ad annullare gli effetti distorsivi di barriere tecniche ed anche atecniche agli stessi scambi. E con tale effetto, di fatto si è andati ben oltre gli scopi di “armonizzazione” che gli sforzi formali e normativi si proponevano a livello (soprattutto) comunitario ed (anche) internazionale ([17]).
La <Sovranita’> di gruppi sociali, persone, patrimoni
La realtà fenomenica ci mostra, da anni, che ‘ponderazione accademica’ e ‘operatività del mercato’ non vanno a braccietto. Tanto meno lo fanno con la operatività sistemica.
Essa però afferma qualcosa che ha fatto spesso trasalire taluni accademici: la aumentata qualità, quantità e quindi importanza della comunicazione – unitamente a fenomeni trasversali quali la globalizzazione – ha prodotto situazioni spesso curiose.
Ad esempio ci riferiamo a quelle nelle quali persone giuridiche (fondi sovrani, trusts, società multinazionali) o addirittura fisiche (patrimoni personali qualitativamente estesi) detengono entità così elevate -in quantità e/o qualità- di ricchezza di altri soggetti e in svariate nazioni, che possono incidere sulle economie di vari stati anche di grandezza elevata. ([18])
A) Paesi definibili come Paradisi fiscali
E’ il caso dei Paesi qualificabili quali ‘paradisi fiscali’, cioè quelli che predispongono normative che consentono vantaggi diretti o indiretti collegati a vari possibili momenti con i quali venga saldato il soggetto al reddito. Esempi sono quei Paesi che concedono ai residenti e/o agli stranieri di non pagare i tributi personali e/o societari, / sul consumo / sul possesso / sul reddito /. Possibile anche delimitare il vantaggio tributario (ovvero una sorta di detassazione) solo ad alcuni territori dello Stato (è il caso di Campione in Italia o Shannon River in Irlanda o London City in UK) ovvero a taluni redditi (ad esempio, uesto era il caso dell’Italia, al tempo in cui non erano imponibili i BOT; è così per le imposte sui redditi personali in Montecarlo, sulle joint ventures con sede in vari paesi rivieraschi mediterranei).[19]
B) Paesi definibili ‘pirata’, ‘mini’, ‘micro’
Si possono definire gli stati come ‘pirata’ e come ‘micronazione’ nei vari casi in cui vi sia stata una autoprovlamazione, senza che alcuna entità internazionale o nazionale abbia provveduto al riconoscimento e, quindi, alla elevazione della entità a ‘sovrana’.
Si parla più propriamente di “ministato” (per taluni anche di “microstato”) se testi di geografia così definiscono uno Stato sovrano avente una piccola popolazione o una estensione territoriale egualmente ridotta (rispetto alla maggior parte degli stati) – spesso presenta entrambe le caratteristiche[20].
I territori non sovrani, come le Isole del Canale, non sono considerati ministati.
I microstati per taluni non indicherebbero le micronazioni, alle quali darebbero luogo quelle ‘proprietà private’ (diversamente quindi da ‘sovranità’ pubbliche) [21]
La micronazione più famosa è però Sealand (al largo del mare del Nord inglese), in origine un forte marino per difendersi dagli attacchi tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Nel 1967, Paddy Roy Bates la occupò, facendone una stazione radio pirata e sfruttando la posizione in acque internazionali. La “leggenda” di Sealand continuò nel 1978 con il rapimento del figlio di Bates, Michael, che ne è tuttora il governatore.[22] Ma … le micronazioni sembrano quasi Paperopoli e Topolinia, ma esistono davvero. [23]
C) Sovranità virtuali
Questo caso rappresenta un verà novità, non solo in termini temporali, ma concettuali. Esso cioè si è prodotto negli ultimi decenni ed è stato determinato sia dal progressivo applicarsi della globalizzazione alla capacità organizzativa aziendale, sia dalle opportunità di innovazione tecnica (si pensi alla BORSA VIRTUALE ed al ECOM).
In pratica, abbiamo in mente AMAZON, GOOGLE, FACEBOOK … aziende che non solo producono beni e/o servizi, ma detengono i BIG DATA, quindi la profilazione caratteriale e semantica dei clienti. Esempio tipico fu fornito dal ‘RICONOSCIMENTO’ di territori (Nagorno Karabak) quale ‘indipendente de facto’ dal proprio Stato de jure.
Abbiamo anche in mente i cosiddetti FONDI PATRIMONIALI, gestori di coacervi di beni mobiliari e immobiliari in vaste aree e che non sono sufficientemente definiti nella individuazione chiara della soggettività di governance.
Non possiedono –giuridicamente- volto, ovvero sono una specie di Trust, quindi entità fiduciarie, ma esistono economicamente ed influenza intere zone territoriali. Tra i più importanti vi sono quelli di Emirati, Turchia, Norvegia, Arabia, ma ovviamente molti Paesi se ne sono dotati a partite dalle cosiddette Grandi Potenze. Una delle azioni da essi compiuta, senza alzare molti polveroni, ad esempio, consiste nella acquisizione ‘a tappe’ di interi settori produttivi (es. il parmigiano reggiano’); le modalità possibili sono varie, sia di carattere diretto che indiretto.
L’analisi economica, quale metodologia per stabilire la convenienza di regole e norme tributarie (anche) con l’estero
Lo scopo dell’Analisi Economica del Diritto (o in inglese “E.A.L.”) in riferimento alla materia contrattuale sostanzialmente è: perseguire il raggiungimento dell’efficienza, attraverso le norme che governano i contratti. Tuttavia non si deve pensare al concetto di “efficienza” come ad un paradigma astratto ed a priori, bensì bisogna rapportarsi alla suddetta nozione come ad una categoria che deve essere definita dallo stesso interprete. E’ infatti quasi impossibile sciogliere simultaneamente le varie problematiche che si affrontano nell’ottimizzare l’output generato da un negozio contrattuale.
In verità, come sancito nel celebre teorema di Coase – vera pietra angolare dell’EAL – solo in un mondo privo di costi negoziale a prescindere da chi detiene il diritto, si raggiungerà un assetto efficiente.
Essendo quindi, purtroppo, il nostro un mondo tutt’altro che perfetto, il problema essenziale per l’interprete è di capire fino a che punto sarà opportuno rendere vincolante fra le parti un contratto che – in definitiva e per macronumeri – comporta un costo per l’intera economia (cioè: la Società civile, sia il suo ambito visto a livello regionale, nazionale, o internazionale) ?
Ovvero, al contrario, quando sarà consigliabile sciogliere il vincolo, liberando i contraenti dalle proprie rispettive obbligazioni (ad es. per eccessiva onerosità sopravvenuta, per errore, per l’avverarsi di una condizione risolutiva ecc.) ?
Ulteriori problemi riguardano poi metodo di coercizione e tutela del vincolo contrattuale: allorché si sia giunti alla conclusione che, nella circostanza presa in esame, sarebbe inefficiente permettere lo scioglimento del contratto, come punire il contraente inadempiente? con un’azione in forma specifica ? con i danni da aspettativa ? o con quelli da affidamento ? o addirittura con i cosiddetti punitive damages ?
Come si può percepire da quest’innocuo esame, le prospettive cui l’EAL ci porta sono estese: innanzitutto il sistema giuridico di mercato, imprese e consumatori; poi, anche quello economico-finanziario di stati e popoli, quindi di “aree e zone” ([24]).
Non è certo un caso, credo, che proprio in questo contesto culturale siano state riprese teorie “vecchie” (ricordo il QUESNAY ([25]) e “sparute” (cito la recente “equazione della concorrenza internazionale” del BOYD ([26]) in tema di misurazione dell’efficienza, che nascevano dai “fallimenti” del Mercato e di varie teorie economiche.
In tale senso, gli effetti esterni ed i connessi danni ambientali sono considerati fattori misurabili, conseguenza del comportamento di Attori che, nel perseguire il proprio interesse, determinano una situazione di non-efficienza nell’ambito del Mercato ([27]).
Quanto detto è evidentemente applicabile alla scelta della giusta strategia per l’agire di uno Stato, di un’Impresa o di un Cittadino.
Per tali soggetti l’attività di “creazione di valore” deve essere innanzitutto misurata in termini di INTERRELAZIONE, cioè di interscambio, con l’ambiente circostante; conseguentemente, se adottato a rango di “metodo del Sistema”, esso determina un complessivo aumento del VALORE dell’intero contesto di pertinenza economica.
In tal senso, è assolutamente corretto – mi pare – dire che il Consumatore deve esser considerato come un “portatore di interessi” nei confronti delle Imprese, cioè è un loro vero e proprio stakeholder, al pari dei “soci di diritto” ([28]).
Con tali discorsi di Analisi Economica, partendo da sofisticate formulazioni della teoria dei Giochi, ci si è – tra l’altro – chiesti qual sia il segreto del successo della Mediation rispetto ai giudizi, considerata in “progressione geometrica”: è che crea VALORE, cioè ricchezza!
Diritto “internazionale tributario” e quello “tributario internazionale”
Ricordo che, storicamente, l’Ordinamento giuridico di un Paese adotta i seguenti tipi di normazione relativa a fattispecie ritenute rilevanti ai fini tributari ([29]) o come produzione diretta oppure con accettazione di comportamenti stranieri ovvero adesione a regole internazionali o comunitarie. Si è pertanto dato luogo a: (A) norme nazionali (qualificabili come diritto pubblico internazionale a carattere tributario); (B) norme convenzionali (cioè adesione a trattati internazionali su tematiche finanziarie, tributarie, doganali, valutarie, amministrative, a cui faccia poi seguito l’adozione interna delle norme in essi contenute); norme comunitarie (cioè quelle emanate da un ente terzo agli stati ed a cui questi abbiano demandato la potestà normativa indiretta o diretta, dando luogo così a direttive o, nel secondo caso, a regolamenti); norme consuetudinarie (categoria oramai residuale – esempi della quale sono gli usi di borsa e banca, gli usi militari, gli usi marittimi, gli usi diplomatici – che tuttavia hanno spesso fatto posto a vere convenzioni internazionali).
