La formula della meritocrazia

1. Significato del merito e sua funzione euristica

Etimologicamente il termine “meritocrazia”[1] deriva dal latino “meritum”, che significa “cosa meritata, mercede, ricompensa” (o anche dal verbo passivo “mereri”, ovverosia “azione per cui ne venga premio”), unito alla parola del greco antico “κράτος” (kràtos), ossia “forza, potere”.

Vuol significare: “potere (o forza) di chi ha compiuto qualcosa per cui ha meritato o che va premiato” e indica, per l’appunto, colui che è da ritenersi, secondo consueti e condivisi canoni sociali, “meritevole”.

Nella cultura occidentale, la meritocrazia è una idea che risale all’antico pensiero della filosofia greca. Già Platone (Πλάτων, 428/427 a.C.-348/347 a.C.), nel suo “La Repubblica” (IV sec. a.C.), teorizzava la formula del cd. “governo dei migliori” (in greco antico, il termine άριστοι, aristoi, sta per l’appunto per i “migliori”) e, quindi, delle persone in cui prevalesse la saggezza; infatti, per Platone, soltanto i migliori nelle scienze e nelle opere, saggi adepti allo studio della filosofia e della dialettica, potevano, a turno, assolvere correttamente al governo della polis.[2]

La meritocrazia ha trovato successivamente un punto fermo nel primo pensiero della scienza politica.

È Niccolò Machiavelli (1469-1527), nel suo De principatibus scritto nel 1513, al cap. XXIII, che ci rammenta quanto sia importante, per una proficua amministrazione della cosa pubblica, che il Principe, come qualsiasi altro uomo di governo, si circondi di uomini saggi, per cui: “uno principe prudente debbe tenere uno terzo modo, eleggendo nel suo stato uomini savi, e solo quelli debbe dare libero arbitrio a parlarli la verità, e di quelle cose sole che lui domanda e non d’altro; ma debbe domandarli d’ogni cosa, e le opinioni loro udire e dipoi deliberare da sé a suo modo”,[3] con questo sottolineando la necessità che la motivazione di ogni decisione politica sia imperniata su dati ed informazioni tecnicamente esatti prodotti da uomini saggi, che, quindi, oggi diremmo selezionati in base al merito.

Mirabili sono poi le parole del Machiavelli, nel capitolo XXI, a proposito di cosa un principe deve fare per guadagnarsi la migliore reputazione possibile tra i propri sudditi: “un principe deve mostrarsi amante delle virtù, dando ospitalità agli uomini d’ingegno e onorando quelli che eccellono in un’arte. In aggiunta, deve incoraggiare i suoi cittadini, perché esercitino con serenità le loro attività, nel campo del commercio, dell’agricoltura e in ogni altro ambito; e fare in modo che nessuno abbia timore di migliorare ciò che possiede per la paura che gli sia tolto, e che nessuno tema di aprire un’attività per paura delle tasse. Al contrario, deve offrire premi a chi voglia fare cose del genere e a chiunque pensi, in qualunque modo, di ingrandire la città o la condizione del principe”.[4]

In seguito, la concezione della meritocrazia approda ai valori liberali e democratici, introdotti dalla Rivoluzione francese.

L’art. 6 della Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen approvata dall’Assemblea Nazionale in data 26 agosto 1789 (e accettata da Re Luigi XVI il 5 ottobre per essere inserita, come preambolo, nella Carta costituzionale del 1791), dichiara solennemente che: “[…] Tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi [della legge], sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti”.[5]

Richiamata da diversi autori liberali,[6] ma anche di orientamento laburista, la necessità di premiare il merito individuale, indipendentemente dall’origine sociale o dalla condizione economica, è un concetto, che trapela nel pensiero occidentale, come metodo per generare sviluppo economico e garantire un’efficiente amministrazione dello Stato.[7]

Ma si deve all’intuizione del sociologo inglese laburista Michael D. Young (1915-2002) la divulgazione del termine di “meritocrazia”, nel libro in cui la teorizza, “The Rise of Meritocracy” (1958).[8]

Parlare di meritocrazia significa, dunque, in coerenza con il significato etimologico del termine (potere del merito), riferirsi a un peculiare principio di organizzazione, per il quale qualsiasi forma di promozione e di assegnazione di potere o, per meglio dire, di responsabilità viene affidata esclusivamente in base al merito, ossia alle capacità e competenze dell’individuo.

