La disciplina professionale: il cammino verso l’eccellenza

Mi sono imbattuto nei filmati postati su Youtube dal sig. Ezio Maria Romano, che alleva e vende Pastori dell’Asia centrale alle famiglie che desiderano proteggersi dalle intrusioni di ladri e malintenzionati. Come Presidente della Federazione Italiana Cani da Guardia si occupa anche di guardianìa, ovvero di difesa degli animali al pascolo. Infatti, a seguito del diffondersi dei lupi nella nostra penisola, gli attacchi al bestiame sono sempre più diffusi.

Nella vita capita raramente di ascoltare persone che ci comunicano una competenza eccezionale. Pur non avendo io particolare interesse in tema di cani da guardia, ho ricavato dai video del sig. Romano stimoli per comprendere meglio il mio cane e addirittura per arricchire le mie conoscenze professionali.

In ogni contesto, privato o pubblico, l’eccellenza è una rarità.

Ce ne rendiamo conto quanto incontriamo chi interpreta con maestria un’attività, lavoro o hobby che sia.

Quali sono i tratti che accomunano le persone che vanno oltre lo standard? Come mai la mediocrità è così diffusa?
È possibile orientarsi all’eccellenza?

Come riconoscere l’eccellenza

Un medico mediocre può casualmente o fortunosamente azzeccare la diagnosi aiutandoci a intraprendere un percorso di cura corretto.

Il medico eccellente sbaglia raramente, capisce quando il problema non è di sua competenza e, quando la sua terapia fallisce, è in grado di comprendere cosa sia avvenuto.

Il barista eccellente non è necessariamente il campione del mondo della categoria (esiste il campionato dei baristi!), ma serve caffè di alta qualità e commette errori sporadici.

Il livello professionale correla con la qualità del prodotto o del servizio proposto.

L’eccellenza è una qualità mantenuta nel tempo.

Gli ingredienti della professionalità erano già noti nella preistoria

I testi dei guru del management concordano nell’indicare nel talento l’ingrediente essenziale per l’eccellenza. Il termine deriva dalla Bibbia che stabilisce, tramite una parabola, che tutti gli umani ricevono un’eredità e solo alcuni la fanno fruttare.

Le ricerca scientifica ha dimostrato quanto scritto nella Bibbia e in altri testi sapienziali antichi.

Se conosco le mie attitudini posso orientarmi verso le professioni più adatte.

Il successo parte da lontano, dall’eredità genetica, che non è determinata solo dai genitori. Non tutti i cuccioli nati da una coppia di efficaci cani da guardia ereditano l’attitudine dei genitori. Alcuni svilupperanno un carattere remissivo e neppure con l’addestramento troveranno il coraggio di affrontare un intruso.

L’allevatore di cani deve avere il coraggio di affrontare animali aggressivi. Nei cani come nell’uomo, il coraggio di affrontare situazioni pericolose non si può insegnare: è un talento.

La mancanza di talento equivale a un handicap. Se mi manca la sensibilità olfattiva è meglio che non intraprenda una carriera da sommelier.

Il secondo ingrediente è l’esperienza pratica. Il sig. Romano si occupa di cani da guardia fin dall’adolescenza. La pratica permette di sviluppare destrezza, ovvero la capacità di eseguire il gesto tecnico in modo sicuro ed efficace. La destrezza da sola caratterizza i “praticoni”, ovvero i professionisti che padroneggiano solo alcune manovre tecniche, per cui cercano di adattare le situazioni alla propria esperienza e non viceversa.

Per passare dalla destrezza alla padronanza occorre verificare l’efficacia delle prassi, approfondendo la ragione dei successi e degli errori. L’intelligenza delle cause permette di andare oltre la tecnica.

Dunque il terzo ingrediente è la teoria, che permette di interpretare l’esperienza formando il patrimonio culturale alla base della pratica di ogni professione.

Nel tempo il sig. Romano ha avuto modo di verificare personalmente la fondatezza di molte pratiche confrontandole con l’esperienza dei pastori dell’Asia centrale e di Shaun Ellis, un ricercatore che ha vissuto con i lupi. Capire la mentalità del cane che protegge la riserva di cibo (il gregge) è stato il passaggio decisivo per mettere a punto la pratica della cinofilia naturale.

