La formazione come volano per il miglioramento lavorativo
Meno identificata con la mansione e con i luoghi dove l’apprendimento si realizza, la formazione costituisce una categoria sintattica volta a dare soluzione a questioni di carattere non soltanto educativo, ma anche sociale, economico, culturale e politico[1]. La necessità di apprendere, peraltro, accompagna ogni persona per tutta la vita, perché l’evoluzione continua dello scenario del quotidiano la rende preziosa in quanto non serve solo ai diretti beneficiari, ma è un patrimonio sociale che contribuisce a determinare la qualità della vita di un paese e dei cittadini[2]. Da qui la necessità di passere da una formazione episodica e occasionale a una formazione permanente.
In un recente studio Gian Piero Quaglino[3] ha messo in luce l’istanza ineludibile di restituire centralità alle persone ampliando i tradizionali orizzonti delle pratiche dall’oggettività dei contenuti tecnici alle meta-competenze (o competenze strategiche) e ha delineato un manifesto della terza formazione tracciando una originale pista di riflessione, che ripensa in profondità l’idea che muove l’azione formativa: non più a partire dall’oggetto (come agire in modo nuovo), ma dal soggetto che si dispone a “muovere” la formazione. In altri termini, l’oggetto della formazione viene ridefinito a partire dal soggetto, ribaltando il tradizionale modo di prospettare soluzioni in vista di risolvere situazioni riconosciute insoddisfacenti.
Per Quaglino la terza formazione è la “scuola della vita”, intesa come “…spazio in cui ci si dovrebbe occupare di tutto ciò che ci è più vicino, che veramente ci riguarda, che più ci “sta a cuore”; come uno spazio in cui la nostra stessa vita possa essere pensata e ripensata per tutto ciò che cerca e vuole, attende e pretende, interroga e sfida, fatica e conquista”[4].
Così descritta la terza formazione si delinea come esperienza di apprendimento che, da un lato, tende a sviluppare la capacità della persona di riconoscere l’esperienza di vita come una pratica di formazione e di auto-formazione, mentre, dall’altro, restituisce alla formazione quel carattere imprevedibile e imponderabile, unico e irripetibile[5].
Più che di un’attività di somministrazione del “sapere” si parla, allora, di realizzazione di un’iniziativa finalizzata all’“agire”. Ritroviamo questa dicotomia nel pensiero di Kurt Lewin che, con il termine “action research” ha sintetizzato il processo qui considerato, che dall’analisi di un campo di esperienza da parte di un attore sociale introduce la pratica dei cambiamenti migliorativi [6].
Dal momento che la “action-research” presuppone una particolare attenzione alle dinamiche sociali e alle situazioni ambientali di contesto, essa si caratterizza per il coinvolgimento consapevole degli individui interessati; per questo Samà la descrive come “una metodologia di ricerca che mira a produrre conoscenza su un sistema sociale mentre, allo stesso tempo, si prova a cambiarlo. Connette l’approccio sperimentale e l’azione sociale come risposta ai principali problemi sociali[7]”. La “action-research”, quindi, si qualifica come una specifica modalità di ricerca scandita da una serie di fasi la cui successione non è in sequenza lineare e vanno a costituire le singole fasi del complesso processo che si fonda essenzialmente sulla valutazione.
Jean Neumann, riprendendo la formulazione di Kolb e Frohman (1970, cit. in J. Neumann 2007, p. 6), articola il ciclo della “action-research” nelle seguenti sei fasi:
- ‘scouting’ (esplorazione);
- ‘entry and contracting’ (ingresso e negoziazione);
- ‘diagnosis’ (diagnosi/analisi della situazione);
- ‘planning and negotiating interventions’ (pianificazione e negoziazione degli interventi);
- ‘taking action’ (agire);
- ‘critique’ (critica), a cui segue una fase di ‘evaluation’ (valutazione) atta a condurre a un altro ciclo di cambiamento.
Nella visione dell’autrice è molto importante avere una rappresentazione di tutto il ciclo di cambiamento fin dall’avvio, che indica un momento iniziale di esplorazione di solito molto caotico e caratterizzato dai primi contatti con l’organizzazione.
Affinché ciò si realizzi è necessario che il soggetto che svolge la ricerca condivida l’analisi della situazione con chi ha ruoli di ‘governo’ per decidere come procedere, pianificare le modalità di diffusione dei risultati; sostenere lo sviluppo del piano di intervento a partire dalla definizione condivisa di obiettivi e possibilità di intervento; cominciare a delineare i passi che comporranno tutto l’intervento.
Centrale è l’obiettivo di sviluppare un impegno degli attori organizzativi, a partire dalla restituzione dei risultati dell’analisi e dalle loro reazioni, che possono anche essere di resistenza all’intervento di cambiamento. Maggiore è la loro inclusione nei processi di valutazione, decisione e azione nel processo di cambiamento e rispetto alle azioni da intraprendere, minore sarà il rischio dell’emersione di resistenze.