Young finisce però per darne un’accezione negativa, in quanto detta concezione, sviluppata in una società nella quale le élites, come spesso accade, diventano, a lungo andare, arroganti e sono completamente avulse dal sentire comune, ha come epilogo ultimo proprio la distruzione della stessa società.

Malgrado la originaria connotazione negativa, nel tempo la meritocrazia si è affermata nella sua attuale connotazione positiva, essendo dai più ritenuto il principio più valido per la costruzione ottimale di qualsivoglia comunità sociale, questo sia dal punto di vista politico-istituzionale, che economico-produttivo.

I sostenitori della meritocrazia argomentano nel senso che un sistema sociale meritocratico è complessivamente più giusto e sicuramente più efficiente degli altri criteri di selezione per i ruoli di responsabilità, come quello ereditario, nepotistico, consociativo e simili.[9]

La meritocrazia infatti propone di scartare le estrinseche discriminazioni esistenti tra le persone, fondate su criteri soggettivi arbitrari, quali il sesso, la razza, le origini sociali, l’ereditarietà, le raccomandazioni, et similia (disegualianze ingiuste), per optare invece in favore delle intrinseche differenziazioni umane basate su criteri oggettivi razionali, quali sono l’intelligenza, la cultura, il talento, l’inventiva (disegualianze giuste).

È però sicuramente vero che, nell’ambito del pensiero occidentale, la meritocrazia abbia di fatto comunque costituito il fattore trainante per lo sviluppo della cultura, della società e dell’economia, secondo canoni liberali e democratici.

La nozione di meritocrazia – spesso oggetto di critica – la si apprezza meglio sol che si passi ad esaminarne, con maggiore profondità di analisi, il dettaglio dei suoi elementi costitutivi, che possono essere sintetizzati – come vedremo di seguito – in una chiara formula matematica.

2. La formula della meritocrazia

La prima formula conosciuta, per descrivere l’espressione della meritocrazia, è quella presentata da Michael D. Young (1915-2002) ed è la seguente:

m = IQ + E

Dove “m” sta per merito, “IQ” sta per quoziente di intelligenza ed “E” sta per sforzo (o energia).

La formula è di tipo statico. Il merito è una mera sommatoria di fattori, riferiti al singolo individuo: l’intelligenza e l’impegno profuso (energia).

Niente di più è il merito individuale, se non la combinazione tra talento innato e energia impiegata nel lavoro, per realizzare al meglio le proprie capacità innate.

In ombra restano gli altri fattori, che invece – a nostro parere – spesso determinano le capacità individuali, caratterizzandole per la loro capacità di incidere con efficacia nella estrinsecazione dell’attività umana, prime tra tutte la cultura (il sapere) della persona, poi l’esperienza maturata sul campo.

Più recentemente, in un nostro più ampio studio, sui fondamenti della meritocrazia nel pensiero occidentale,[10] abbiamo cercato di valorizzare le quattro componenti del merito, compendiando tutti gli elementi o fattori nella seguente formula:

m = f (IQ, Cut, ex) + E

Questa formula è di tipo dinamico. Il merito è né più né meno che una funzione complessa, nella quale si combinano e integrano tre elementi (intelligenza, cultura ed esperienza), che poi si sommano al fattore chiave dell’impegno individuale (energia), senza il quale alcun’accezione meritocratica è in realtà possibile.