Se l’eccellenza professionale deriva dalla compresenza di talento, pratica e teoria, la disciplina è l’impegno continuo a mettere in discussione quanto già si conosce[1].

Non ho la competenza per giudicare le capacità del sig. Romano ma suggerisco i suoi video a chi voglia chiarirsi le idee sulla disciplina necessaria a sviluppare la cultura professionale.

La disciplina e il suo nemico, la resistenza al cambiamento

Come osserva il sig. Romano, molte persone non vogliono mettere in discussione le proprie convinzioni e le proprie prassi. La resistenza al cambiamento è un fenomeno descritto e studiato. La storia dell’umanità ci presenta casi famosi.

Il dottor Semmelweis dovette suicidarsi per dimostrare alla comunità scientifica che le setticemie delle puerpere erano prodotte dalle infezioni batteriche[2]. Galileo Galilei fu costretto ad abiurare per salvarsi la vita.

La verità provoca reazioni di chiusura e disprezzo proprio tra i cosiddetti esperti, tra i parrucconi dell’accademia, che devono ammettere di aver sostenuto tesi sbagliate per una vita.

È umano accontentarsi del senso comune, delle convinzioni correnti, delle opinioni dei mediocri.

Ma il miglioramento continuo esige disciplina. Non a caso il principio chiave del metodo Toyota è l’applicazione della mentalità scientifica al lavoro.

Il sig. Romano non smercia semplificazioni: diffonde il dubbio per le ricette facili, per il senso comune, per chi si accontenta di superficialità, dimostrando che l’eccellenza si coniuga immancabilmente con la presa in carico della complessità.

In ambito professionale il vero nemico dell’intelligenza non è la stupidità ma la resistenza al cambiamento, che si esprime nell’arroccamento nel tecnicismo e nelle certezze acquisite.

La disciplina in pratica

La storia occidentale della medicina illustra la necessità di conoscenza fondata. Nel Medioevo, quando il patrimonio culturale dei terapeuti era basato su teorie infondate, le cure producevano più danni che benefici, al punto che alle corti dei potenti venivano chiamati medici arabi e indiani, nonostante la loro scienza fosse appena più evoluta della nostra.

In ogni ambito professionale possiamo ormai contare su un patrimonio di conoscenze scientificamente fondate. Non è sempre facile però reperire le informazioni migliori e saperle leggere[3], per cui l’intelligenza comprende – ancora – la capacità di individuare le fonti autorevoli.

Accedere alle informazioni non basta. Occorre farle proprie tramite momenti di verifica, confronti con colleghi più esperti, i tutor. Non basta la partecipazione passiva a congressi o workshop: bisogna confrontarsi sulle prassi, sui casi, per poter mettere in dubbio le proprie convinzioni.

Le competenze umanistiche: dove la cultura arretra

La nostra civiltà divide le accademie tecniche da quelle umanistiche. Anche all’interno delle organizzazioni si distinguono i tecnici, come gli ingegneri o i medici, da chi si occupa di persone, di comunicazione, di soft skills.

Purtroppo, ove la materia è l’essere umano, i professionisti si affidano al senso comune e al copia/incolla. Non a caso chi si occupa di Marketing e di Risorse Umane fatica più degli ingegneri e degli scienziati ad ottenere credito.

Ove abbiamo a che fare con la psiche umana, le conoscenze sono indispensabili. Discipline come la negoziazione, la gestione delle riunioni, la selezione del personale beneficiano di una cultura basata su informazioni verificate.

Investire in cultura significa alzare il livello professionale, riducendo gli errori e le inefficienze.

Gestione della riunione: la mediocrità in vetrina

Per rendere comprensibile quanto sopra esposto esaminiamo la competenza “gestione della riunione”, immaginando una gaussiana che descriva la distribuzione del livello professionale.

Ad un estremo troviamo gli improvvisati che, senza consapevolezza degli ostacoli, dei ruoli e delle tecniche, generano interazioni inefficienti che solo casualmente portano a risultati apprezzabili.