Quale generale esplicazione del fenomeno, vero punto di confluenza di concetti pubblicistici con alcuni privatistici, può essere interessante ricordare come gli Stati cercano di attrarre ad esazione somme, cespiti, redditi per quanto più possibile ed ovunque percepiti / prodotti. Essi ovviamente pongono in essere ciò ‘legittimamente’ solo se l’atto potestativo / autoritativo avvenga sul proprio territorio.
Tanto è vero ciò, che da poco tempo si pongono talune problematiche ancora non risolte: lo Spazio siderale, l’Etere, la Cyber dimension.
I limiti a tale condotta nazionale sono innanzitutto, derivanti dalle regole di efficienza economica e di equità tributaria. Secondariamente, essi sono connessi a motivi di opportunità giuridica e di rapporti interstatali.
All’interno di tali AREE (siano esse nazionali, oppure comunitarie, ovvero internazionali) esistono situazioni specifiche
Tra tutte, ricordo i concetti di ‘base imponibile’ e di ‘stabile organizzazione’. In grandi linee, la prima è il coacervo di ricchezza che è considerato valido ai fini impositivi (quindi, per i nostri fini: redditi prodotti all’estero o percepiti dall’estero da soggetti italiani, ovvero percepiti o prodotti in Italia da soggetti esteri) e si potrebbe dire sinteticamente che è costituito da elementi essenzialmente personali. La ‘stabile organizzazione’ (che per le persone fisiche diventerebbe la ‘sede fissa’) è invece essenzialmente costituita da criteri oggettivi: una struttura minimale atta a creare ricchezza…. Un esempio divenuto ormai tanto classico quanto accademico è rappresentato dalle macchine automatiche di distribuzione di prodotti inviati dall’estero.
I criteri che sono alla base di questi due istituti sono poi connessi alle vicende di carattere tributario delle varie fonti reddituali. Comunque essi sono quelli che più spesso sono considerati dalla varie possibili norme, tese a evitare conflittualità tra Paesi e tra cittadini.
Possibili soluzioni, in campo amministrativo e tributario
Qui si tratta proprio della “gestione” che deve esser effettuata da parte delle pubbliche Autorità.
Poiché, un federalismo non gestito dallo Stato – o dalla U.E., eventualmente – comporterebbe di fatto una secessione, che si consoliderebbe a medio termine, sotto l’influsso attrattivo della zona limitrofa, economicamente (o politicamente) più forte. Per l’Italia, a mio parere, ciò costituirebbe anche un ulteriore fallimento nella propria politica estera (possibile, peraltro, solo quando vi sia chiarezza in quella interna) ed avrebbe effetti simili a quanto già avvenuto per la mancata “gestione” della propria presenza nell’ambito dell’economia comunitaria, cosa che ha prima “di fatto” e poi “in diritto” – aperto le frontiere (fisiche e concettuali) agli operatori esterni, che hanno spesso avuto il sopravvento rispetto a quelli interni, più avvezzi al protezionismo che al liberismo.
A mio modesto avviso, quindi, la funzione nazionale deve essere forte e chiara. Innanzitutto, debbono decisamente prendersi le vie della semplificazione normativa e della trasparenza gestionale, nonché dell’eliminazione di storture burocratiche e dell’adozione di ampie liberalizzazioni regolamentate.
In questo ambito, ad esempio, potrebbe esser considerata utile l’adozione di un regime di federalismo tributario. Ma ciò, credo, a tre condizioni: che sia pensato in connessione con l’ordinamento giuridico comunitario e con le circostanti economie; che non si tratti né di camuffato regionalismo secessionista, né di un mero decentramento burocratico per la spesa pubblica; che si attui una complessiva riforma del sistema fiscale, basato non solo sulle indispensabili semplicità e chiarezza, ma anche su nuovi criteri (ruolo autoritativo del Potere della Amministrazione Finanziaria; potestà finanziaria locale anche sulle entrate, non solo sulle spese; utilizzo della ricchezza, non più del reddito, quale criterio base per arrivare al presupposto d’imposta) ([30])
In sostanza, può costituire scelta strategicamente valida quella di incentivare la creazione di un federalismo giuridico, anche più ampio quindi di quello meramente fiscale, ma non per aumentare il divario economico tra territori nazionali, bensì per gestirli meglio. Questo, tuttavia, sembra possibile solo nel quadro di un contesto più largo, quale quello – oggi – della U.E., in cui – tuttavia – venga riscoperto valore e ruolo di una integrazione politica oltre che economica, al di là delle rigidità tecniche imposte dal Trattato di Maastricht.
Cooperazione, quale “strategia”
Il punto centrale del presente studio concerne l’idea di considerare la “cooperazione internazionale” come una modalità di azione per la tutela e/o affermazione di un ‘sistema-paese’.
Se si tralasciano forme di azione cinetica di contrasto ad attori statali e non, ma anche forme estreme di concorrenza diretta o indiretta, ciò che rimane sono per lo più forme di “convenzione” (agevolativa e/o reciproca) e di “aiuto” (unilaterale), sia per il mercato estero che di “investimento” per quello interno.
In tal senso, si può evidenziare come gli investimenti finanziari di vario livello – nazionali, comunitari ed internazionali -rappresentino “situazioni di raccordo” tra i diversi interventi strutturali compiuti all’ estero e soprattutto verso Paesi che necessitino di assistenza e nei cosiddetti P.V.S. ([31]). Essi peraltro dovrebbero venire coordinati tra loro; come in particolare dimostra l’esempio dei rapporti con i Paesi che venivano definiti P.E.C.O. ([32]).
Ritengo pertanto che ogni tipo di azione diretta o indiretta, tesa a modificare stabilmente il sistema-paese dovrebbe quindi essere decisamente interdetta e –considerato che la situazione economica, di sicurezza sociale, di salute della popolazione sono fenomeni strettamente collegati – degna di ricevere risoluzioni da parte del Consiglio di Sicurezza O.N.U.
In questo quadro, conseguentemente, l’idea ([33]) è quella che la stessa nuova dimensione – globale, multinazionale, interconnessa, standardizzata – in cui deve competere l’operatore (privato e pubblico) nazionale conduce alla necessità di una gestione della propria presenza sul campo concorrenziale, attraverso una attenta strategia culturale e normativa, oltre che industriale ([34]).
In caso contrario lo scenario che si può presentare può esser quello che, reso con un immagine tratta dalla Fisica, è quello dei “vasi comunicanti”: i liquidi interconnessi si ripartiscono nei vari vasi a seconda del loro peso specifico; in altre parole, l’operatore – sia esso privato o pubblico, peggio ancora Stato o ente locale – qualora non riesca a costruire e comunicare una immagine di stabilità e ricchezza, risulta un perdente.
In un mondo che cambia, operare in un contesto senza più frontiere fisiche (né giuridiche!) comporta essere concorrenziali. Compito dello Stato e delle Istituzioni sovranazionali è, conseguentemente, quello di porre delle regole affinché detta concorrenza sia sì effettiva, ma anche priva di iniquità.
E, credo, anche per questi motivi che si può prevedere (pur se, forse, potrebbe non apparire completamente auspicabile) l’innalzamento di nuove frontiere, questa volta economiche.
Cioè, non una rinnovata creazione di barriere tecniche o atecniche agli scambi, ma la creazione – internazionalmente concertata – di aree (o sub-aree) omogenee, ove si sviluppino equilibrati sistemi economici, nelle quali vitali siano l’influenza e l’intervento di forti poteri regolatori.
In tal modo, all’equilibrio dei “blocchi contrapposti” ed a quello dei “poteri transnazionali”, in un contesto internazionale e globale attuale che appare come una perversa applicazione della legge fisica dei vasi comunicanti, si potrebbe contrapporre – positivamente – quello dei “micropoteri”. E questo, ritengo, consentirebbe a delle forti e regolamentate autonomie locali di estrinsecare al meglio le proprie potenzialità, nel rispetto degli interessi propri e dell’Area cui appartengano.
Mi permetto quindi di dire che la nostra diplomazia, bilaterale e multilaterale, la nostra cooperazione internazionale, la nostra azione pubblica doganale e finanziaria, non possono che avere questo orizzonte: la convivenza pacifica, l’interscambio economico equamente vantaggioso, tra popoli accomunati da una medesima, anche se diversamente declinata, fede nella libertà.
Scelta “tattica” tra forme agevolative di investimenti al / dall’ estero
Spesso si avverte, parlando con Operatori pubblici o privati, di grandi o di piccole dimensioni, la estrema esigenza – in Italia – di capire fino in fondo che cosa voglia dire essere in uno spazio commerciale e magari economico e forse anche finanziario comune; di intendere cosa significhi poter liberamente commerciare in un mercato grande venti volta il nostro Paese, senza pressoché alcun vincolo agli scambi.
Il reale problema, però – purtroppo – credo risieda in una concreta mancanza di sufficiente cultura internazionalistica oltre che in una insufficiente strategia economico politica nazionale ([35]).
E’ questo il motivo che può spingere taluni piccoli imprenditori a non investire, preferendo non spendere pochi milioni nella effettuazione di un “consorzio export“, cioè in una mini struttura capace di decuplicare le loro possibilità commerciali.
E’ sempre lo stesso motivo che fa tralasciare i corsi facoltativi di diritto comunitario o diritto internazionale o altri esami c.d. complementari, agli universitari impazienti di terminare il proprio corso di laurea.
