La digitalizzazione del nostro paese: perché e come

Dall’esame della relazione DESI 2020, vale a dire l’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società, realizzato dalla Commissione europea con riferimento ai dati dell’anno precedente[1], si rileva – come evidenziato con la “figura 1”- che l’Italia, facendo registrare un punteggio complessivo di 43,6% quanto a Connettività, vale a dire l’impiego degli strumenti di digitalizzazione (la media UE è pari al 52,6 %), è relegata a occupare la 25^ posizione rispetto ai 28 paesi europei considerati (davanti solo a Romania, Grecia e Bulgaria).

Dal dettaglio delle cinque dimensioni analizzate dal DESI risulta che la nostra Nazione si colloca addirittura come ultima per quel che riguarda il Capitale umano, che fa rifermento alle competenze digitali delle persone al lavoro: risulta, infatti, che solo il 42% delle persone (tra i 16 e i 74 anni) possiede almeno competenze digitali di base (la media europea è del 58%).
Al basso livello di competenze digitali possedute dai cittadini italiani consegue un altrettanto limitato Uso dei servizi Internet, sicché l’Italia non va oltre il 26° posto. Nella dimensione Integrazione delle tecnologie digitali, che riguarda la digitalizzazione nelle imprese, invece, l’Italia sale (si fa per dire) al 22° posto, ma, comunque, sempre ben al di sotto la media UE. Lo scarso livello di interazione online tra le autorità pubbliche e i cittadini in generale, infine, vede solo il 32% degli italiani usufruire dei Servizi pubblici digitali quando in Europa si registra un livello medio di utilizzazione dei servizi di e-government intorno al 67%.

Insomma, la situazione italiana con riguardo alla digitalizzazione, ci marchia come Paese alquanto arretrato e, verosimilmente, esposto al rischio di operare in affanno nell’affrontare le incognite economiche e sociali della crisi generale prodotta dal Covid-19 quanto all’utilizzo delle nuove tecnologie.

La situazione appare ancora meno rosea se si prendano in considerazione i dati esposti nel Rapporto sul futuro del lavoro del World Economic Forum 2020.

Detto documento, infatti, evidenzia come, anche in conseguenza dei cambiamenti strutturali e organizzativi esitati dalla recente pandemia, che ha imposto un diffuso ricorso al lavoro a distanza accelerando l’uso degli strumenti digitali, il processo di affermazione della innovazione tecnologica porterà all’asseverazione di nuove professioni con estinzione di altre, producendo evidenti conseguenze di carattere economico e sociale per quei paesi che non dimostrino di essere nelle condizioni di affrontare la novità della “quarta rivoluzione” che, secondo Schwab, rappresenta un periodo al tempo stesso promettente o potenzialmente pericoloso, in grado di sconvolgere i mercati del lavoro sicchè occorrerà “… formare forza lavoro e sviluppare sistemi educativi con l’obiettivo di utilizzare o lavorare con macchine sempre più intelligenti e interconnesse[2]”.

Proprio in considerazione dei rischi potenziali di questa rivoluzione del nuovo millennio Zamagni afferma la necessità che essa vada governata con saggezza e non soltanto con razionalità evitando sia l’esaltazione acritica del progresso sia il timore dei suoi effetti distruttivi sull’occupazione, soprattutto dal momento che il digitale cambia la relazione tra conoscenza e lavoro[3].

Dal momento che il report del WEF mette in luce il rischio di un calo dei ruoli routinari dal 15,4% della forza lavoro al 9% (-6,4%) a fronte della crescita di professioni emergenti dal 7,8% al 13,5% (+5,7%), consegue che, verosimilmente, entro l’anno 2025 almeno 85 milioni di posti di lavoro potrebbero essere sostituiti in seguito a una diversa suddivisione delle attività tra uomo e macchine, mentre potrebbero emergere 97 milioni di nuove professioni più adatte ai nuovi assetti organizzativi aziendali.

A ciò si aggiunga che circa il 43% delle aziende intervistate ritengono di essere destinate a ridurre la propria forza lavoro a causa dell’integrazione tecnologica; il 41% prevede di espandere il ricorso ad appaltatori per lavori specializzati e il 34% e di incrementare la propria forza lavoro come risultato dell’integrazione tecnologica.