Proseguendo verso la media abbiamo i maldestri che, per mancanza di attitudine o perché in possesso di conoscenze scarse, ottengono sporadici risultati. Si distinguono dagli improvvisati in quanto hanno una vaga consapevolezza relativa all’esistenza di ostacoli e strumenti, ma non ritengono di dover sviluppare una competenza evoluta.

Intorno alla media abbiamo i praticoni che, grazie alla frequentazione di corsi e a una certa attitudine, hanno sviluppato la capacità di gestire con destrezza alcune tecniche. Ad esempio generano presentazioni di buona qualità, presentano un’agenda, utilizzano tecniche evolute per comunicare all’aula. Soddisfatti del livello raggiunto, ripropongono nel tempo la medesima qualità, sicuri di essere sopra la media. Sviluppano alibi per giustificare gli insuccessi, comunque frequenti.

Procedendo verso l’estremo della gaussiana abbiamo il professionista eccellente, che ha un’approfondita conoscenza degli ostacoli più frequenti e delle pratiche più efficaci. Grazie alla competenza acquisita è in grado di comprendere quando e come utilizzare gli strumenti[4], collegando in modo appropriato cause ed effetti. Si distingue dal praticone in quanto è orientato al miglioramento continuo, ad esempio tramite la capitalizzazione delle esperienze, le cosiddette “lesson learned”. Nel tempo garantisce i risultati in quanto riduce tendenzialmente gli errori a zero.

Procedendo ulteriormente troviamo i fuoriclasse, che raggiungono un livello professionale fuori dalla norma. Alcuni di loro modificano le conoscenze, propongono nuove tecniche, innovano la strumentazione. La differenza con il professionista eccellente è probabilmente nel talento individuale, ove l’eccellenza professionale è invece accessibile a un gruppo molto più ampio. In particolare nelle soft skills la disciplina conta molto più del talento, per cui tutti possono orientarsi all’eccellenza, raggiungendo un livello professionale molto superiore alla media!

A livello organizzativo invece, ove la formazione sulla gestione della riunione viene ridotta, la cultura professionale ne risente e le riunioni diventano meno efficaci. L’impatto negativo sull’economia dell’impresa può essere maggiore di quanto normalmente si immagini.

Analogo discorso vale per un’altra materia trascurata: la selezione del personale, ove l’involuzione culturale sta generando danni alle persone, alle imprese, all’intero sistema economico.

Conclusioni: evoluzione culturale e livello professionale

L’eccellenza professionale necessita di talento, esperienza, conoscenze fondate.

L’intelligenza è la ricerca delle correlazioni tra cause ed effetti. Il praticone dimostra destrezza, ma non è sostenuto da una solida cultura, cosicché commette frequenti errori, soprattutto nell’affrontare i casi atipici.

Il segno caratteristico dell’eccellenza è la sicurezza del risultato.

La difesa della routine ostacola l’evoluzione culturale e spiega la percentuale rilevante di praticoni e mediocri in ogni ambito professionale.

La disciplina è la ricerca sistematica di riscontri al fine di verificare e approfondire la cultura professionale, intesa come patrimonio di conoscenze indispensabili per la pratica.

Gli ambiti umanistici del business necessitano di scienza e cultura in maggior misura rispetto alle discipline tecnico-ingegneristiche. Dove non si investe in cultura, la competenza professionale si deteriora e gli errori aumentano.

Il livello delle competenze gestionali e delle soft skills impatta sulla salute organizzativa[5]; ad esempio una cultura primitiva di gestione della riunione genera inefficienze rilevanti.

Note

[1] Heifez, Grashow, Linski, Leadership in Permanent Crisis, Harvard Business Review, July 2009, raccomandano ai manager: “find sanctuaries where you can reflect on events and regain perspective”.

[2] Louis Ferdinand Celine, La vita e l’opera di PI Semmelweis, Tesi di laurea pubblicata nel 1924.

[3] Gerd Gigerenzer, Quando i numeri ingannano. Imparare a vivere con l’incertezza, Edizioni Cortina, 2003.

[4] Tom Krattenmaker, Make Every Meeting Matter, Harward Management Review Newsletter, Dec. 2007.

[5] Steven Robbins, Seven Communication Mistakes Managers Make, Harward Management Review Newsletter, Feb. 2009.

 

Articolo a cura di Luigi Rigolio

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