Ma è sempre lo stesso motivo – purtroppo – che induce il Legislatore italiano ad emanare norme, in sé molto buone, che però spesso non tengono sufficientemente conto delle concrete esigenze operative e delle effettive modalità e motivazioni degli investimenti all’ estero. Come vedremo, infatti, in questo sia pur breve approccio, mi sembra che la maggiore preoccupazione del nostro Legislatore sia stata quella di finanziare l’apporto di capitale all’ impresa italiana investitrice, abbassandone il costo: ma è proprio corretto tale approccio, che assume solo una delle possibili motivazioni aziendali ad esportare? ([36])
In questa condizione, certo non incentivata a cambiare da parte delle varie succedutesi politiche industriali e fiscali del nostro Paese, risulta ovvio e conseguente che l’imprenditoria italiana, non solo non possieda una cultura internazionale – cioè “di conquista” – del mercato estero, ma anche risulti sostanzialmente un terreno di conquista per le strategie di espansione industriale straniere. E’ oramai chiaro, infatti, che il Sistema Italia non può creare una sua dimensione sana e corretta di competitività, se non dislocherà parte della produzione all’estero: abbiamo esportato prima le braccia lavoro, poi cultura, ora dobbiamo esportare tecnologia. E ciò, a mio parere, soprattutto adesso che siamo al di dentro di un fenomeno di economia integrata, del tutto privi di protezionismi nazionali ([37]).
Strategie industriali nell’era della competizione globale
Se – prima dell’avvento di sistemi algoritmici – fosse stato possibile elaborare (in modo sistematico e con delle “chiavi di volta” interpretative) la mole del materiale che un giurista-economista d’impresa o di ente, avrebbero dovuto tenere presente nel proprio contesto politico, istituzionale, normativo, giuridico ed economico ed a livello internazionale, ciò avrebbe avvantaggiato i vari decisori politici.
Prima di tale avvento che viene ausiliato dalle elaborazioni fisico-matematiche di modellizzazione e previsione, la rara risposta scaturì dall’utilizzo del testo come una sorta di banca-dati, fornendo cioè delle parole-chiave attraverso le quali registrare, illustrare, analizzare, scorporare e ricompattare quello stesso materiale, suddiviso in alcuni (dei possibili) “macro-concetti” rappresentanti altrettanti “fattori variabili” nei quali si può scomporre l’ analisi geo-politica e geo-economica. Rappresentano, inoltre, una possibile metodologia per supportare una analisi dell’impatto socio-economico “della” e “sulla” impresa.
Alla luce della presente metodologia di analisi, penso si possano trarre alcune considerazioni:
- le variabili di un ragionamento per la elaborazione di strategie sono riconducibili a pochi fattori. Alcuni di questi più stabili nel tempo. Sarà, evidentemente, frutto della capacità di analisi e di sintesi personali dell’Operatore di Strategia, la percentuale di sua attendibilità.
- la possibilità di ricostruire momenti storici, situazioni politico-istituzionali e vicende giuridiche, così portando alla luce collegamenti dinamici tra eventi apparentemente sconnessi tra loro.
- Accanto al ‘valore efficiente’ di ogni gruppo sociale, dovrebbe essere misurato il suo ‘livello di tecnologia’: il primo indice, finalizzato ad una sorta di rating sociale a carattere internazionale; il secondo, per misurare l’impatto reciproco tra parti della cooperazione
- ritenere le crisi economiche come “fluttuazioni costanti” delle ere industriali e “corrispondenti” a certi eventi storici.
Ciò porta a vedere gli attuali “micro-conflitti locali” come inscritti in un movimento ellittico di una più vasta dimensione costruita, da una parte, da una “aggregazione sociale“, vista come un insieme di punti materiali, quale quello c.d. “fattore Società“, quello istituzionale, delle norme e degli usi o fattore Governo, il fattore Economia e da vari fattori e sotto-fattori che variamente si intersecano, quale quello il fattore Spazio, quello dello sviluppo tecnologico (sub-fattore Tecnologia) o del fenomeno globalizzazione (sub-fattore Globalizzazione).
Dall’ altra parte, da ascisse e coordinate, disegnate in base al criterio di “equilibrio mobile“, rispondente a quello ambientale, climatico e comportamentale (fattore Ambiente), ad un “fattore tempo” ed a un “fattore spazio“.
Cenni conclusivi
Parlare non sempre aiuta, soprattutto quando i sistemi politici, democratici per definizione e “simmetrici” per cultura, ricorrono solo a metodi “ordinari” o “di pensiero lineare” per combattere guerre sempre più “asimmetriche” ma che comunque impattano sui sistemi produttivi e sociali, determinando costi enormi.
Ciascuna di tali affermazioni porta così ad individuare due argomenti connessi al discorso sin qui fatto – cioè l’attività di Intelligence e la politica della Sicurezza Nazionale – che ovviamente qui non possiamo che citare, ma che sono co-essenziali agli argomenti trattati.
Porta peraltro anche ad ipotizzare che un ricorso a metodologie ‘non conflittuali’ nei vari settori dell’azione pubblica sia altamente efficace ed efficiente, proprio in base alla applicazione di metodologie matematiche di previsione e di audit; ad iniziare proprio da scelte di scienza delle finanze, specificamente di diritto tributario. E’ di tutta evidenza, infatti, come la ‘leva fiscale’ sia preponderante tra quelle di politica socio-economica.
Nella società di oggi, definita “dell’era post-moderna”, fenomeni come la continua innovazione tecnologica, la complessità dei rischi di origine antropica e i nuovi scenari di crisi e tensione internazionali, imporrebbero una crescente attenzione alla strutturazione di sempre più efficienti ed efficaci sistemi di risposta alle situazioni di crisi ed emergenza, di cui una ‘attività di interna ed internazionale’ sia pur no-conflict deve curare la nascita ed il perdurare, …. nonostante qualsiasi azioni contraria esterna al sistema stesso!
Assolutamente di rilievo in tale ambito è l’aspetto organizzativo e l’eccellenza professionale, imprescindibile – credo – da scelte operative innovative e magari diverse da quelle già sperimentate per situazioni fin troppo difformi. Per esempio, alcuni Paesi già da anni utilizzano la “cooperazione allo sviluppo” per monetizzare la propria disponibilità verso altri Stati, eventualmente concretizzando forme di colonialismo economico.
Per esempio le varie modalità di “cooperazione civil-militare”, ‘pubblico-privato’’ o ‘accademia-fabbrica’, scelte non solo per motivi economici di contesto, potrebbero usufruire di settori che reciprocamente si apportano impulsi positivi ai rispettivi processi decisionali e soprattutto li apportano ai centri di coordinamento strategico.
Per esempio le varie situazioni sociali che applicano il principio della “istituzione diffusa” – dove imperano la paritarietà e la orizzontalità – ben potrebbero sostituire intere parti della attuale organizzazione statale.
Già la costante caduta dei consumi lascia presagire il ritorno ad un’economia del baratto e se non fosse per la presenza di internet forse già saremmo in situazioni da “medioevo” culturale, in cui l’isolazionismo imperava e le angoscie dei singoli erano spesso preda di micro-poteri.
Nella società odierna, che viene definita “società del rischio“, oggi emergono infatti anche delicate implicazioni psicosociali che tali scenari determinano sia su piani individuali che collettivi, venendo inevitabilmente alimentate e amplificate – spesso pure distorte – dai mezzi della comunicazione.
Da ultimo, come non ricordare che in un contesto mondiale -in rapida e continua evoluzione, anche lo strumento delle missioni internazionali diplomatiche e militari va ripensato ([38]). Esso, peraltro, dovrebbe essere coordinato o almeno concertato con la presenza economica delle grandi impree, che sono espressione dello stesso stato e della sua ricchezza tecnologica ed intellettuale.
Cioè, se è lecito ed opportuno domandarsi quali siano gli interessi nazionali italiani in gioco nelle missioni e che ruolo l’Italia intende svolgere a livello internazionale, definendo meglio il livello di partecipazione –civile e/o militare, pubblica / privata – compatibile con il contesto e con la difficile situazione economico-finanziaria. L‟Italia ha svolto, soprattutto nell’ultimo ventennio, un ruolo importante nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La consapevolezza di ciò impone una riflessione su quali siano oggi le nuove priorità e quale sia il livello di impegno sostenibile nel tempo. Un disimpegno italiano dalle missioni internazionali non colpirebbe solo lo status del paese, ma danneggerebbe in modo significativo e difficilmente rimediabile, anche i suoi interessi di sicurezza, strategici ed economici ([39]). Un lusso che l’Italia generalmente si ritiene che non possa permettersi.
Note
[1] Come più in generale richiamato da alcuni AA. – vedesi ad esempio UNNIA, M., Un’onu fondata su aree di collaborazione economica, in: Italia Oggi, 25.03.03, p. 3 – questo fenomeno ci riporta alla idea di ‘rapporti tra aree’, di cui parlerò più in dettaglio nel proseguo.
[2] L’argomento ‘warfare’ non è tra quelli direttamente approfonditi in questo piccolo studio. Ma da tale concetto non si può prescindere. I motivi possono essere vari. Il primo è che non esistono argomenti nel mondo civile, chenon siano importanti – per un verso un altro – per quello militare. Basta pensare alle attività e ai meccanismi ‘dual use’, concetto tipico nel linguaggio del mondo petrolchimico. L’altro è che ciò che viene tradizionalmente visto in termini militari, cioè la guerra, in realtà non è più tale!
Infatti, si parla più propriamente di conflitto, pur se con vari aggettivi, e in ciò si viene de facto a sovrapporre a tutte quelle fattispecie più proprie della vita civile ordinaria. Ma … come chiamare le azioni di uno o più stati, compiute per danneggiarne un altro o un insieme di altri? Guerra’ ? Guerra non guerreggiata? Azioni cinetiche poste in essere da attori non statali? Conflitto? Guerra indiretta? Etc. .. Queste azioni potbbero essere prese con precipua finalità economica ovvero finanziaria, ma anche relazionale e contrattuale, oppure commerciale e doganale, od ancora brevettuale e come si vede, in nessuno dei citati casi si parla di ‘guerra’, ma morti e feriti ci sono eccome e ci sono perdite finanziarie e/o economiche che a loro volta conducono a vittorie o sconfitte.
