La “paga” degli executive. Tagliarla? Una questione vecchia ma sempre attuale.
La retribuzione, si sa, influenza motivazione e performance degli individui. E’ del tutto evidente allora il rilievo che ha quella riconosciuta a chi guida le imprese. In effetti, stabilire il compensation package di leader ed executive è decisione assai delicata. Le sue implicazioni sono numerose; la remunerazione dei top manager (total remuneration), infatti, produce effetti molteplici e in più direzioni. Un pacchetto non competitivo, per esempio, non riuscirà ad attrarre, trattenere e motivare adeguatamente i top manager dal cui contributo dipende, secondo alcuni, gran parte della performance e del successo aziendale. D’altro canto, retribuzioni troppo elevate possono essere percepite ingiuste dai lavoratori e dalla società civile, influenzando negativamente la reputazione dell’impresa e quella dei leader che le percepiscono. Incentivi troppo alti, inoltre, potrebbero stimolare eccessivamente comportamenti opportunistici e di breve termine degli executive, distraendoli dalla cura degli interessi di lungo periodo dell’impresa e dalla ricerca del bene comune.
Equità o mercato?
E’ pur vero però, sostengono altri, che non bisognerebbe prestare eccessiva attenzione ai profili di equità organizzativa prima richiamati. Piuttosto, sarebbe bene comprendere a fondo le dinamiche che interessano quel particolare mercato del lavoro che, regolando la domanda e l’offerta di questi talenti manageriali, ne determina anche il loro “prezzo”. Evidentemente, è un prezzo difficile da determinare perché le variabili in gioco sono tante. E anche le questioni che pongono. Per esempio, il mercato è il luogo esclusivo cui far riferimento per determinare la ricompensa di questi leader? Inoltre, i riferimenti di mercato sono più adeguati per regolare la retribuzione fissa o anche la variabile e le sue diverse componenti? Quanto deve pesare
piuttosto il contesto specifico dell’impresa? Alcuni, infatti, sostengono che per la natura delle responsabilità loro affidate, la remunerazione degli executive dovrebbe soprattutto essere legata alla performance dell’impresa, valutata in ragione del raggiungimento degli obiettivi strategici degli azionisti. Questione non di poco conto, considerando lo scarso successo ottenuto da quanti sostengono sia possibile far conto su collegamenti certi e affidabili tra retribuzione/incentivi dei top manager e i risultati dell’impresa. Sta di fatto che si è andata consolidando nel tempo l’idea secondo la quale l’executive compensation debba avere proprie regole, svincolate dalle altre che indirizzano le politiche retributive dei lavoratori. Si è andato rafforzando così quel particolare sistema di governance che presidia il processo complesso e articolato al termine del quale si giunge a determinare il pacchetto della remunerazione totale (componenti retributive e non retributive) riservato ai top manager. Per tali motivi, sono in molti a gettare acqua sul fuoco dei “differenziali retributivi” (della loro dimensione e sostenibilità) tra lo stipendio di un CEO e quello medio dei collaboratori dell’impresa. Insomma, si dice, lasciamo fare ai capi azienda il loro mestiere e non preoccupiamoci troppo di quello che la gente (società, dipendenti) può pensare dei loro alti guadagni.
I dipendenti invidiano la retribuzione del loro CEO?
D’altra parte, alcune ricerche come quelle realizzate da Alexander Pepper mostrano che gli individui sono più propensi a valutare l’adeguatezza della propria retribuzione confrontandola con quella dei colleghi, piuttosto che misurarla guardando “verso l’alto”. Come dire che l’invidia ha un movimento più orizzontale che verticale. La retribuzione insomma non è valutata in assoluto, ma la ponderiamo usando lenti che indirizzano la nostra attenzione a confrontare il trattamento riservatoci con quello dei nostri pari (peer). In effetti, a pensarci bene, perché i lavoratori di un’impresa dovrebbero poi essere così interessati a quanto guadagnano i loro capi e non piuttosto preoccupati del benessere proprio e di quello dell’azienda in cui lavorano?
I lavoratori a chi guardano?