Il che vuol dire che semplicemente il merito è una combinazione vincente di più elementi o fattori. Certo l’intelligenza e l’impegno, come preconizzato da Young. Ma la prima non avrebbe senso, se non sviluppata mediante la cultura e l’esperienza, che invece la forgiano, per indi essere in concreto utilizzabile, con il proficuo impegno, laddove quest’ultimo sia posto con perseveranza.

Corrisponde a un’elementare osservazione come possano incontrarsi soggetti di umili mestieri, molto intelligenti e bravi nella loro arte, ma che non hanno sviluppato alcuna cultura. Mentre, è proprio l’intelligenza unita alla cultura a caratterizzare l’uomo saggio, in particolare se a questa si aggiunga l’esperienza.

Ingegno, cultura, esperienza e impegno: sono questi dunque le componenti fondamentali, che costituiscono, se attivate con costanza nel tempo, il merito di una persona. È quindi il prodotto di questi quattro fattori a determinarne il merito e le capacità di un individuo.

Per questo, l’apprezzamento, ossia la misura, di queste quattro qualità determina il grado di merito di un soggetto, sia in senso assoluto (nella generalità dei casi), sia in senso relativo (in confronto ad altri soggetti).

3. L’intelligenza (o talento innato)

Il primo elemento della formula del merito, che ne contraddistingue in modo indefettibile l’espressione, è l’intelligenza, che potremmo anche chiamare “talento innato”. Tra intelligenza e talento vi è una corrispondenza biunivoca: l’una implica l’altra e viceversa.

È vero che gli individui, alla nascita come uomini sono tutti uguali, meritevoli di pari opportunità, senza alcuna distinzione, ma è anche vero che gli uomini nel tempo rivelino un diverso grado di intelligenza e sensibilità rispetto all’apprendimento.

Al contrario, è pur vero come vi siano alcuni uomini refrattari all’apprendimento e allo studio, perché più propensi per altre attività.

V’è certo una base comune a tutti, in quanto il genere umano si contraddistingue di per sé come “animale intelligente”, rispetto a tutti gli altri esseri facenti parte del mondo animale, ma è comunque evidente che non vi sia alcun’uniformità di intelligenza tra tutti gli uomini. Vi sono alcuni più intelligenti e di talento, tali altri meno.

Non è certo meno stimabile, per il valore umano intrinseco che esprime, chi è meno intelligente di altri, perché, al par suo, è intelligente quanto gli basta, epperò non può esser negletto che, tra gli uomini, vi siano diverse abilità mentali e cognitive. Alcuni, grazie alla cultura e all’esperienza, riescono a meglio svilupparle, altri, senza o con meno cultura o esperienza, non vi riescono.

Ragion per cui, non può farsi a meno di considerare che la formula delle meritocrazia in primis si contraddistingua per l’intelligenza, come primo elemento fondante il merito individuale.

Va anche considerato che le scienze cognitive hanno dimostrato come esistano vari tipi di intelligenza. Ai nostri fini, importa tener presente che, in rapporto ai variabili tipi di lavoro considerabili, va valorizzato quel soggetto che prevale tra gli altri, perché in possesso di un livello di intelligenza, adeguato alla professione, a cui è chiamato, che spicca, perché è superiore alla media o mediocrità.

4. La cultura (o sapere)

Nella nuova formula, da noi proposta, accanto ai più consueti parametri dell’intelligenza (o del talento) e dell’energia, spicca la considerazione della “cultura” dell’individuo, il suo sapere.[11]

È stato osservato come: “La crescita dei gruppi professionali di esperti, consulenti e consiglieri, in una parola la dinamica della professionalizzazione, è un processo che riguarda ormai a tutti i livelli la società come lo Stato”.[12]

La cultura è fondamentale, perché è grazie a questa che l’intelligenza può esprimersi al meglio.