[3] Non tratterò di un argomento pur intimamente connesso e che pure mi sta a cuore da tanto tempo, per il quale ho visto prodigarsi sforzi ed energie e sul quale avrei voluto scrivere: il cosiddetto ‘proiettarsi all’estero’ del sistema nazionale. Non ne tratterò per la semplice ragione che, per aversi una tale azione, necessita la presenza di una intelligenza strategica che abbracci –con visione prospettica e complessiva – le varie funzioni statuali, tanto militari che civili, tanto pubbliche che private.
Comunque, sul tema, si possono leggere alcune ottime pubblicazioni, ad es.: il documento elaborato in occasione del convegno IAI-ISPI su “Il ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali” (Roma, 25 settembre 2012), che così si auto presenta: “In un contesto mondiale in rapida e continua evoluzione, anche lo strumento delle missioni internazionali va ripensato. È lecito ed opportuno domandarsi quali siano gli interessi nazionali italiani in gioco nelle missioni e che ruolo l’Italia intende svolgere a livello internazionale, definendo meglio il livello di partecipazione militare compatibile con la difficile situazione economico-finanziaria e il necessario adeguamento dello strumento militare. L’Italia ha svolto, soprattutto nell’ultimo ventennio, un ruolo importante nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La consapevolezza di ciò impone una riflessione su quali siano oggi le nuove priorità e quale sia il livello di impegno sostenibile nel tempo. Un disimpegno italiano dalle missioni internazionali non colpirebbe solo lo status del paese, ma danneggerebbe in modo significativo, e difficilmente rimediabile, anche i suoi interessi di sicurezza, strategici ed economici. Un lusso che l’Italia non può e non deve permettersi”.
[4] Spesso, troppo spesso, i ‘decisori’ non sono avvezzi al pensiero strategico né alla ‘vitalità’ di volontà estranee al sistema. E’ il caso, ad esempio, di alcune metodologie di conflitto, particolarmente subdole e che debbono essere attuate con dovizia di conoscenze, di particolari, di esecutori,
E la fine della guerra fredda, in definitiva, segna l’inizio della guerra economica e della guerra normativa”. A tal proposito, Katharina Pistor, nel suo libro “Il Codice del Capitale”, spiega molto bene che non esiste la mano invisibile del mercato ma le dinamiche economiche vengono determinate dalle leggi elaborate dagli uffici legali delle multinazionali che condizionano l’economia degli Stati. A questo stato di cose, è difficile porvi rimedio sia perché le norme penetrano all’interno degli Stati non perché vincolanti, ma perché seguite da tutti, sia perché possono coinvolgere anche altri Stati. Pertanto, non serve più influenzare i singoli parlamenti, basta operare dove si formano le leggi per indirizzarle a produrre un determinato esito. Non è un caso se le banche dati e le più importanti riviste giuridiche sono in mano a multinazionali straniere”.
Si può quindi affermare che guerra economica è soprattutto guerra normativa, devastante, nascosta e molto pericolosa. Per difendersi è necessario creare al più presto strutture di intelligence giuridica e costruire un nuovo modello educativo che non sia più iper-specializzato, non essendo strutturalmente in grado di far comprendere la realtà complessa dovuta all’avvento di internet ed alla globalizzazione.
[5] PIATTELLI PALMERINI, M., Incontro con l’inventore di una disciplina che abbina alberelli astratti, immagini in tempo reale dei centri cerebrali e teorie che sposano il guadagno con la fiducia – McCabe, la neuro-economia non è solo un gioco, in: Corriere d. Sera, 13.04.2003, p. 35
[6] La teoria economica del Benessere, sviluppata già nel ‘700 e poi esaltata nell’800 dal PIGOU, si basava essenzialmente sull’idea che la produzione di ricchezza ‘privata’ è parte di quella ‘sociale’ e, in quanto tale, deve essere redistribuita per abbassarne i relativi ‘costi sociali’. Mentre però gli autori settecenteschi – quale CARLI I. (cit.) – giusitificavano questa idea, richiamando il concetto di ‘contratto sociale’, ‘rapporto uomi / natura madre’, .. il PIGOU lo ancorò al concetto di inquinamento.
L’imposta pigouviana è un metodo di governo delle emissioni inquinanti ideato dall’economista inglese e costituisce un (in: https://it.wikipedia.org/wiki/Imposta_pigouviana) tipo di imposta applicabile in presenza di apprezzabili esternalità (o costi sociali). E’ così che il costo pagato dai soggetti che producono inquinamento per unità inquinante sarebbe esattamente uguale al danno marginale aggregato causato dall’inquinamento valutato al livello di inquinamento ottimale. Il gettito di questa imposta dovrebbe essere attribuito in somma fissa o alla popolazione nel suo complesso o al soggetto vittima dell’esternalità. Questo tipo di tributo ha la sola funzione di distorcere l’attività del soggetto inquinante indirizzata alla sola massimizzazione della propria utilità marginale. Il valore della “imposta pigouviana” sarebbe dovuta essere pari al prezzo del danno marginale prodotto dall’esternalità.
Una delle argomentazioni più importanti che portano a preferire le tasse ai sussidi riguarda l’effetto distorsivo che gli strumenti portano al sistema economico: (A) una tassa pigouviana imposta nel settore che deve essere regolato produce una distorsione dei comportamenti in quel settore volti a migliorare il benessere sociale, gli introiti di questa tassa diminuiscono allo stesso tempo la necessità di prelievo fiscale in altri settori, diminuendo così l’effetto distorsivo del prelievo fiscale dello stato.(B) un sussidio in un dato settore, come abbiamo visto, cambia la situazione in quel dato settore tanto bene come una tassa, ma necessita, per essere finanziato, di tasse imposte in altri settori che hanno per loro natura un effetto distorsivo (magari indesiderato).
Il PIGOU definisce il ‘Benessere generale’ come la somma delle possibili utilità dei vari individui, provocate dalle diverse occasioni di godimento. A tal fne egli ipotizza delle ‘cardinalità’ e delle ‘comparabilità’. Infine egli reputa che il ‘reddito nazionale’ possa costituire un valido indicatore di tale ‘benessere’ generale o ‘economico’.
[7] Mi permetto di rinviare al mio CARLI, C. C., denominazioni di origine e indicazioni di provenienza, voce della enciclopedia Giridica Treccani, in cui ho cercato di anticipare alcuni aspetti della mia teoria delle microcrisi e delle aree/zone economiche.
[8] GILIBERT, G., Quesnay – la costruzione della “macchina della prosperità”, Milano, 1997, il quale da medico chirurgo che era, finì per scrivere – tra il 1754 ed il 1757 – degli articoli di materia di “psicologia economica” nella Enciclopédie di DIDEROT e D’ALAMBERT .
Tutto ciò ci riporta al “legal realism” si sviluppa eminentemente in area americana già a partire dalla fine del 1800 ed ha quale riferimento imprescindibile Roscoe Pound che distingueva tra “law in action” e “law in books”: la prima, il diritto in azione o diritto come fatto, contrapposto a quello astratto delle trattazioni, come diremo infra
[9] V.: “L’algebra nel commercio internazionale”, in: Espansione, febbraio, 1987, pg. 129; ed ancora: https://mizar.unive.it/licalzi/EconomistiMatematica.pdf
[10] Così nacque il Teoria del Valore di R.H. COASE ( poi implementata dalla Teoria della Negoziazione di K. BINMORE e J. FARREL, che a sua volta modificava la Teoria delle Crisi del PIGOU, che diceva sostanzialmente: i risultati dell’efficienza [metodo con cui si devono gestire le crisi] portano ad un aumento del valore [per la Società] ), che a sua volta aveva basi nelle teorie settecentesche di illuminati giureconomisti.
[11] Egli, infatti, è un “segnale” di efficacia ed efficienza dell’Impresa; addirittura, a volte, Egli co-progetta, fornisce garanzie, finanzia l’Impresa. Per essa i Consumatori, in sostanza, sono degli elementi di profitto, non già “di costo”. E’ proprio per tali motivi che la Conciliazione o Mediazione – in quanto scelta per limitare, diminuire, o annullare la conflittualità sociale, costituisce di fatto un momento strategico, sia nella vita di Imprese, sia di un Paese, ma soprattutto di un Sistema (nazionale o sovranazionale che sia).
[12] Di recente, un forte e chiaro esempio è fornito dall’azione della Cina, vero player nell’arte nel gioco di rimanere in equilibrio negli scenarE GIULI conomici mondiali. In http://www.omeganews.info/?p=4696 A. De GIULI descrive i piani di consolidamento economico del colosso cinese per mezzo dell’istituzione del Regional Comprehensive Economic Partnership che – combinato con il recente Comprehensive Agreement on Investment e con la nuova via della seta – nelle intenzioni della dirigenza cinese darà vita ad uno strumento che innalzerà e livellerà la ricchezza del proprio popolo. Facile immaginare che sull’unico pianeta di cui disponiamo, qualcuno dovrà pagare il prezzo di questo grandioso processo.
L’A. fa giustamente riferimento ai meccanismi ambiziosi dai quali i cinesi hanno potuto prendere spunto ed imparare, come quelli costruiti per iniziativa occidentale dal 1944 al 1994, con gli accordi di Bretton Woods del luglio ’44 e di Marrakesh dell’aprile ’94.
