La fidelizzazione delle Risorse aziendali: i rischi della confusione di ruoli
Non è una novità affermare che l’orientamento aziendale, da tempo, punta non solo alla fidelizzazione dei clienti bensì anche a quella delle Risorse umane operative all’interno dell’organizzazione; anzi, quest’ultima è la condizione che rende possibile la prima.
Fidelizzare le Risorse significa, in breve, far sì che le persone si leghino cognitivamente ed affettivamente all’Impresa in cui operano, e ciò al di là del fattore remunerativo, variabile certamente fondamentale (oggi più che mai) eppure, come Abraham Maslow già diceva qualche decennio fa, non unica ai fini di un’adeguata motivazione.
Proprio perché la fidelizzazione è un elemento fondante della vita aziendale, con profonde ricadute sul livello della performance individuale e di gruppo, è opportuno fare alcune riflessioni.
In genere, le attività fidelizzanti si riassumono in momenti aggregativi che coinvolgono gruppi di lavoro inter-aziendali o, in alcuni casi, l’intero staff: esempi classici a tal proposito sono le cene aziendali, oppure altri eventi che possono svolgersi sia all’interno della stessa organizzazione sia al suo esterno. Tra i primi, ad esempio, oggi è diffusa la foto di gruppo da postare sui social.
È opportuno però, come si diceva, fare alcune distinzioni: in primo luogo è bene non confondere simili attività con quei momenti orientati alla motivazione dei team di lavoro.
Certamente la motivazione della Risorsa poggia sulla sua fidelizzazione, la prima senza la seconda è improbabile se non addirittura impossibile, in ogni caso i due ambiti restano, e devono rimanere, distinti sotto il profilo dei contenuti, delle forme, degli obiettivi e, principalmente, delle aspettative manageriali. La cena aziendale, forse, fidelizza ma non è un fattore motivante. Che un imprenditore confonda i due ambiti e si illuda che un calo di produttività possa essere risolto con “più motivazione”, dunque “più uscite insieme” o più “foto di gruppo”, è estremamente deleterio; sia riguardo ai costi (proprio nel senso di quanto deve pagare per le cene o le interruzioni per organizzarsi/mettersi in posa/rifare lo scatto/riconcentrarsi sul lavoro) sia in merito ai rapporti interaziendali.
La fidelizzazione deve tendere a soddisfare, per dirla con Maslow, il bisogno di appartenenza/protezione di coloro che in azienda vivono e lavorano. O ancora, parafrasando l’Analisi Transazionale, alimenta e risolve l’istanza di riconoscimento che ogni essere umano possiede, che lo sappia o meno, che ci creda oppure no. Dunque, l’attività fidelizzante ha a che fare con apprezzamento e stima, ossia quei riconoscimenti che all’individuo arrivano dall’esterno e che contribuiscono a potenziare il suo senso di identità e su cui poggia, appunto, la spinta motivazionale.
L’attività motivazionale, dal briefing al colloqui face to face – qui si esclude ogni procedura basata su slogan/video/meeting in cui si esalti il mito “volere è potere!”, tanto caro ai motivatori di mestiere (sic) e ai form-attori -, tende invece a soddisfare e potenziare, sempre per utilizzare la terminologia maslowiana, l’istanza di auto-realizzazione e, perciò, favorisce la disponibilità della persona ad auto-stimarsi.
Nella prospettiva analitico-transazionale la fidelizzazione rende agevole che la risorsa si senta adeguata e valorizzata nei confronti dell’azienda. La motivazione fa sì, in più, che la stessa persona si percepisca soddisfatta nei riguardi di se stessa, con le sue istanze interiori, genitoriali e sociali.
Oltre questo, bisogna che il management tenga conto che le attività fidelizzanti includono inevitabilmente un rischio, riassumibile nella possibile e deleteria confusione dei ruoli. Immaginiamo una cena sociale: si sta in compagnia degli altri (altrimenti perché la si farebbe?), si mangia e si beve, si ride, si scherza, semmai si canta e si balla insieme (e già). Tutto bene, si direbbe. Tutto bene, aggiungiamo, se questa legittima ed auspicabile convivialità non alimenti, come accennato, uno sfilacciamento dei ruoli con possibili ricadute sui rapporti inter-aziendali.
Che questo non accada non dipende tanto dalle Risorse, quanto dal livello di consapevolezza del management in merito ad onori ed oneri connessi, appunto, al proprio ruolo all’interno della gerarchia aziendale: in poche parole, il leader (aziendale o di gruppo) deve tenere sempre ben presente che a tavola (o in gita, o mentre ci si fa il selfie da postare su facebook) egli/ella è e resta sempre leader. Che ogni suo gesto/parola, in quelle circostanze, è comunque il gesto/parola del leader. Che anche tra un bicchiere e l’altro, tra uno scatto e l’altro, tra un caffè e una fetta di dolce presi all’autogrill durante la sosta (si sta andando tutti insieme al mare per trascorrere un piacevole week-end premio), si comunica (verbalmente e non verbalmente) da guida carismatica.
Che vuol dire, allora, si domanderà il leader, che non posso mai rilassarmi?
Già, proprio così. Si è sempre leader. Cioè, si è sempre soli.
Il vero capo non è quello che guida il team verso la luce, orientato dalla mission e tutto ciò che prevede la retorica. Il vero leader è colei/colui che ha le spalle tanto forti da sostenere la cosiddetta solitudine del capo. Poi viene tutto il resto.
Se così non fosse, meglio cambiare mestiere. Per il bene proprio, del team e dell’azienda.
Articolo a cura di Alfonso Falanga
Formatore specializzato in Analisi Transazionale.