La capacità delle aziende globali di sfruttare il potenziale di crescita dell’adozione di nuova tecnologia, tuttavia, è ostacolata dalla carenza di competenze; paradossalmente la mancanza di skills è ritenuta più alta proprio tra le professioni emergenti.

Va smentito che sia ipotizzabile addestrare i dipendenti a un semplice rapporto uomo-macchina, poiché per garantire il successo del cambiamento organizzativo risulta rilevante l’orientamento ad affrontare i problemi di produttività e di benessere delle persone interessate adottando misure idonee a creare un senso di comunità, di connessione e di appartenenza tra i dipendenti[4].

Dal WEF rimarcano la scarsa partecipazione dei dipendenti verso l’aggiornamento/addestramento, tant’è che solo il 42% delle persone al lavoro si avvale oggi di opportunità di riqualificazione e upskilling, sebbene i datori di lavoro intervistati attraverso il Future of Jobs Survey abbiano riferito che, in media, l’offerta di formazione e di aggiornamento sia stata rivolta al 62% della loro forza lavoro prevedendo entro l’anno 2025 un possibile incremento della stessa almeno nella misura dell’11%, proprio per assicurare l’adeguatezza dei servizi e la competitività delle produzioni.

L’analisi esposta nel Rapporto del WEF ha costituito una spinta verso l’adozione di iniziative mirate a sviluppare le nuove competenze che le innovazioni richiedono vieppiù in quanto mette in luce che ben l’84% dei manager propende verso la digitalizzazione del lavoro con l’utilizzazione di forza lavoro da remoto – nella misura di circa il 44% – in particolare per i processi di produzione di beni e di servizi.

Si dovrà trattare certamente, come peraltro significato in precedenti interventi dello scrivente sulle pagine di questo Magazine, di iniziative caratterizzate dal bisogno di connettersi alla capacità di pensiero analitico come la creatività, il problem solving e l’autogestione, a cui aggiungere pure l’abilità di lavorare all’interno di team multidisciplinari utilizzando la tecnologia.

E’ questo il contesto oggettivo che sostanzia la ragion d’essere il Piano Nazionale di Riprese e Resilienza[5], più noto con l’acronimo di PNRR, varato dall’Italia in riferimento al NextGenerationEU [6], con cui il Governo italiano, indica le sei “Missioni” finalizzate a perseguire l’obiettivo per cui l’Europa ha deciso di erogare uno specifico sostegno economico.

Nella “figura 2” la “Missione” denominata Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo occupa di diritto il primo posto in quanto, come ammette lo stesso PNRR, essa intende realizzare “la rivoluzione digitale” alla stregua di innovazione radicale che lo stesso PIANO declina come “un’enorme occasione per aumentare la produttività, l’innovazione e l’occupazione, garantire un accesso più ampio all’istruzione e alla cultura e colmare i divari territoriali”.

In particolare l’obiettivo della “digitalizzazione, innovazione, competitività” è di assicurare soluzione ai problemi dell’arretratezza della pubblica amministrazione italiana.

Le istituzioni pubbliche del nostro Paese, infatti, risultano avere fatto un uso molto limitato dell’innovazione, in senso generale, e ancor meno hanno considerato la digitalizzazione quale strumento per modificare assetti interni; meno che mai per aggiornare le proprie procedure.

Si pensi che, persino nei casi in cui informazioni e servizi sono disponibili online, le modalità di accesso, di autenticazione e di interazione sono tanto complicate e farraginose e con esiti incerti, perché riflettono il disegno e la logica del procedimento amministrativo, da rimanere ben lontane dallo standard in grado di assicurare la velocità e la semplicità garantito dalle maggiori piattaforme tecnologiche e dalle più recenti applicazioni presenti sul mercato delle quali il comune cittadino fa uso quotidianamente.

Per colmare questo deficit già nel mese di dicembre del 2019 il Ministero della Innovazione tecnologica e della transizione Digitale aveva reso pubblico il documento 2025: Piano Nazionale per l’Innovazione votato ad assicurare “l’innovazione e la digitalizzazione” come parte “di una riforma strutturale dello Stato che promuova più democrazia, uguaglianza, etica, giustizia e inclusione e generi una crescita sostenibile nel rispetto dell’essere umano e del nostro pianeta”.