Gli accordi di Bretton Woods del 1944 (convertibilità del dollaro direttamente in oro, garanzia della stabilità dei cambi, organizzazione dei sistemi di credito, liberalizzazione degli scambi commerciali) hanno permesso e garantito un periodo piuttosto lungo di prosperità economica nel dopoguerra. Gli accordi si inquadravano nell’ambito di una visione fordista-keynesiana dell’economia: lo Stato regola senza stravolgere. Si stabilisce la convertibilità del dollaro direttamente in oro (35 dollari per un’oncia) e quindi un sistema di scambi internazionali basato sul dollaro e non soltanto sull’oro. A Bretton Woods vengono create anche nuove istituzioni monetarie internazionali. Il Fondo Monetario Internazionale ricevette il compito di garantire la stabilità dei cambi. La Banca mondiale organizzò sistemi di credito atti ad aiutare Paesi in difficoltà. Di più recente creazione è la World Trade Organization per la liberalizzazione degli scambi commerciali
[13] La relazione dal titolo “Tecnica normativa e politica tributaria per le autonomie locali, in un contesto economco internazionale …. tra semplificazione, efficacia e federalismo” fu esposta nel convegno del 1996, svoltosi a Genova (organizzato dalla Conferenza delle Regioni), (in: http://www.parlamentiregionali.it/documenti/doctecnichelegislativeCD/volume1/1901.htm#22);
[14] La mia tesi, già espressa nel corso di vari convegni tra i quali “Gli indicatori di efficacia e di efficienza della attività amministrativa” (Roma, 29-30.11.1995, presso CNEL, sponsor COGEST); “federalismo fiscale” (1996, a Roma, presso il Grand Hotel, sponsor l’Ass. Omnia Homini e a Milano, presso il Circolo della Stampa, sponsor Ass. Terzo Millennio), nonché scritta in varie pubblicazioni, tra cui: la voce Denominazioni d’origine e indicazioni di provenienza, della Enciclopedia Giuridica Treccani. Un interessante richiamo ad una medesima realtà viene effettuato da UNNIA, M., Un’onu fondata su aree di collaborazione economica, in: Italia Oggi, 25.03.03, p. 3.
[15] Ho cercato di evidenziare la parola AREA, in quanto rappresentativa di un ‘ambito sociale’ similmente alle ZONE e differente a quella normalmente utilizzate di Stati, Regioni, o genericamente Territori. Il motivo è che, a mio avviso, sia individuabile una TEORIA DELLA CICLICITA’ DI CRISI SISTEMICHE, connesse ad ‘ambiti’ che spesso non sono rappresentati da differenziazioni territoriali ma sociali.
Tale teoria, di cui ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, si rifa a quanto espresso dal mio avo ISIDORO e, più tardi, da FILIPPO. Tutte avevano nella ripetitività ciclica un assunto essenziale. Ciò che io ho aggiunto è la MULTI-DIMENSIONALITA’, quindi la caratteristica di compresenza di cicli e dimensioni, cosa che evidentemente produce una estrema complessità dinamica, rendendone difficile –se non impossibile, almeno per certi versi- la previsione e soprattutto la gestione.
Con tale narrazione di fatti ed atti, a portata anche economica, a mio avvio si darebbe spiegazione ad un fenomeno nuovo. Cioè, all’equilibrio dei “blocchi contrapposti” ed a quello dei “poteri transnazionali”, in un contesto internazionale e globale quale l’attuale (che appare come una perversa applicazione della legge fisica dei vasi comunicanti), si potrebbe contrapporre – positivamente – quello dei “micropoteri”. E questo, ritengo, consentirebbe a delle forti e regolamentate autonomie locali di estrinsecare al meglio le proprie potenzialità, nel rispetto degli interessi propri e dell’Area cui appartengano.
Quando parlavo di EQUILIBRIO DI POTERI, circa venti anni fa, avevo in mente una società complessa e interconnessa. Essa è divenuta anche e sempre più ‘fluida’, tanto fluida da non rendere più possibili molte definizioni e, quindi, le conseguenti previsioni. Siamo oggi in una società senza più cieli.
[16] Ci sono vari metodi per tentare di misurare e ponderare la quantità e qualità della tecnologia in un sistema sociale. Un esempio è dato dalla Scala CARVER. In realtà, la “c.a.r.v.e.r. matrix” fu un algoritmo sviluppato dai reparti speciali di Francia e USA durante la guerra del Vietnam ed era indirizzato alla identificazione, quantificazione, qualificazione di specifici targets che avrebbero poi dovuto più utilmente essere attaccati per produrre maggiori danni “Critical, Accessibility, Recuperability, Vulnerability, Effect and Recognizability”.
Il criterio ispiratore era fornire un significato semplice, uniforme e standard per la selezione di bersagli, oggetto di interdizione e disattivazione … a contrariis, PUO’ fornire ANCHE una scala per costruire un SISTEMA VALORIALE valido a diversi fini, quale misurare del livello tecnologico di un ‘sistema paese’
[17] Non è, infatti, un caso che negli anni ’80/’90 si è potuti pervenire ad una relativamente rapida integrazione giuridico economica dell’area comunitaria dell’Europa. Ma ciò è stato possibile nella persistenza di regole oggi non più attuali, tra le quali la equipollenza dei blocchi di Est ed Ovest, la maggiore materialità della Tecnologia e la fisicità dei confini territoriali e delle barriere economiche.
Oggi, accanto ad un riacutizzarsi delle crisi socio economiche (e quindi politiche) tra Sud e Nord, si assiste ad una nascita di crisi zonali interne a quelli, basata proprio sulla mancanza di equilibrio internazionale. È in questo quadro che, pertanto, si pone la nascita di situazioni quali il c.d. Nord-Est italiano, inscindibilmente connessa – tuttavia – al complessivo quadro comunitario europeo. Ma, più grave, si pone la nascita di multi-crisi di varia natura e genere, non solo anche est-ovet, ma pure ‘sopra-sotto’. Insistono, cioè, situazioni di conflittualità plurima e spesso pluridimensionale.
La U.E. – nei primi anni ’90 – avrebbe potuto proporsi quale “terzo polo”. Invece, probabilmente a causa delle diverse valutazioni sulle risposte comuni da dare alla crisi internazionale, nonché per le diverse visioni in materia di integrazione comunitaria, specie da parte di Francia (la U.E. quale “confederazione”, preservante le condizioni per l’autonomia nazionale) e di Germania (la U.F. quale “federazione”, gestore della completa integrazione giuridico economica, in cui le regole del libero mercato premiano il più forte), oggi – 1996 – si assiste ad un fronte non unitario nella gestione delle crisi politiche ed economiche.
[18] Secondo una definizione largamente accettata, l’impresa multinazionale “… si impegna in investimenti diretti all’estero e possiede e controlla attività che aggiungono valore in più di un paese”. Sono attività che aggiungono valore la lavorazione di una materia prima per ottenere un prodotto finito o semilavorato; svolgere una funzione distributiva (come quella di grossista o di venditore al dettaglio); fornire servizi di assistenza post-vendita, come manutenere o riparare un prodotto finito già consegnato al cliente.
Secondo Moore, K.- Lewis, D., (BIRTH OF THE MULTINATIONALS, 2000 years of ancient business history from Ashur to Augustus, Copenaghen Business School Press, 1999, pp. 341) proprio la ‘impresa multinazionale’ era la specificità operativa e organizzativa che caratterizzava le attività economiche transnazionali espresse da queste civiltà. E gli scavi condotti a Kanesh, nella moderna Turchia, iniziati in modo sistematico nel 1948, hanno infatti permesso di conoscere direttamente le attività dei mercanti assiri operanti lontano dalla loro patria all’inizio del secondo millennio a. C. Dagli studi è emerso che, circa un millennio prima di inziare la sua stupefacente avventura di conquista militare, l’Assiria del Regno Antico sviluppò una estesa rete internazionale di rapporti commerciali, la cui unità di base era il karûm, comunità autonoma di mercanti, operante fuori del regno di Assiria e posta sotto la protezione dei principi locali. Questa rete si estendeva verso nord in Anatolia, fino alle coste meridionali del Mar Nero.
Una attenta rilettura dei documenti e delle testimonianze archeologiche ha consentito agli autori di individuare e ricostruire queste attività tra quelle svolte dai mercanti assiri, opernati agli inizi del II millennio a.C. tra la Mesopotamia e l’Anatolia; dai coloni fenici e greci nei loro rapporti con la madrepatria; dai cartaginesi e dai romani, in competizione tra loro per il dominio del Mediterraneo.
Il karûm è il primo esempio di impresa multinazionale di cui si abbia notizia, con la sua dotazione di uffici centrali, filiali periferiche, gerarchie interne di gestione e controllo, attività creatrici di valore aggiunto, investimenti diretti all’estero e una normativa commerciale extraterritoriale.
I fenici adattarono la figura del tamkaru per il commercio marittimo. Il principe mercante fenicio, chiamato mkrm, operava per conto proprio o del re, e spesso svolgeva entrambe le funzioni.
Roma, secondo gli autori, rappresentava la continuazione del sistema greco. La caratteristica peculiare di Roma fu il militarismo, l’impiego di un esercito efficiente, formato da cittadini, a sostegno di una politica di espansione ai danni dei vicini.
[19] Antigua e Barbuda, Bahrein, Barbados, Dominica, Grenada Isole Marshall Maldive Kiribati Micronesia Nauru Palau, Saint Kitts e Nevis, S.Vincent e Grenadine, S.Lucia, Sao Tomè e Prìncipe, Seychelles, Singapore, Tonga, Tuvalu, Malta, Andorra, San Marino Monaco, C.d.Vatican, Liechtenstein
[21] La soluzione può essere quella di crearci una nostra nazione che possiamo governare con le leggi che vogliamo. Il sito Weirdworm fa un curioso elenco delle 10 micronazioni più strane. Che cosa sono le micronazioni? Piccolissimi stati auto proclamati, naturalmente non riconosciuti, a differenza di stati minuscoli come Monaco, San Marino o Singapore, ma i cui capi ne proclamano la sovranità.
Perché fare una micronazione? Per burla, per creatività, per protesta, come nel caso dello scoglio inglese di Waveland, governato da Greenpeace, o ancora per cercare di evadere il fisco. E’ il caso dell’isola delle Rose, al largo di Rimini: una piattaforma ideata nel 1967 dall’ingegnere Giorgio Rosa con un ristorante, un nightclub e negozi di souvenir. Nel 1968 Rosa proclamò l’indipendenza dall’Italia, che gli costò l’abbattimento della piattaforma. Il governo italiano accusò Rosa di volersi arricchire con il turismo senza pagare le tasse.
Diversa la storia del principato di Seborga (Imperia), che conia una moneta (il Luigino), ha una polizia con abiti pittoereschi e proprie targhe, che possono però essere usate soltanto a Seborga. Più che la storia del principato, può in questi casi il folklore e la promozione turistica.