In sintesi, la cultura forgia l’intelligenza e consente a quest’ultima di potersi estrinsecare nelle attività umane di volta in volta considerabili in modo pieno.

Esistono due categorie di cultura. Entrambe giocano un ruolo essenziale per contraddistinguere il merito di un individuo. Difatti, nella formula indichiamo come la richiamata cultura (totale) sia in realtà la sommatoria tra la cultura generale (Cu1) e la cultura specialistica (Cu2). Insomma, scriviamo: Cut, = (Cu1) + (Cu2).

La cultura generale è quella che forma l’individuo per il suo curriculum di studi, che anche dopo la laurea si arricchisce di corsi e titoli di alta formazione e soprattutto di approfondimenti in qualunque modo delle nozioni già apprese, che da semplici nozioni (esterne) diventano la cultura (interna) della persona.

La cultura specialistica è quella aziendale o istituzionale, che si apprende grazie alla professione che si svolge. Fatta di corsi di specializzazione e di formazione mirata sul lavoro, al quale si è adibiti, contribuisce a connotare le abilità specialistiche della persona, che sa fare in concreto nella pratica – perché sa in astratto nella teoria – come sia meglio agire.

Consente questo tipo di cultura di poter agire in modo oculato, conoscendosi orbene tutta la teoria applicabile alla pratica.

Sono entrambe importanti e non si può in alcun modo dire che l’una sia più importante dell’altra, danno tutt’e due sostanza al sapere.

Di certo, può affermarsi che la cultura specialistica tal è se si innesta su una solida cultura generale, altrimenti finisce solo per “scimmiottare” una parvenza di cultura. Questo perché la cultura generale pone le radici, sulle quali si innesta il tronco costituito dalla cultura specialistica.

5. L’esperienza (o perizia)

L’esperienza (ex), è il saper fare, maturato nel tempo (e non per mera anzianità), mediante la quale l’individuo consolida le proprie abilità, frutto di intelligenza (o talento) e di cultura, e soprattutto attraverso l’intelligenza diventa financo saggio e esperto.

O per meglio dire, la persona che merita, quella che merita veramente, matura una singolare capacità di operare in modo ponderato, rispetto agli obiettivi da raggiungere, senza eccessi, ma con misura.

Predilige il saper fare bene, con giudizio, nell’unità di tempo di cui dispone. Piuttosto che far tutto e male, preferisce far il giusto e bene. Non agisce con ansia, ma con ponderazione. Non curandosi della pressione posta da altri, ma curando di far il meglio possibile, senza errare.

Ergo, l’esperienza insegna a vivere e lavorare, al meglio e all’altezza della propria intelligenza, preoccupandosi di non sprecarne in attività inutili e sviluppando una sensibilità propria, che guida nella direzione giusta qualsivoglia scelta difficile.

L’esperienza affina le proprie capacità, sviluppa l’acume dell’intelligenza, rende concreta i portati della cultura appresa, in poche parole conferisce sicurezza all’agire umano orientato al risultato, senza la commissione di troppi errori, ma perfezionando consapevolezza e precisione del proprio operato.

Parliamo ovviamente di “esperienza” e non già di “anzianità”. Quest’ultima può contrassegnare solo il passare del tempo e non dice nulla, sol che si è più vecchi in rapporto di altri. L’esperienza, invece, arricchisce, perché in una data unità di tempo, anche relativamente breve, l’individuo ha assommato una varietà di vissuti, che lo rendono più maturo e sicuro del proprio comportamento, riuscendo a divenire “esperto”.

Del fattore esperienza, quel che conta è la capacità di trasformare l’individuo in un professionista esperto (peritus).

6. L’impegno (o energia)

Fattore importante è anche l’impegno o energia profusa nel fare.[13]

Senza di esso – a ben vedere – a nulla servono intelligenza, cultura ed esperienza. Rimarrebbero chiuse in se stesse, non si svilupperebbero, bensì regredirebbero con il trascorrere del tempo.

