La cultura della competizione individuale
In una multinazionale con ampia rete di punti di vendita, l’attività commerciale si fonda su un personale formato e motivato capace di tener vivo il rapporto con i clienti. Per migliorare queste prestazioni l’amministratrice delegata regionale ha cambiato la funzione tradizionale della gerarchia, trasformandola in una capillare attività di mentoring oggetto di valutazione. Per anni il modello di funzionamento interno dell’azienda si è basato su conquista-controllo-dominio di ogni posizione. Ora da questo si è passati al capo che sostiene, si fa carico dello sviluppo professionale delle persone della sua struttura e ne risponde: la sua prestazione è valutata anche in base ai risultati ottenuti nella crescita degli altri. “Oggi è necessaria la collaborazione di tutti e tra tutti, non la competizione individuale.”.
In un’altra multinazionale americana la responsabile del personale, in una selezione per aumentare la presenza di donne in ruoli direttivi, ha considerato anche l’atteggiamento relazionale rispetto ai propri collaboratori. Con effetti inattesi. Queste donne adottano una modalità cooperativa che si esprime prima di tutto nel loro personale atteggiamento, ma si manifesta anche come prassi di lavoro richiesta a tutti i collaboratori e oggetto di valutazione. La valorizzazione delle capacità individuali è finalizzata al raggiungimento di un risultato ascritto a merito di tutti. “Si sposta l’attenzione dall’io al noi. Non un ‘noi’ che elimina le individualità, ma un noi che le valuta rispetto ad un interesse collettivo”.
Sono solo due esempi delle politiche adottate da molte manager per cambiare il modo di lavorare, trasformando i collaboratori da competitori a corresponsabili, da persone che si fanno la guerra a persone che fanno cose insieme con fiducia e rispetto. Passaggio difficile, perché le aziende sono permeate, a tutti i livelli, dalla cultura della competizione, addirittura promossa come fattore che stimola chi lavora a dare il meglio di sé. Non solo -certo- verso i concorrenti, ma anche nel funzionamento interno dell’azienda, nei rapporti tra colleghi e tra un settore e un altro. Perché allora questa virata voluta da donne che nelle aziende hanno ruoli di alta responsabilità?
Perché in realtà la competizione è distruttiva anziché produttiva di prestazioni migliori. Competere con i colleghi non vuole dire diventare così bravo e capace da emergere come il migliore, semplicemente perché non sempre lo si è, e i migliori possono essere più d’uno. La pratica corrente implica dunque anche dinamiche che ostacolino la crescita di altri. Come l’accentramento delle informazioni, la focalizzazione delle energie sul proprio potere di ruolo (alto o basso che sia), rapporti strumentali e conflittuali: tutte cose che distolgono dai risultati aziendali. Se la competizione è lo strumento per far emergere un individuo, se conta l’affermazione di sé – meritoria o no – la si persegue non solo con le proprie capacità ma anche attraverso la sconfitta dei ‘rivali’. Il prezzo che paga l’azienda è che queste persone impegnano buona parte delle azioni, dei pensieri e del tempo nella difesa del proprio territorio – questa è la sostanza dell’atteggiamento competitivo – che include anche bloccare la crescita di altri soggetti. E’ noto nelle aziende il comportamento di manager al vertice che si circondano di incapaci, per evitare di fare spazio a qualcuno che possa poi fargli ombra. Così, gli scopi aziendali diventano secondari rispetto agli interessi individuali, che finiscono per ostacolare migliori prestazioni di tutti. All’opposto il lavorare in modo collaborativo -come si vede quando questo atteggiamento diviene la prassi – è stimolante e contagioso, perché non sollecita reazioni aggressive a difesa del proprio ruolo, della propria affermazione: non sentendosi minacciati, si ha meno paura di abbandonare questi comportamenti. Così la cooperazione produce più del conflitto.
Competere in origine significava ‘incontrarsi con’ (cum petere). Il senso è quindi: ‘cercare risultati lavorando insieme’: un senso contiguo al ‘collaborare’ (cum laborare). Ma allo stesso tempo cum petere aveva anche assunto il senso di ‘scontrarsi con’: agonismo conflittuale, gara di uno contro l’altro. Alcune donne manager ci riportano vicino al significato originario e complessivo. La competizione è essenzialmente una questione di potere, sta dentro le sue dinamiche: il potere è additivo, se tu aumenti il tuo io ne perdo altrettanto del mio, e viceversa.
Ma molte manager hanno cambiato la concezione del management. Sono entrate nei luoghi decisionali alti ma senza adeguarsi all’esercizio del potere che lì prevale, come dominio, comando, controllo, autoreferenzialità. Per queste donne invece l’azienda è una costruzione comune di tutti i soggetti che la compongono, e il ruolo del manager è governarla. Un’assunzione di responsabilità non di potere personale.
A cura di: Luisa Pogliana
Luisa Pogliana: per molti anni direttore di una staff in una grande azienda editoriale, è ora consulente di ricerca sui mercati internazionali. Ha fondato l’associazione Donnesenzaguscio, per la valorizzazione delle pratiche e dei pensieri innovativi delle donne nel management. Su questi temi ha pubblicato Donne senza guscio (2009) e Le donne il management la differenza (2012), entrambi presso Guerini.