[22] Micro dittature” e nazioni nello spazio – Non mancano le “micro dittature” come la Repubblica di Molossia, nel Nevada, praticamente la casa del suo presidente Kevin Baugh e due altre sue proprietà in California e Pennsylvania. Baugh gioca ad atteggiarsi da dittatore, facendosi fotografare in alta uniforme. Qualche micro nazione più poetica? Certo: la “nazione dello spazio celeste”, fondata nel 1949 dall’americano James Mangan per impedire che nessuno rivendicasse territori nello spazio al di fuori del pianeta Terra.
[23] In una situazione oggi più complesa, ma sostanzialmente immutata, vale ricordare http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/10/16/scozia-fiandre-e-catalogna-micro-stati-deuropa/383487/ Scozia, Fiandre e Catalogna: micro Stati d’Europa? di Andrea Valdambrini | 16 ottobre 2012 ….”La retorica è sempre stupida, ma è difficile dirlo in un altro modo: ieri è stata una giornata storica per la Scozia, che ha ottenuto il referendum per l’indipendenza. Si terrà a ottobre 2014, voteranno anche i 16enni e la domanda posta ai cittadini sarà semplice: volete lasciare il Regno Unito? Sì o no?
Contemporaneamente, dall’altra parte della Manica, il Belgio si è svegliato con i risultati delle elezioni locali: avanzano decisamente i separatiti fiamminghi del NVA. Il loro leader Bart de Wever ottiene circa il 37% ad Anversa, roccaforte fiamminga. I socialisti (francofoni), oltretutto, non vanno benissimo nelle province vallone. Il giornale di Bruxelles Le Soir titolava stamattina con enfasi: “Il Belgio c’è un po’ di meno”. In altre parole, l’affermazione del partito di De Wever rappresenta un passo verso la frammentazione del già spaccato piccolo Paese federale.
Mettiamoci anche la Catalogna. La ripresa in forma decisa del separatismo da Madrid si gioca in un contesto certamente diverso dai due precedenti, perché diverso è il quadro economico e istituzionale. Eppure segnala una tendenza centrifuga di tre macro-regioni (o autentici stati nazione fondati su culture, lingue ed economie omogenee, come credono i loro sostenitori?).
I tre casi rappresentano certamente un problema per l’Europa, quindi per tutti noi. Sia per quella intesa come continente, con la sua complessa identità storica e culturale, sia più strettamente per le istituzioni dell’Unione a 27. Scozia, Fiandre belghe e Catalogna saranno gli unici casi – nell’Europa occidentale post Muro di Berlino – di fuga dalla forma Stato Nazione nata nei secoli passati? Oppure a catena emergeranno altri separatismi, o richieste più o meno chiare di devoluzione?
Lo scenario di oggi mostra come, in futuro, il processo rischia perfino di complicarsi.
[24] Mi permetto di rinviare al mio CARLI, C. C., denominazioni di origine e indicazioni di provenienza, voce della Enciclopedia Giuridica Treccani, in cui ho cercato di anticipare alcuni aspetti della mia teoria delle microcrisi e delle aree/zone economiche.
[25] in GILIBERT, G., Quesnay – la costruzione della “macchina della prosperità”, Milano, 1997, il quale da medico chirurgo che era, finì per scrivere – tra il 1754 ed il 1757 – degli articoli di materia di “psicologia economica” nella Enciclopédie di DIDEROT e D’ALAMBERT .
[26] V. “L’algebra nel commercio internazionale”, in: Espansione, febbraio, 1987, pg. 129:
[27] Così nacque il Teoria del Valore di R.H. COASE – poi implementata dalla Teoria della Negoziazione di K. BINMORE e J. FARREL, modificando la Teoria delle Crisi del PIGOU – che dice sostanzialmente: i risultati dell’efficienza portano ad un aumento del valore.
E poi (https://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/economia-finanza/Scienza-Delle-Finanze/La-scienza-delle-finanze/La-teoria-delle-decisioni-sociali.html) le modalità con cui si svolgono i processi decisionali in un sistema democratico sono oggetto di alcune discipline della scienza economica e della scienza delle finanze. Tra le prime, c’è la teoria delle scelte pubbliche o public choice, affermatasi negli USA alla fine degli anni Cinquanta, specie grazie ai contributi di J. Buchanan e G. Tullock, si occupa di individuare i meccanismi di formazione delle decisioni pubbliche presupponendo che i soggetti in esse coinvolti abbiano le stesse motivazioni di quelli che operano scelte economiche di mercato. Questa teoria si basa dunque sull’assunto che i partiti politici, la pubblica amministrazione, ma anche i gruppi di pressione o di interesse, come i sindacati dei lavoratori e degli imprenditori, si comportano in modo tale da massimizzare il proprio benessere che può concretizzarsi nel raccogliere più voti possibili o nel massimizzare una qualche funzione obiettivo.
C’è poi la teoria dell’azione collettiva. Campo di studi strettamente contiguo a quella precedente, che studia i diversi assetti istituzionali attraverso i quali si attua il coordinamento delle azioni di più soggetti al fine di migliorare il benessere di tutti. Vengono analizzati in questo ambito i comportamenti perversi nei quali il perseguimento dell’interesse individuale ha come risultato la diminuzione del benessere collettivo, e in particolare il comportamento dei free riders, i soggetti che fruiscono dei beni pubblici senza contribuire ai costi per lo loro produzione.
I singoli membri di una società non hanno alcuna convenienza a contribuire con una quota equa ai costi di produzione di questi beni, in quanto sono pienamente consapevoli che non possono essere esclusi dal loro consumo una volta che questi sono stati prodotti. Ogni soggetto – razionalmente – opta per un comportamento d’attesa, ossia, rivelando imperfettamente le proprie preferenze, aspetta che siano gli altri soggetti a produrre il bene pubblico e questo per fruire dei benefici senza sopportarne i relativi costi. Ne consegue che il bene o non verrà prodotto – e questo perché tutti gli individui interpellati sull’eventuale produzione del bene pubblico in quanto pienamente razionali hanno la convenienza a esprimere le proprie preferenze in modo distorto e quindi a comportarsi tutti da free rider – oppure verrà prodotto in misura insufficiente.
Ed ancora c’è la teoria delle scelte sociali al centro della quale sta la definizione dei criteri e delle regole che consentono l’aggregazione delle preferenze dei singoli individui, allo scopo di giungere a decisioni collettive. È un ramo della teoria economica, le cui radici sono collocabili nella seconda metà del Settecento con i contributi di J.C. Borda (1781) e di M. de Condorcet (1785), ma che è stato notevolmente arricchito e stimolato dai lavori di K. Arrow (1951) e di A. Sen (1970).
La teoria è nata e si è sviluppata come lo studio di quelle procedure attraverso le quali un certo gruppo di individui (una collettività) si trova a dover prendere una decisione a partire da un campo assai diversificato di scelte, sulle quali sussiste una notevole eterogeneità di opinioni.
Si usa definire questo campo d’indagine come decisioni di comitato, ove per comitato si intende appunto un insieme eterogeneo di individui, ciascuno dei quali è caratterizzato da una propria funzione obiettivo: scopo delle diverse tipologie di processi decisionali è quello di sostituire a queste differenti funzioni un’unica funzione delle preferenze, che può rispondere a criteri di democraticità o rispecchiare il prevalere di un’ideologia. La teoria delle scelte sociali investiga dunque le modalità con cui si arriva alla formazione di quegli obiettivi di politica economica che devono essere tradotti concretamente in azioni o beni tangibili da parte del policy maker pubblico (parlamento o governo) in un contesto democratico
[28] Egli, infatti, è un “segnale” di efficacia ed efficienza dell’Impresa; addirittura, a volte, Egli co-progetta, fornisce garanzie, finanzia l’Impresa. Per essa i Consumatori, in sostanza, sono degli elementi di profitto, non già “di costo”. E’ proprio per tali motivi che la Conciliazione – in quanto scelta per limitare, diminuire, o annullare la conflittualità sociale, costituisce di fatto un momento strategico, sia nella vita di Imprese, sia di un Paese, ma soprattutto di un Sistema (nazionale o sovranazionale che sia).
[29] Sono passati molti anni da quando il prof. A. Fantozzi ed il prof. R. Monaco mi incaricarono di scrivere la relativa ‘voce’ per l’Enciclopedia Treccani.
[30] A tale proposito, da un breve esame comparato dei vari sistemi fiscali a carattere “federale”, possono esser fatte alcune considerazioni:
1) innanzitutto non esiste un solo tipo di federalismo, né dal punto di vista giuridico, né da quello specificamente tributario. Nel mondo, veri anche se non identici tipi di federalismo (c.d. “proprio”) possono riscontrarsi solo in Svizzera ed in U.S.A.; per altri versi, Canada, Sud Africa, Brasile e Belgio possono essere chiamati sistemi federalisti (“impropri”).2) Secondariamente, la vera peculiarità – da un punto di vista tecnico – che distingue i sistemi federali dagli altri, è la titolarità di autonomia di entrata riconosciuta alle singole entità locali, oltre all’autonomia di spesa. In caso contrario si avranno solo forme di decentramento e delocalizzazione. 3) Quasi ovunque, il momento della percezione del tributo avviene in unica soluzione; successivamente si ha la ripartizione di gettito ex lege tra Autorità federali e nazionali / locali. 4) Normalmente si tratta di sovra-imposte (più spesso sono tributi diretti) e non di tributi veri e propri di esclusiva pertinenza dell’Ente sottostante.
Due ulteriori caratteri sono tuttavia sempre presenti: 5) la semplificazione quantitativa e qualitativa delle norme utilizzate; 6) la razionalizzazione sistemica, interna (norme nazionali per l’estero) ed esterna (norme convenzionali).