L’impegno invece apre i talenti innati e le abilità acquisite dall’individuo, che in tal modo può ben dimostrare ciò che vale.

Attraverso il fattore dell’impegno (o energia), gli elementi dell’intelligenza, della cultura e della esperienza si attivano e possono consentire alla persona di operare con misura e capacità di finalizzare la propria azione verso gli obiettivi voluti.

L’uomo che merita sa come unire le proprie doti di intelligenza e la cultura e l’esperienza, che possiede, con l’energia necessaria per realizzare il proprio pensiero in azioni concrete.

Senza impegno nulla è possibile. Intelligenza, cultura e esperienza restano ferme, immobili. Non possono esprimersi. Al contrario, attraverso l’impiego dell’energia, i tre elementi del merito si attivano e possono, a loro volta, autoalimentarsi, consentendo alla persona di agire, in modo ponderato per raggiungere gli obiettivi voluti.

L’impegno va però dosato, non deve essere modesto, ma neanche smodato. Poiché un impegno al di sotto delle ragionevoli capacità mantiene i tre elementi del merito inespressi, facendoli regredire; mentre, un impegno al di sopra delle capacità logora questi tre elementi, consumandone le potenzialità e non consentendo il loro costante sviluppo.

Un’ultima considerazione: l’impegno smodato finisce per distruggere la capacità di sviluppo della persona, perché non avviene la naturale sedimentazione delle ulteriori abilità, che è possibile acquisire nel tempo e che ha bisogno di tempo. Anzi, il sovra-impegno concentra l’attenzione solo sul fare, senza che sia possibile introitare esperienza né sviluppare cultura specialistica, finendo indi l’intelligenza per essere sottoposta a stress, in grado di far commettere errori.

7. Conclusioni

Per Joseph Schumpeter (1883-1950), economista tra i maggiori del passato XX secolo, sono in particolare le innovazioni tecnologiche a dare l’avvio ed a sostenere i cicli economici virtuosi.[14]

Il capitalismo, quindi, si impernia essenzialmente su un processo di miglioramento continuo, basato soprattutto sull’innovazione tecnologica, attraverso fasi in cui emergono strutture nuove e quelle obsolete vengono eliminate.

Per Schumpeter, gli artefici dello sviluppo economico sono gli uomini d’ingegno, ossia quelli fatti avanzare per merito.[15]

Per questo motivo, l’innovazione tecnologica è possibile e le fasi espansive del ciclo economico si realizzano solo se alla base ci sono processi di selezione delle classi dirigenti (e di leadership) di tipo meritocratico, altrimenti la società scivola verso il basso e si consolida nella depressione economica.

La società sviluppata, in crescita economica, è quella che dunque fa della meritocrazia il suo focus fondamentale. Il che vuol semplicemente dire che il ciclo economico in espansione non può far a meno dell’implementazione di modelli meritocratici nella gestione delle relazioni istituzionali, sociali ed economiche.

La formula della meritocrazia da noi proposta dimostra molto chiaramente che solo l’individuo di talento, colto e d’esperienza, che si muova con la giusta energia, merita quel che ottiene e vuole.

La sommatoria dei risultati di vertice raggiunti da pochi individui di merito determina poi lo sviluppo d’insieme di una comunità. Non certo la sommatoria dei risultati mediani espressi dalla mediocrità di molti individui, che semmai ne costituiscono il mero contorno.

La sostanza dell’economia e il suo formante giuridico vanno dunque posti, secondo le opportune logiche di valorizzazione degli individui più adatti allo scopo.

Vilfredo Pareto ci ha dimostrato come sia davvero di vitale importanza, per la classe dirigente (o élite), che ai luoghi di responsabilità venga preposto solo chi sia adatto alla funzione da svolgere, premiando il merito della persona, talché la società tende (o dovrebbe tendere) a essere guidata dalla parte migliore della comunità.[16]

Laddove ciò non accada, ossia le istituzioni che governano la comunità non siano inclusive degli individui migliori – come sempre ci ha edotto Pareto[17] – vengono dunque a generarsi pericolosi sommovimenti, anche violenti, che finiscono per sovvertire l’ordine costituito.

