La gestione delle ferie nel rapporto dirigenziale

La qualifica dirigenziale comporta la titolarità di una serie di poteri e prerogative specifiche, generalmente connesse a maggiori responsabilità e minori tutele normative, le quali dovrebbero ritenersi compensate dai significativi trattamenti e benefici economici, graduati in ragione della specifica posizione gerarchica nell’organigramma aziendale.

Vi sono però alcune zone d’ombra, le quali determinano problemi interpretativi nell’ambito della concreta gestione del rapporto di lavoro. Un caso emblematico è rappresentato dalle questioni relative al potere di autodeterminazione delle ferie eventualmente spettante al dirigente.

Questo articolo si pone in linea con quello precedente, apparso su questa Rivista, relativo ai limiti di orario per il personale dirigente.

Nell’esame della tematica in oggetto, conviene infatti muovere ancora dalla disciplina di cui al d.lgs. 66/2003 (orario di lavoro), art. 10, per contestualizzare appieno le problematiche sottese all’istituto delle ferie quando il lavoratore interessato è un dirigente. La norma in esame dispone: “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 2109 del codice civile [determinazione del periodo di godimento delle ferie, da stabilirsi “nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi” del lavoratore], il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva … va goduto per almeno due settimane consecutive, in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione”.

….

Il predetto periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro”.

Il periodo di ferie spettanti è, generalmente, da fruire in una o più soluzioni, secondo le previsioni contrattuali collettive, da leggersi, peraltro, in armonia e in subordine alle regole più restrittive e precise risultanti dall’art. 10, d.lgs. 66/2003. Al riguardo si prospetta, in astratto, la generale problematica attinente alle modalità – consensuali o meno – di determinazione del periodo, con le particolarità riguardanti la considerazione della figura del dirigente nell’organizzazione aziendale: si devono, comunque, escludere le soluzioni opposte dell’eccessivo frazionamento, tale da snaturare la funzione dell’istituto, e dell’incondizionato accorpamento, salvo sempre il rispetto delle regole di cui alla norma suddetta, la quale identifica una duplice macro area che individua due periodi, diversamente disciplinati, riferiti

  • al “corso dell’anno di maturazione”, nonché
  • ai “18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione”.

Al dirigente può, peraltro, essere anche attribuita la facoltà di autodeterminazione delle ferie; valgono, in proposito, gli stessi surriferiti criteri relativi all’ipotesi di determinazione del periodo feriale da parte dell’azienda, configurandosi, in tal modo, un articolato quadro normativo e contrattuale di riferimento che vede operare la sfera di attrazione della normativa di cui al decreto 66/2003 con il contenuto precettivo dell’art. 2109 cod. civ., nella parte specifica in cui disciplina gli aspetti dell’istituto residualmente applicabili dopo il decreto legislativo in parola. In questo senso, come ben noto, considerato oltremodo che l’art. 2109 è fatto salvo esplicitamente dall’art. 10 del decreto 66/2003, la norma codicistica continua a disciplinare gli aspetti strettamente procedurali riguardanti, appunto, la collocazione del periodo feriale e la relativa indicazione/comunicazione al personale dipendente (prerogative dell’imprenditore).

La facoltà suddetta di autodeterminazione del periodo di godimento delle ferie, oltre che essere attribuita al dirigente, può essere verosimilmente ritenuta quale parte integrante della somma di poteri e prerogative che contraddistinguono tale qualifica, in ragione dell’inserimento nella gerarchia aziendale, in misura sempre più ampia in relazione al grado della dirigenza, facendo riferimento alla nota tripartizione – secondo concetti e principi cari alle discipline dell’organizzazione aziendale – tra dirigenti di vertice (e/o apicali), dirigenti intermedi, dirigenti minori (cc.dd. mini-dirigenti).

Comunque si voglia inquadrare ed analizzare la questione, resta evidente, nella realtà quotidiana, una percepibile e marcata differenza tra la posizione di un dirigente apicale, quale è certamente il Direttore Generale, ad esempio, e quella di un dirigente che trova al di sopra della sua posizione il suddetto Direttore Generale o, diversamente, un dirigente a sua volta in contatto con il D.G.: l’esempio potrebbe essere trasposto alle organizzazioni complesse che, già in sede di contrattazione collettiva, e, dunque, anche ed in parte secondo una visuale precostituita degli scenari socio economici dell’azienda-tipo del relativo settore, presentano gradi diversi di dirigenza, con un valore altrettanto rigido, sia nei poteri che nella carriera e nel riporto diretto o mediato, a seconda del caso, agli organi gestori (Amministratore Delegato, Comitato Esecutivo, Consiglio di Amministrazione, nella strutturazione classica). Un esempio di tali previsioni contrattuali lo si rinviene nei contratti collettivi dei settori credito e assicurazioni, che impongono, sotto un certo puto di vista, la strutturazione dei poteri e, soprattutto, dei riporti all’interno della singola impresa, questo normalmente, anche secondo il contratto integrativo.