Da un punto di vista strutturale, si può dire più in particolare che:
(A) in Svizzera sono tre i livelli impositivi: federale – tributi su reddito (tra il 3,63% ed il 9,8%) e su patrimonio netto (0,0825%) societari, su reddito delle persone fisiche (max 12%), sull’i.v.a. -, cantonale – tributi complementari sugli stessi presupposti (tra 12 e 35% sul reddito societario e tra 0,3% ed 1,3% sul patrimonio netto) ed inoltre tributi immobiliari, per successione e donazione, per circolazione auto -, municipale – tributi addizionali a quelli cantonali -. Le Autorità cantonali possiedono piena potestà impositiva; in complesso quindi esistono 27 sistemi fiscali: 1 federale e 23 cantoni, dei quali 3 sdoppiati.
Dette Autorità godono anche di piena capacità “contrattuale”, nei confronti di investitori interni od esteri che, intendendo sviluppare nuove attività e conoscere anticipatamente il proprio onere tributario, chiedano la concessione di particolari condizioni. In connessione al variare di esigenze di bilancio, ogni anno possono variare le aliquote d’imposta dei vari livelli.
(B) in Germania, il sistema fiscale non è propriamente di tipo “federale”; esistono due livelli di imposizione – nazionale e territoriale – ma unica è la normativa (nazionale). Il livello nazionale di imposizione si rivolge al reddito societario (30% e 45%), al patrimonio netto delle imprese (0,6%), al reddito delle persone fisiche (tra 24% e 43%); il livello territoriale (i Lander) si rivolge al reddito commerciale (tra 11% e 19%), al patrimonio netto personale (0,48% – 0,96%), agli immobili, all’i.v.a.,
alla tassa sulla chiesa.
(C) in Belgio, sostanzialmente il sistema fiscale – a livello nazionale – prevede un’imposta sul reddito societario (pari al 390%, ma al 43% sulle filiali di società estere) e su quello personale (dal 25%, fino a Fb. 253.000, al 551/4, oltre a Fb. 2.422.000); mentre, a livello locale, oltre ad essere destinatari di una quota annualmente variabile delle dette entrate, le Autonomie percepiscono i proventi dalle tasse sugli immobili.
(D) in Brasile esistono tre livelli impositivi: federale (imposte sul reddito personale – dal 15% fino a UFIR 2000, al 25% oltre detta cifra -, sul reddito societario – pari al 30% -, imposte su immobili, dogane, transazioni finanziarie, capitale societario, i.v.a.), nazionale (sovrimposte sui redditi di società e di persone fisiche – pari al 5% del tributo federale netto -, i.v.a., tributi per successioni e donazioni e su autoveicoli), municipale (imposta sui servizi, pari al 5% e sugli immobili). La Costituzione proibisce espressamente alle Autorità fiscali non federali di imporre od aumentare tributi Autonomamente.
(E) il regime fiscale del Canada prevede: a livello federale, tributi sui redditi di società (28%) e di persone fisiche (max 29%) e l’i.v.a.; a livello provinciale (10 province): tributi sul reddito societario (tra il 7% ed il 13%), su quello personale (tra il 15% ed il 20%), oltre all’imposta sul capitale societario (fino al 3%). Tranne il Quebec, le varie province possiedono stessi parametri per misurare i redditi e non percepiscono direttamente i relativi tributi, essendo le rispettive imposte delle percentuali di quelle federali.
(F) il regime fiscale degli U.S.A. prevede tre livelli di Autorità: quella federale (che percepisce il tributo sul reddito societario – pari al 34% -, sul reddito delle persone fisiche – 15%, fino a $36.000, 28%, fino a $86.000, 31%, oltre detto importo – e le tasse doganali, le accise e le tasse immobiliari), quelle nazionali (tributo sul reddito società, basato sul capitale o sul reddito, ovvero pari ad una advanced minimum tax del 20%; imposte sulle vendite e sugli immobili, con aliquote molto variabili; imposte sul reddito personale, con aliquote dallo 0 al 12%) e quelle locali (tributi sul reddito società – 0/12% -, sul reddito personale – in genere pari all’1%, tranne N.Y. dove vige il 4%-, imposte sulle vendite e quelle sugli immobili, con aliquote variabili). Di norma: tutti i detti tributi sono dovuti in uno stesso Stato ed in un’unica soluzione; le imposte nazionali e locali sui redditi sono deducibili ai fini del calcolo di quelle federali; le Autorità fiscali nazionali possiedono una limitata potestà impositiva, come tale valida però anche per l’applicazione delle convenzioni internazionali.
(G) ricordo poi che in Spagna, dove il sistema fiscale non è di tipo federale, viene riconosciuta una certa autonomia municipale e provinciale. A livello nazionale, sul reddito societario grava un’aliquota del 35%, sul reddito personale delle aliquote crescenti dal 20% (fino a PS. 10 Mil) al 53% (su Ps. 10 Mil). A livello locale esistono: una tassa della Camera di commercio, pari a circa l’1%, quale sovrimposta sul reddito; una tassa sugli affari, corrispondente ad una quota minima municipale o provinciale (quota base x Tariffa attività + Area m2) con coefficienti di correzione; tasse su immobili ed i.v.a.
Mentre in Danimarca, il livello nazionale prevede tributi: su reddito societario (34%), di persone fisiche (dal 44%, fino a Cd. 130.900, al 63%, oltre Cd. 236.600) al netto di imposte locali e per il culto, sul patrimonio (1%); mentre il livello locale prevede: un’imposta sul reddito personale (30,4%) al netto di quella per il culto, una sopratassa personale (5%) ed un’addizionale e della stessa imposta per il culto (da 0,4 all’1%).
[31] http://opinione.it/politica/2020/03/23/domenico-letizia_croce-rossa-cinese-yang-huichuan-facebook-covid-19-cina-europa-li-zehua-partito-comunista-cinese-sars-terzi-cctv/?fbclid=IwAR0Yb4np5AYXRcrqGLIczCO-NKU7uuVbotDoswaGI_aiCV0Q3XXhwe8ILG4 Il dominio cinese sull’Europa mascherato dall’aiuto umanitario di Domenico Letizia 23 marzo 2020 “Siamo venuti per ricambiare gli aiuti ricevuti”, ha dichiaro il presidente della Croce Rossa cinese, Yang Huichuan, che ha guidato il team di medici ed esperti giunto dalla Cina con un carico di “aiuti”. “Con noi abbiamo portato 31 tonnellate di materiali, …..”. In un clima di emergenza nazionale come quello che viviamo, sarebbe opportuno non farci prendere in giro da Pechino, ma purtroppo il diritto alla conoscenza viene nuovamente negato ai cittadini. La Cina pretende di investire per acquisire il pieno controllo di reti strategiche nell’energia, trasporti, economia digitale in Europa e in America, ma vieta gli investimenti stranieri nelle stesse reti in Cina; Pechino esige che Huawei entri nel nostro 5G, una dimensione che aumenta di mille volte la potenza di internet, per dominare la gestione e il flusso dei nostri dati, ma blinda rigorosamente tutto il cyberspazio cinese alle società di telecomunicazioni europee e americane.
Un disegno geopolitico che sembra aver avuto il suo effetto sperato. Nessuno che osi mettere in discussione la messianica Cina e la voglia del regime di fare affari, anziché beneficenza, avendo a disposizione alcune delle migliori aziende di prodotti sanitari del mondo. L’applicazione concreta e morale della “Via della seta”, dimenticando che i principi democratici si reggono sul rispetto dei diritti del cittadino, della stampa e delle libertà civili, quelle libertà che la
Cina soffoca nel sangue, applicando spesso la pena capitale per chi osa dissentire all’autorità imposta.
[32] Sin dagli anni ‘70, quindi molto tempo prima che il tema dell’allargamento ad est dell’UE assumesse contorni ben precisi, il Parlamento europeo ha affrontato la questione dei rapporti con i paesi del COMECON in diverse risoluzioni e relazioni e ha espresso le proprie posizioni in merito al rispetto dei diritti umani e agli sviluppi generali in questi Stati. In seguito alla dichiarazione congiunta CE-COMECON del 1988 sono state istituite delegazioni interparlamentari volte a curare le relazioni con i rispettivi paesi. Nel 1989, tuttavia, la situazione politica europea ha subito un mutamento radicale.
A partire dai primi anni ‘90, l’interesse del Parlamento europeo riguardo ad un ulteriore ampliamento dell’Unione europeo è quindi aumentato in modo sostanziale. La mutata posizione assunta dal Parlamento europeo in questa direzione rispecchia i progressi registrati dalla strategia di preadesione messa in atto negli anni ‘90. Il Parlamento, al pari di altre Istituzioni, non ha dimostrato sufficiente lungimiranza nel comprendere l’ampiezza dell’impatto che i progressi nell’Europa centrale ed orientale avrebbero avuto sul corso dell’integrazione europea. I primi accordi (europei) di associazione, siglati tra il 1991 e il 1996 con i dieci PECO, hanno permesso di mutare tale realtà, attribuendo all’adesione il carattere di un’opportunità futura e cambiando le basi e gli obiettivi dei rapporti tra l’UE e questi paesi.
Uno dei primi documenti in cui il Parlamento ha delineato la propria posizione è stata la risoluzione adottata in merito alla proposta della Commissione per i negoziati degli accordi di associazione con Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia. Il Parlamento ha accolto con favore la richiesta, ma ha altresì sottolineato alcune questioni che era sua intenzione non tralasciare nell’approccio verso l’ampliamento. Tra le altre cose, esso ha ribadito l’importanza di una sua partecipazione attiva agli accordi di associazione e rimarcato come con questi ultimi non si dovesse pregiudicare la nascita di future appartenenze dell’UE, ma piuttosto considerare l’adesione una possibilità.