Orbene, possiamo considerare che, nelle relazioni socio-economiche, relative all’impresa, e nelle relazioni politico-istituzionali, relative al governo della Res publica e all’amministrazione, non può farsi a meno della meritocrazia.

In tal modo, possiamo indi comprendere come le chiavi di apertura al progresso di una comunità, di un insieme di persone, di uno Stato, abbisogna di individui d’ingegno, premiati per il loro merito, che potranno mettere a disposizione di tutti, se a tanto incentivati dal sistema democratico, le proprie capacità.

Per chiudere al progresso, basta gettare simili chiavi, o permettere che altri se ne approprino!

 

Note

[1] Per il vocabolario Treccani: “meritocrazìa s. f. [dall’ingl. meritocracy, comp. del lat. meritum «merito» e –cracy «-crazia»]. – Concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, e spec. le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli, ossia a coloro che mostrano di possedere in maggior misura intelligenza e capacità naturali, oltreché di impegnarsi nello studio e nel lavoro; il termine, coniato negli Stati Uniti, è stato introdotto in Italia negli anni Settanta con riferimento a sistemi di valutazione scolastica basati sul merito (ma ritenuti tali da discriminare chi non provenga da un ambiente familiare adeguato) e alla tendenza a premiare, nel mondo del lavoro, chi si distingua per impegno e capacità nei confronti di altri, ai quali sarebbe negato in qualche modo il diritto al lavoro e a un reddito dignitoso. Altri hanno invece usato il termine con connotazione positiva, intendendo la concezione meritocratica come una valida alternativa sia alle possibili degenerazioni dell’egualitarismo sia alla diffusione di sistemi clientelari nell’assegnazione dei posti di responsabilità”.

[2] Cfr. amplius Platone, La Repubblica (390-360 a.C.), Bur-Rizzoli, Milano, IV ed., 2013, in part. p. 921-923, il quale afferma che: “[…] coloro che avranno superato tutte le prove mostrandosi in ogni caso i migliori – sia nelle opere sia nelle scienze – saranno ormai avviati al fine ultimo […], li si obbligherà a turno, per il resto della loro vita, a ordinare la città, i privati cittadini, se stessi, trascorrendo la più gran parte del tempo nella filosofia, pronti però quando sia giunto il turno di ognuno, ad affrontare i travagli della politica e l’esercizio del potere nell’interesse della città, non perché considerino il potere come cosa bella, ma come un compito necessario; infine, dopo aver educati sempre nuovi uomini simili a sé, destinati a sostituirli nella difesa della città, se ne andranno ad abitare nelle isole dei Beati. La città dedicherà loro monumenti e sacrifici pubblici […]”.

[3] N. Machiavelli, Il Principe (1513), Donzelli, Roma, 2013 (edizione con riscrittura in italiano moderno), p. 278 (N.B.: in questa citazione si è preferito riportare il testo originario antico di facile comprensione).

[4] N. Machiavelli, Il Principe, cit., p. 273 (N.B.: viene riportato il testo “tradotto”).

[5] Ricordano, più recentemente, il principio della valorizzazione dei talenti posto dalla Rivoluzione francese: S. Cassese, L’ideale di una buona amministrazione. Il principio del merito e la stabilità degli impiegati, Edit. Scientifica, Napoli, 2007, in part. p. 22 e M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, il Mulino, Bologna, 2013, p. 389. Amplius: B.G. Mattarella, Il principio del merito, in M. Renna – F. Saitta, (a cura di) Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2012, p. 149 ss.