Quel documento, richiamato dal PNRR, prendeva le mosse dalla considerazione che, in mancanza di visione comune verso azioni capaci di imprimere una trasformazione digitale e tecnologica al nostro Paese, risulta ineludibile la organizzazione di processi di trasformazione in modo interconnesso, capaci di agevolare “il cambiamento in maniera strutturale e creando le condizioni favorevoli affinché si generi innovazione” così da garantirne la competitività con le economie delle altre nazioni.

Da quanto innanzi esposto le ragioni del “perché” nasce l’impegno a digitalizzare il nostro Paese; mentre proprio alla finalità “generativa” il compito di “come” realizzarla.

Dal momento che digitalizzare non può ridursi alla astratta padronanza di algoritmi finalizzati a risultati di efficienza e di efficacia, l’innovazione che si vuole per l’Italia, almeno ad avviso nostro, non potrà prescindere dalla identità dei ruoli delle persone al lavoro confacendosi all’auspicio di Sennet di formare l’homo faber, cioè persone capaci di costruire una vita con gli altri lavoratori e con i clienti/utenti[7] anche perché non va ignorata la sfida che la “rivoluzione digitale” pone ai lavoratori interessati vale a dire “se la libertà nel lavoro riuscirà ad affermarsi oppure no” garantendo la partecipazione delle persone che lavorano allo sviluppo e alla produzione[8] .

Ne discende la ineludibile necessità di considerare il peso della organizzazione, del ruolo della dirigenza e degli stakeholder, che influenzano e sono influenzati dalle politiche e dagli obiettivi del PNRR nella piena e incontrovertibile consapevolezza che senza un’adeguata formazione non sarà possibile dare corso produttivo alla “la rivoluzione digitale” scongiurando il rischio di avere utilizzato soltanto formule di rito – tutt’altro che magiche –.

E ciò ancor di più se si consideri, come lo stesso PNRR spiega, che la causa della carenza di nuove competenze: “è anche determinata dal taglio delle spese di istruzione e formazione per i dipendenti pubblici. In 10 anni gli investimenti in formazione si sono quasi dimezzati, passando da 262 milioni di euro nel 2008 a 164 milioni nel 2019: una media di 48 euro per dipendente. Inoltre, tale limitata attività di formazione è anche poco finalizzata: nel 2018 la formazione ICT ha coinvolto solo il 7,3 per cento dei dipendenti della PA locale, con una diminuzione dello 0,4 per cento rispetto al 2015”.

Da qui la consapevolezza che per digitalizzare il nostro Paese è indispensabile investire concretamente e in grande misura in ambito formativo tenendo conto del bisogno di un’adeguata preparazione in primis dei dirigenti e dei manager ai quali compete la realizzazione delle iniziative correlate agli “obiettivi strategici”; accanto a quella formazione non si potrà trascurare pure un impegno a fare crescere conoscenze e competenze e consapevolezza dell’impegno strategico della digitalizzazione tra gli imprenditori e i quadri sindacali, che operino in relazione alla mission dei singoli pubblici uffici, atteso che essi rappresentano gli interlocutori qualificati chiamati a supportare l’innovazione senza perdere di vista il bisogno della sostenibilità ambientale e sociale.

Si tratterà necessariamente di un processo formativo [dal lat. procedĕre, comp. di pro “innanzi” e cedĕre “andare”: con il significato di “andare avanti”] e, pertanto di un’attività continuata ngli anni, organizzata per tappe e specifici obiettivi, che potranno ancor meglio essere condivisi e pienamente conseguiti se attuati ricorrendo alla esperienza della formazione attraverso lo strumento delle Comunità di pratica.

Queste, come illustrato in un precedente intervento[9], rappresentano forme di negoziazione implicita tra gli attori organizzativi, che hanno come effetto la realizzazione di legami capaci di determinare quella intesa che alimenta lo stare insieme con regolarità, riuscendo a porre in secondo ordine i vincoli organizzativi di tipo gerarchico, che sovente rendono farraginosi i percorsi formativi generando barriere comunicative tra i diversi ruoli.

Insomma per la piena efficace realizzazione della “Missione” di digitalizzare la nostra Nazione, in generale, e la pubblica amministrazione, in particolare, c’è bisogno di percorrere [dal lat. percurrĕre, der. di currĕre “correre”, col pref. per “passare attraverso un luogo” oppure “scorrere in tutta la sua lunghezza] una esperienza di formazione del tipo generativo.