La necessità di rafforzare il ruolo del Parlamento ha trovato un’ulteriore conferma nel momento in cui il Parlamento stesso ha espresso il proprio parere sulla struttura generale da attribuire agli accordi di associazione. Sulla base di una relazione presentata dalla onorevole Randzio-Plath a seguito di una visita in Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia, il Parlamento ha adottato in data 18 aprile 1991 una risoluzione ( 3), in cui sollecitava la Commissione a potenziare il ruolo del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali di ciascun paese candidato. Il successo definitivo di tale iniziativa è stato decretato in ultimo dal fatto di aver confermato le commissioni parlamentari miste come una delle tre principali istituzioni previste dagli accordi europei.
Nel corso degli anni successivi il Parlamento ha sviluppato una posizione esauriente in linea con le responsabilità previste dal trattato e le relazioni in rapida evoluzione tra PECO ed UE. Il Parlamento si è pronunciato in merito alla propria posizione con diverse risoluzioni, a cominciare dalla relazione di Klaus Hänsch del 1992, tutte incentrate su uno o più aspetti correlati all’ampliamento e sulla cui base si sono fondate le risoluzioni del Parlamento stesso sulla comunicazione della Commissione “Agenda 2000” del 1997. Da tali documenti emergono i tre elementi principali su cui poggia la posizione specifica assunta dal Parlamento: riforma istituzionale, impegno volto al finanziamento dell’ampliamento ed importanza della necessità di avviare simultaneamente il processo di ampliamento con tutti i paesi candidati.
[33] già peraltro emersa dal convegno organizzato da C.V / Accademia Europea (svoltosi il 15 maggio 1996, a Roma presso il CNEL, dal titolo “Comunicazione istituzionale e Intercomunicabilità tra sistemi giuridici nella U.E.”).
[34] Ovviamente, bisogna anche tener presente che da anni, esistono competenze esclusvamente attribuite alla UE:
Tre principi determinano in che modo e in quali settori l’UE può agire: (A) attribuzione – l’UE ha solo l’autorità conferitale dai trattati dell’UE, ratificati da tutti gli Stati membri; (B) proporzionalità – l’azione dell’UE non può andare oltre quanto necessario per conseguire gli obiettivi dei trattati; (C) sussidiarietà – in settori in cui sia l’UE che i governi nazionali possono agire, l’Unione europea può intervenire solo per agire in modo più efficace.
Solo l’UE può legiferare in certi settori. Il ruolo degli Stati membri si limita ad applicare la legge, a meno che l’UE non li autorizzi ad adottare direttamente certe leggi.
In questi settori, l’UE ha quelle che nei trattati si chiamano “competenze esclusive“: unione doganale – regole di concorrenza per il mercato unico – politica monetaria per i paesi dell’area dell’euro – commercio e accordi internazionali (in determinate circostanze) – flora e fauna marine disciplinate dalla politica comune della pesca. Sia l’UE che i governi nazionali possono legiferare In certi settori, sia l’UE che gli Stati membri possono legiferare.
Tuttavia, i paesi membri possono farlo solo se l’UE non ha ancora proposto leggi o se ha deciso di non proporne. In questi settori, l’UE ha quelle che nei trattati si chiamano “competenze CONCORRENti“: mercato unico – occupazione e affari sociali – coesione economica, sociale e territoriale – agricoltura – pesca – ambiente – protezione dei consumatori – trasporti – reti transeuropee – energia – sicurezza e giustizia – salute pubblica – ricerca e spazio – cooperazione allo sviluppo e aiuti umanitari.
[35] Il RUGE, F.O. (politica e strategia, Firenze, 1969, p.56), nota come “… L’ esempio degli aiuti ai Paesi in via di Sviluppo dimostra quale potere si può esercitare con i mezzi economici e quali risultati strategici si possono ottenere.
Ipotesi di Aiuti ai P.V.S., la più grande e riuscita misura di strategia non militare dell’Occidente fu indubbiamernte il Piano Marshall, in cui gli Americani, a partire dal 1946, impiegarono notevoli mezzi finanziari ed economici per rimettere in piedi l’ Europa distrutta, ivi compresi i Paesi che nella Seconda Guerra Mondiale erano stati dalla parte nemica. Questo aiuto ebbe notevoli ripercussioni dal punto divista psicologico e della politica estera. se ne resero conto i Sovietici e perciò proibirono ai loro satelliti di accettarlo. La Cecoslovacchia, che si era già impegnata, fu costretta a troncare ulteriori trattative. …”
[36] Secondo una ricerca condotta da CESPRI-BOCCONI / UNIVERSITA’ STRASBURGO / CENTRO STUDI CONFINDUSTRA (2000), gli obiettivi perseguiti normalmente da imprese italiane nella stipula di accordi internazionali di joint venture sono, in ordine di importanza: (A) consolidamento della competitività all’ estero e allargamento della penetrazione commerciale; (B) ingresso in nuovi mercati; (C) realizzazione di economie di scala; (D) diversificazione della produzione; (E) razionalizzazione di quest’ultima.
Tuttavia, quante sono le aziende italiane definibili “export oriented”? Secondo il MARTINO, la struttura industriale italiana presenta la seguente impostazione: circa 70% di piccole imprese; più o meno 20 % di medie imprese; la restante parte sarebbe la grande industria nazionale! Ora, credo, anche se non appare esserci una diretta connessione tra propensione all’esterizzazione e dimensioni d’impresa, certo queste saranno sovente correlate non tanto alle possibilità economiche, quanto a presenza di strategie strutturate ed a lungo termine
[37] Ricordo – con le parole del RUGE (op. cit., p. 66) – che in linea generale, le “alleanze”, tanto economiche che politiche, sono un mezzo della Strategia e possono sviluppare e condurre da sé una strategia. Ciò, tuttavia, diventa tanto più difficile, quanto più debole è la coesione politica in seno alla Alleanza; una buona collaborazione in campo militare può controbilanciarle solo in parte. Interessi particolari e fiducia giuocano un ruolo importante. Trovare la giusta via di mezzo è compito del politico e del militare.
[38] Documento elaborato in occasione del convegno IAI-ISPI, su “Il ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali”, svoltosi a Roma il 25.09.2012
[39] E’ da notare che da tempo la Politica della Cooperazione è stata acquisita tra le competenze della UE e conseguentemente quello che costituiva anche il Sistema delle Preferenze Generalizzate (SPG), utilizzato dalla Unione Europea fin dal 1971 è uno degli strumenti chiave per aiutare la crescita dei P.V.S., (a disposizione ella stessa UE) agevolando le loro esportazioni, al fine di renderli economicamente autosufficienti, stimolare la loro industrializzazione, incoraggiarli a diversificare la loro economia, accelerare il loro sviluppo sostenibile e diventare, così, partner a pieno titolo nell’ambito del commercio internazionale.
Dato il peso dell’economia degli Stati membri, per molti paesi tra i più poveri è essenziale utilizzare il commercio come strumento per ridurre la povertà mediante accesso al mercato comunitario al fine di poter crescere economicamente attraverso le proprie esportazioni; questa prospettiva è alternativa a quella dell’aiuto allo sviluppo tramite la semplice erogazione di finanziamenti che crea di per sé dipendenza del paese beneficiario dal paese donatore.
Il problema prioritario delle relazioni commerciali con i PVS è rappresentato dal grado di chiusura delle economie dei Paesi sviluppati nei confronti dei prodotti originari dei PVS, specie in settori nei quali le esportazioni da parte dei PVS potrebbero essere competitive, in particolare nel settore agricolo. Pertanto, per rafforzare le capacità commerciali e stimolare l’export di tali paesi l’Unione Europea incentiva le importazioni di beni originari di questi mercati riducendo, o addirittura annullando, i dazi doganali che invece gravano sulla stessa tipologia di prodotto quando esso è originario da altri paesi non beneficiari del sistema SPG; l’adozione di dazi più favorevoli rappresenta uno dei metodi più importanti per incentivare i commerci in quanto il dazio doganale rappresenta uno dei tradizionali e più comuni strumenti di protezione economica. Tale sistema non è reciproco, trattandosi di agevolazioni tariffarie adottate in via unilaterale dalla UE al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile dei PVS sul piano economico, sociale e ambientale, con l’obiettivo primario di eliminare la povertà; peraltro esso contribuisce ad assicurare un approvvigionamento equo e sostenibile di materie prime nella Unione Europea. Queste misure sono peraltro ammissibili ai sensi dei principi previsti dall’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), con particolare riferimento alla possibilità di concedere un trattamento diverso e più favorevole ai PVS.
E’ da notare, inoltre, l’attenzione crescente manifestata dall’UE per l’obiettivo di “uno sviluppo durevole incentrato sull’essere umano” nei Paesi beneficiari; pertanto, la concessione del regime di preferenze è condizionata alla tutela dei diritti fondamentali ed alla promozione di uno sviluppo sostenibile. E’ previsto, infatti, che i benefici dell’SPG possono essere revocati per violazioni gravi e sistematiche dei principi contenuti nelle Convenzioni essenziali ONU/OIL sui diritti umani e sul diritto del lavoro.
Ricordo che la UE ha a disposizione: una DG Cooperazione Internazionale e Sviluppo (DEVCO / EuropeAid); un Servizio Europeo per l’Azione Esterna (EEAS); varie Delegazioni dell’Unione europea nei Paesi Terzi
Articolo a cura di Carlo Carli
Carlo C.Carli (già OF 2 r / t. Army Leg.Ad. - sp.f. M&S NATO – former In-house Legal Counsel - Avvocato) è un "giureconomista aziendale” formatosi accademicamente nelle discipline giuridiche (consumatori, amministrativo, penale, mare) ed economiche (tributi, società e finanza internazionale) e operativamente quale manager di multinazionali dell'energia e della finanza. Il suo ruolo è stato innanzitutto quello di definire le problematiche, fornendo le possibili risposte nei vari teatri operativi, specie in situazioni ad elevata complessità. Nei campi di competenza ha anche svolto elevata attività consulenziale per soggetti privati e pubblici, attività pubblicistica, attività scientifica (docenza del Diritto Internazionale Tributario - SCUOLA PT / S.S.P.A. / IST.A.DE GASPERI / UNIV.RM ECONOMIA e docenza di Tecniche di Intelligence - UNIV.EU.R.).