[6] J. Stuart Mill, Sulla liberta (1869), Bompiani, Milano, 2015, p. 205-207, nel difendere strenuamente l’importanza dello sviluppo dell’individualità per il progresso umano, ha sostenuto: “Nessuno vorrà negare che l’originalità sia un elemento prezioso della vita degli uomini. C’è sempre bisogno di individui originali, non solo per scoprire nuove verità […], ma anche per avviare nuove forme di condotta e per dare l’esempio di comportamenti più illuminati […]. Sono poche le persone i cui esperimenti, se adottati dagli altri, potrebbero costituire un miglioramento rispetto alle forme di condotta abituali. Ma queste poche persone sono il sale della terra; senza di loro la vita umana diventerebbe una palude. Sono loro che non soltanto introducono elementi validi prima inesistenti, ma mantengono vitale quanto di valido già esistente […]. Le persone di genio, è vero, sono e probabilmente saranno sempre una piccola minoranza: ma per averli è necessario preservare il suolo sul quale crescono”.

[7] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905), Bur, Milano, XVI ed., 2007, in part. p. 76-77: “Il guadagno di denaro – se ha luogo legalmente – all’interno dell’organizzazione economica moderna è il risultato e l’espressione dell’abilità nella professione [beruf], e […] questa abilità è veramente l’alfa e l’omega […]. In effetti, quell’idea peculiare del dovere professionale, che oggi è così corrente eppure è tanto poco ovvia […], l’idea di un dovere che l’individuo deve sentire e sente nei confronti del contenuto della sua attività “professionale”, quale che possa essere […], è caratteristica dell’ “etica sociale” della civiltà capitalistica, anzi in un certo senso ha per essa un significato costitutivo”.

[8] Cfr. M.D. Young, The Rise of Meritocracy (1958), London, Penguin Books, 1961.

[9] Amplius L. Ieva, Fondamenti di meritocrazia, Europa edizioni, Roma, 2018.

[10] L. Ieva, Fondamenti di meritocrazia, Europa edizioni, Roma, 2018.

[11] N. Stehr, (voce) Sapere, in Enc. scienze sociali, vol. VII, Treccani, Roma, 1997, p. 598 ss e, in part., p. 600. Ricorda ancora l’autore (p. 603): “Nell’epoca moderna […] la scienza e la tecnologia sono diventate uno dei principali settori di investimento per il capitale sia pubblico che privato […]. La scienza può essere considerata l’unica istituzione della società moderna che nel corso del suo sviluppo ha acquistato sempre nuove funzioni senza peraltro perdere, devolvendole ad altri settori della società, quelle che assolveva in passato”.

[12] P.P. Portinaro, (voce) Tecnocrazia, in Enc. scienze sociali, vol. VIII, Treccani, Roma, 1998, p. 531 ss e, in part., p. 537. Continua l’autore in part. a p. 532: “la tecnocrazia non è però il prodotto di un’autonoma appropriazione del potere da parte dei tecnici, quanto piuttosto il risultato di un’abdicazione del potere da parte dei politici, incapaci di gestire determinate emergenze”; continua il nostro autore: “la tecnocrazia è un’aristocrazia […]; essa è una meritocrazia, cioè una forma di potere basata su procedure rigorose di accertamento e di valorizzazione di qualità direttive che si contrappongono in linea di principio alla selezione fondata sul consenso dei molti. La democrazia è “governo dell’opinione”, la tecnocrazia è “governo del sapere””.

[13] M. Weber, in Storia economica (1923), Donzelli, Roma, 2007, in part. p. 269: “[…] il calvinismo […] riteneva piuttosto che contribuire a sottoporre il mondo a un ordine razionale fosse il compito religioso di ogni singolo. Da questo sistema di pensiero deriva il termine beruf, vocazione e professione, che conoscono solo le lingue influenzate dalla traduzione protestante della Bibbia. Esso esprime il valore dato all’impegno razionale nel lavoro e quindi anche all’attività capitalistica acquisitiva come adempimento di un compito voluto da Dio”.