Un’azione che, lungi dall’essere episodica o affidata alla estemporanea capacità di enti e di docenti di varia origine, va governata da teams qualificati che operino preferibilmente in house providing, così da capitalizzare effetti e benefici di ritorno con attenzione massima alla “buona organizzazione”, che Butera vede caratterizzata dalle prestazioni di persone che creano situazioni di benessere e di equità, in grado di riverberarsi positivamente oltre che sui lavoratori sulla società[10].

E come non riconoscersi nell’auspicio di questo autore, che tanto si è soffermato sulla necessità di una organizzazione non gerarchica e piramidale, tesa alla partecipazione attiva di tutte le persone al lavoro all’impiego della innovazione tecnologica ma, ancor più, di un management pronto a fare buon uso della innovazione rispetto alle persone che lavorano[11] secondo finalità in grado di riconoscere e rispettare le “persone integrali”; ossia quelle che secondo Maritain godano di una solida integrità del sé e, consapevoli di partecipare ad una competizione sfidante, siano capaci di apportare il proprio contributo nel mondo del lavoro e nel sociale [12].

Note

[1] https://digital-strategy.ec.europa.eu/en/policies/desi. Il Digital Economy and Society Index è lo strumento mediante cui la Commissione Europea monitora il progresso digitale degli Stati membri dal 2014. Le relazioni DESI, che comprendono sia profili nazionali che capitoli tematici, raccolgono prove quantitative derivanti dagli indicatori DESI sotto i cinque aspetti dell’indice, con approfondimenti specifici per paese riguardanti le politiche e le migliori prassi.

[2] SCHWAB, K., La quarta rivoluzione industriale, Franco Angeli, Milano, 2016, pag. 95.

[3] ZAMAGNI S., Creazione di lavoro nella stagione della quarta rivoluzione industriale. Il caso dell’Emilia- Romagna, Il Mulino, Bologna, 2019.

[4] Per una visione più ampia del tema si veda: DE GIOSA V., DI SABATO T., Le organizzazioni di successo, Youcanprint, Lecce, 2020.

[5] https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf. Il Piano Nazionale di Riprese e Resilienza ha ufficialmente ricevuto l’approvazione da parte della Commissione europea il 22 giugno 2021

[6]NextGenerationEU” è lo strumento temporaneo pensato per ricostruire l’Europa dopo la drammatica esperienza del COVID-19. Esso prevede di mettere a disposizione dei paesi membri della UE 750 miliardi di euro di prestiti e di sovvenzioni per sostenere le riforme e gli investimenti che saranno effettuati dagli stati con l’obiettivo di attenuare l’impatto economico e sociale della recente pandemia e rendere le economie e le società delle nazioni europee più sostenibili, resilienti e preparate alle sfide e alle opportunità della transizione ecologica e di quella digitale. Di detto stanziamento l’Italia ha avuto accesso ad una quota di 209 miliardi (il 27,8% dell’intero importo).

[7] SENNET R., L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano, 2008.

[8] Si veda a tal riguardo: MARI G., Libertà nel lavoro. La sfida della rivoluzione digitale, Il Mulino, Milano, 2019.

[9] DI SABATO T., “E-learning e Comunità di pratica – antidoto agli effetti della pandemia sulla formazione”, Leadership & Management del 7 gennaio 2021.

[10] BUTERA F., “Valorizzare il lavoro attraverso la progettazione partecipata”, Studi organizzativi: XXII, numero speciale, 2020, pp. 156-178.

[11] BUTERA F., Il cambiamento organizzativo. Analisi e progettazione, La terza, Bari, 2009.

[12] MARITAIN J., L’umanesimo integrato, Borla Roma, 1980.

 

Articolo a cura di Tommaso Di Sabato

 

Profilo Autore

Docente presso la Scuola di Alta Formazione della UNINT- Roma e Collaboratore del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione – Torino.
Già Direttore vicario della Ripartizione Risorse Umane di UNISALENTO e Professore a contratto dei Corsi di Laurea in Scienza dell'Amministrazione - Facoltà di Giurisprudenza di UniTELMA – Roma.

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