In ogni caso, per tornare al tema centrale di questo intervento, fermo quanto appena detto, al caso di espressa attribuzione di poteri relativi alla gestione dell’equilibrio tra tempo di lavoro e tempo di riposo, soprattutto per ferie, deve aggiungersi quello, tutt’altro che infrequente, nel quale tale potere è strutturalmente innestato nella specifica ed individuale posizione dirigenziale, cosa che sarà verificabile nel caso del dirigente apicale e dei dirigenti che, comunque, per la loro indiscutibile posizione, si trovano nella condizione di non dover rendere conto dettagliatamente delle loro decisioni personali in tema di ferie, il che potrà verificarsi anche nelle piccole o medie realtà imprenditoriali, dove il dirigente ha, per così dire, l’azienda quasi interamente nelle proprie mani ed è certamente in grado di decidere responsabilmente se sia il caso di assentarsi per un periodo di ferie, organizzando opportunamente tutte le cautele necessarie al regolare funzionamento dell’organizzazione in sua assenza (ad esempio, deleghe, incarichi ad interim, etc.).

Secondo la giurisprudenza consolidata, il dirigente che, pur potendo determinare autonomamente il periodo delle ferie non si avvale di questa possibilità, perde il diritto all’indennità per mancato godimento delle ferie, a meno che non dimostri la ricorrenza di eccezionali e obiettive necessità aziendali ostative a tale godimento (v., tra le tante, Cass. 12226/2006; Cass. 11786/2005; Cass. 11936/2005; Cass. 15749/2002).

Spetta, in ogni caso, al dirigente provare di non aver goduto di un adeguato periodo di ferie, nonché il preciso ammontare delle stesse.

Fin qui i termini della questione in generale e dell’allineamento, anche da parte della giurisprudenza più recente, a quella prima citata (Cfr., per il pubblico impiego, pur con le dovute differenze, l’affermazione del principio in Cons. Stato, sez. III, 2798/2012). Senonché proprio quest’ultima giurisprudenza, pur richiamando i precedenti suddetti e trascrivendo – letteralmente, ma parzialmente – il principio di diritto in parola, aggiunge una precisazione densa di significato: si tratta di Cass. 13953/2009, secondo cui, in tema di rapporto di lavoro dirigenziale, “non spetta a tutti i dirigenti, in quanto tali, la piena autonomia decisionale nella determinazione del se e quando godere delle ferie, non potendo presumersi il contrario in forza del principio per cui il dirigente che, pur avendo il potere di attribuirsi il periodo di ferie senza alcuna ingerenza del datore di lavoro, non eserciti il potere medesimo e non usufruisca quindi del periodo di riposo annuale, non ha il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute”, a meno che non provi la ricorrenza di necessità aziendali assolutamente eccezionali ed obiettive ostative alla suddetta fruizione. L’inciso evidenziato nella trascrizione della massima ufficiale, fa presumere che dall’apparente, relativo identico principio possa estrapolarsi la possibile esistenza di situazioni concrete nelle quali ai dirigenti “in quanto tali” possa non spettare il potere di autodeterminazione, dovendosi conseguentemente argomentare da tale pur sintetico passaggio che la presunzione di spettanza del potere di autodeterminazione delle ferie per il dirigente non è assoluta, ma, semmai, relativa, potendosi, dunque, prospettare la figura del dirigente privo di tale prerogativa. Il che, detto in altri termini, comporta la connessa deduzione logica che, oltre alla prospettazione delle “eccezionali e obiettive necessità aziendali ostative” al godimento delle ferie, richiamate ormai stancamente dalla giurisprudenza, è possibile ipotizzare una controdeduzione specifica al principio giurisprudenziale imperante che opera alla radice della questione, comportando una previa analisi sulla esistenza o meno del potere di autodeterminazione delle ferie. Il che equivale a scindere il relativo lavoro di analisi nella seguente e schematizzata sequenza:

  1. preliminare verifica in concreto dell’esistenza, in capo al dirigente, di un reale ed effettivo potere di autodeterminazione del periodo di godimento delle ferie;
  2. accertamento relativo al godimento – o al mancato godimento – delle ferie da parte del dirigente;
  3. in caso di accertato, mancato godimento, ricerca dei motivi;
  4. analisi dei motivi e qualificazione degli stessi come dovuti e/o connessi ad oggettive necessità aziendali.

La differenza di impostazione, all’evidenza, prospetta un ambito di analisi più flessibile di quello offerto dalla sintetica riproposizione della massima che si trascina da qualche decennio e permette, all’interno della dialettica processuale, salvi i principi e le regole sull’onere probatorio, la possibilità di un confronto su piani paritari.

D’altro canto, uno spunto interessante viene da un’altra decisione (Cass., ss.uu., 9146/2009), riguardante la contrattazione dell’area dirigenza medica e veterinaria, che dispone – interpretando una specifica clausola contrattuale e puntualizzando al riguardo – che la stessa va intesa “in modo conforme al principio di irrinunciabilità delle ferie” ex art. 36 Cost. e, conseguentemente, si applica solo nei confronti dei dirigenti titolari del potere di attribuirsi il periodo di ferie senza ingerenza da parte del datore di lavoro, ma “non anche nei confronti dei dipendenti con qualifica dirigenziale privi di tale potere” (Cfr., altresì, sul punto, più in generale, Cass. 6228/2009).

A cura di: Pasquale Dui

Profilo Autore

Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista

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