[14] J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico (1912), Rizzoli Etas, Milano, 2013, p. 239: “l’ “introduzione di nuove combinazioni” è difficile e accessibile solo a persone di particolare capacità […]. Solo poche persone hanno queste doti di “leadership” e solo poche possono avere successo in questa direzione in una situazione che non sia già di “boom””.

[15] Rammenta Alexis de Tocqueville, La democrazia in America (1835-1840), Einaudi, Torino, 2006, p. 7: “Istruire la democrazia, ravvivare, se possibile, le idee, purificare i costumi, regolarne i movimenti, sostituire a poco a poco la scienza dei pubblici affari all’inesperienza, la conoscenza dei suoi reali interessi al cieco istinto, adattare il suo governo ai tempi e ai luoghi, modificarlo secondo le circostanze e gli uomini: questo è il primo dovere imposto ai nostri giorni a coloro che dirigono la società”.

[16] V. Pareto, Manuale di economia politica (1906), Egea, Milano, 2006, in part. p. 95, ove osserva: “[…] si può distinguere in una società la parte eletta o aristocratica, nel senso etimologico (ἄριστος – migliore), e una parte volgare; ma occorre sempre tenere presente che si passa dall’una all’altra per gradi insensibili […]. Ove poi si considerino quel complesso di qualità che favoriscono il prosperare e il dominare in una società, si ha ciò che diremo semplicemente aristocrazia o parte eletta. Tale parte esiste veramente in ogni società, e la governa, anche quando apparentemente il reggimento è quello della più larga democrazia”, tuttavia: “[…] quelle aristocrazie non durano, ma si rinnovano continuamente; ed ha luogo, per tal modo, un fenomeno a cui si può dare il nome di circolazione delle aristocrazie”, per cui (cfr. p. 302): “La storia della società umana è, in gran parte, la storia dell’avvicendarsi di aristocrazie”.

[17] V. Pareto, Manuale di economia politica, cit., in part. 305-306, il quale osserva: “Nell’economia sociale […] Quando negli strati inferiori si sono accumulati elementi attivi, energici, intelligenti; e quando invece gli strati superiori sono inquinati da soverchia proporzione di elementi decaduti accade improvvisamente una rivoluzione, che sostituisce una aristocrazia ad un’altra. […] Tali rivoluzioni violente possono essere sostituite da infiltrazioni per le quali gli elementi scelti salgono, gli scadenti scendono. Quel movimento esiste quasi sempre, ma può essere più o meno intenso; ed è da quella diversa intensità che ha origine l’accumularsi, o il non accumularsi, di elementi decaduti negli strati superiori, di elementi eletti negli strati inferiori. Perché il movimento sia sufficiente ad impedire che l’accumulazione abbia luogo, non basta che la legge permetta il movimento, che non ci ponga ostacoli di nessun genere […]; ma occorre anche che le circostanze siano tali che il movimento possibile diventi reale”.

Bibliografia

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  • [1869] Stuart Mill, Sulla liberta, Bompiani, Milano, ed. 2015.
  • [1904-1905] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Bur-Rizzoli, Milano, XVI ed. 2007.
  • [1906] V. Pareto, Manuale di economia politica, Egea, Milano, ed. 2006.
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  • [1998] P.P. Portinaro, (voce) Tecnocrazia, in scienze sociali, vol. VIII, Treccani, Roma, 1998, p. 531-
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  • [2012] B.G. Mattarella, Il principio del merito, in Renna – F. Saitta, (a cura di) Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2012, p. 149 ss
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  • [2018] L. Ieva, Fondamenti di meritocrazia, Europa edizioni, Roma, 2018.

 

Articolo a cura di Lorenzo Ieva

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Magistrato T.A.R. (già dirigente pubblico)
Dottore di ricerca in diritto pubblico dell’economia

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