La pedagogia italiana ha recepito la “ricerca-azione” in particolare con gli studi di Cesare Scurati, che ha rilevato quale caratteristica fondamentale di questo processo specifico dell’analisi sociale, culturale e antropologica la “circolarità”, per cui essa si genera attraverso l’azione e l’azione di cambiamento è frutto degli esiti della ricerca che, pertanto, si prospetta agente del miglioramento continuo[8].
Indicativamente il riferimento a una formazione “empowerment oriented” sembra soddisfare la condizione prospettata, assumendo tale concetto come idea-limite del “pensare” e “fare” formazione, che in una prospettiva psico-pedagogica riconosce la fiducia nello sviluppo delle risorse integrali della persona, nella responsabilità e nell’auto-direzione dell’apprendere, nella tolleranza verso la diversità, nella padronanza della propria vita e nella partecipazione democratica alle decisioni[9]. Vale a dire: nella capacità e nella possibilità del soggetto di modificare concretamente la realtà sul piano individuale, organizzativo e sociale.
Tanto, vieppiù, se si considerino gli esiti delle ricerche dei neuroscienziati che hanno dimostrato quanto l’abilità d’imparare non sia fissa, ma cambi con i propri sforzi e cresca in relazione alle sfide[10].
Gli studi nell’ambito delle neuroscienze, e in particolare quelli condotti da Dweck e Duckworth, rispettivamente della Università di Stanford, la prima, e di quella della Pennsylvania, la seconda, che dimostrano come nei processi di apprendimento proposti, in particolare agli adulti, la differenza non è tanto il talento delle persone quanto la loro la perseveranza nel volere raggiungere obiettivi a lungo termine. Ne consegue che come lo è proprio l’apprendimento il talento solo non basta poiché occorre che gli individui siano consapevoli che la capacità di imparare non è fissa, ma varia in misura inversamente proporzionale al talento naturale sicché proprio in sua mancanza viene allenata e rafforzata in relazione agli sforzi fatti per capire e apprendere qualcosa di nuovo: la “grinta” che Dwerck e il suo team di ricercatori definiscono con il concetto di mentalità di crescita, con cui si indica la disponibilità a imparare degli adulti che varia a seconda della determinazione e degli sforzi che occorrono per farlo: avendo come riferimento lo studio pubblicato da Lally[11] si può concludere che la “grinta” è la leva che rende operativo ogni processo di formazione.
Note
[1] BOCHICCHIO F., DI SABATO T., Apprendimento e cambiamento nelle organizzazioni, Libellula, Tricase, 2018.
[2] BOCHICCHIO F., DI SABATO T., Complessità organizzativa e risorse umane, Libellula, Tricase, 2011.
[3] Cfr. QUAGLINO G.P., La scuola della vita. Manifesto della terza formazione, Raffaello Cortina, Milano, 2010.
[4] Ivi, p. 14.
[5] Dal punto di vista teorico i principi della scuola della vita traggono ispirazione alla pedagogia introspettiva di Demetrio, dal significato di educazione inteso come costruzione di uno stato interiore profondo di Jung, dall’apprendere a vivere di Morin, confermando il carattere interdisciplinare di questo approccio, che intreccia campi di ricerca propri di tutte le scienze dell’educazione.
[6] Cfr. LEWIN K., I conflitti sociali, Milano, Franco Angeli, 1980 (ed. or. 1946)
[7] SAMÀ A. (a cura di), Spazi Pubblici per il lavoro. Una prospettiva per l’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati, Roma, Comunità Edizioni, 2007.
[8] Si veda ELLIOTT J., GIODAN A., SCURATI C., La ricerca – azione. Metodiche, strumenti, casi, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
[9] Cfr. PICCARDO C., Empowerment, Raffaello Cortina, Milano, 1995.
[10] In particolare gli studi condotti dalle dottoresse Dweck (DWECK C. S., Mindset. Cambiare forma mentis per raggiungere il successo, Milano, Franco Angelii, 2019) e Duckworth (DUCKORTH A., Grinta. Il potere della passione e della perseveranza, Giunti Psychometrics, 2017, rispettivamente, presso l’Università di Stanford e quella della Pennsylvania, dimostrano che a fare la differenza non è tanto il talento delle persone quanto la loro grinta, ossia quella perseveranza che aiuta a raggiungere obiettivi a lungo termine come lo è proprio l’apprendimento.
[11] PHILLIPPA L., VAN JAARSVELD C. H. M., POTTS H. W. W., WARDLE J., “How are habits formed: Modelling habit formation in the real world”, European Journal of Social Psychology Eur. J. Soc. Psychol.,40, 998–1009 (2010).
Articolo a cura di Vanessa De Giosa e Tommaso Di Sabato