A questa domanda potremmo rispondere che gli individui sono spinti dalla passione per il proprio utile (self-interest) e vedono così l’altro con le lenti della concorrenza che lo trasformano in rivale, la persona con cui lottare nell’arena competitiva. L’altro però è anche un “modello” da imitare. Come ha fatto a diventare quello che è, ci domandiamo, attirando su di sé l’attenzione e lo sguardo ammirato di tutti? Cosa mi manca per essere così e come posso fare per guadagnarmi anche io la scena verso cui attrarre l’altrui ammirazione? Le ricerche ci aiutano a illuminare questa dimensione umana ricorrendo all’idea della dinamica mimetica analizzata da René Girard, secondo la quale gli altri possono anche trasformarsi in fonti di emulazione. In effetti, noi guardiamo l’altro perché interessati a raggiungere i suoi stessi traguardi, consapevoli che costituiscono fonte di ammirazione da parte degli altri. Perché in verità, quello che a noi interessa davvero è “contare” davanti agli occhi altrui, essere ammirati e desiderati; quando capiamo che l’altro ha quello che tutti guardano con ammirazione, vogliamo essere anche noi così e possedere quello che l’altro ha. Vogliamo allora scalare posizioni e raggiungere la ricchezza, ma soprattutto è il prestigio sociale tanto ammirato il nostro vero obiettivo. Adam Smith, nella Teoria dei sentimenti morali, chiama questo più autentico nostro interesse self-love, ossia vanità. Un sentimento che può far nascere, se mal controllato, anche la “passione triste” dell’invidia come la chiama Elena Pulcini. L’invidia però “è una passione che insorge solo tra simili e in situazione di commensurabilità”.
Possiamo nasconderci dietro un dito?
La questione della remunerazione dei Top è un vero e proprio ginepraio, vi s’intrecciano prospettive e interessi diversi, teorie e approcci differenti, sensibilità molteplici. Tornando ai fatti, secondo una recente ricerca segnalata da Alex Edmans in un articolo pubblicato dalla Harvard Business Review, il ratio della remunerazione dei CEO del 2015 negli Stati Uniti è stato pari a 335 volte quella del lavoratore medio, mentre in Gran Bretagna si attestava intorno a un valore di 130. Al di là dei molteplici profili che occorrerebbe discutere e approfondire per valutare in modo appropriato questa significativa “distanza”, sono evidenti anche gli effetti delle diverse culture: oltre oceano è forte il dominio del pensiero neo-liberista, mentre nel nostro continente prevale il modello sociale europeo. Malgrado ciò non possiamo nasconderci dietro un dito! La differenza tra la retribuzione dei lavoratori e quella di chi li guida è enorme, c’è poco da discutere su questo punto e sarebbe bene parlarne, secondo Paolo Gallo, HR Director al World Economic Forum. Non può passare inosservata, soprattutto, in un’epoca in cui siamo sommersi dalle evidenze che ci forniscono ricerche autorevoli, molte delle quali condotte da premi Nobel, che mostrano come la disuguaglianza cresca in tutte le latitudini del pianeta, mentre l’economia e le tensioni provocate dal modello di sviluppo in cui sembriamo intrappolati crea nuove e significative aree di disagio, se non addirittura povertà. Una disuguaglianza che è causata da numerosi fattori; tra questi Anthony Atkinson ricorda anche il cambiamento delle norme retributive, la riduzione del ruolo dei sindacati, la contrazione della politica redistributiva in materia di imposte e trasferimenti. Una situazione che non è – ricorda il maestro recentemente scomparso dell’economista Thomas Piketty – al di fuori del nostro raggio di influenza, perché possiamo agire e mutare il suo senso di direzione. Bisogna voler cambiare però.
I soldi possono comprare tutto?
Che fare allora? Tagliare gli stipendi dei CEO è praticabile? Risolverebbe poi qualche cosa? Non sarebbe meglio invece migliorare i salari medi dei lavoratori? Quali conseguenze avrebbe d’altro canto mettere un tetto (cap) al libero mercato delle retribuzioni degli executive? Le opinioni al riguardo, com’è comprensibile, sono anche molto diverse sul punto. Semplificando, ci si divide tra quanti gridano allo scandalo e quanti invece plaudono all’idea di frenare i compensi dei Top manager. I primi, soprattutto economisti liberali e uomini di affari, sono pronti ad apparecchiare sul tavolo della discussione argomentazioni di buona fattura come per esempio quella secondo la quale simili iniziative provocherebbero solo una pericolosa stasi sul mercato, perché disincentiverebbero impegno e metterebbero a repentaglio la creazione di ricchezza e benessere non più sostenute dall’energia della competizione. Aggiungono che la governance delle retribuzioni degli executive è ormai matura e idonea – con le sue istituzioni – a controllare efficacemente i rischi derivanti da comportamenti opportunistici di executive accecati dalla possibilità di conseguire sempre più alti guadagni.
I secondi, invece, porterebbero sul tavolo della discussione argomentazioni di natura diversa; chiamerebbero in causa soprattutto i principi dell’etica negli affari (business ethics), ma anche le buone pratiche di gestione delle risorse umane. Molto probabilmente ricorrerebbero alla tesi secondo la quale un’eccessiva retribuzione e incentivi aggressivi non riescono a estrarre dagli executive e manager il valore più generativo per l’impresa e per tutti i suoi stakeholder, ossia integrità, passione per le persone che guidano e per il lavoro che fanno. Sono queste, infatti, le virtù e le competenze di leader che fanno la differenza e che il filosofo Michel Sandel includerebbe, crediamo, tra i beni che i soldi non riescono a comprare.
Fare business coltivando le persone e i valori umani
E’ evidente quanto sia difficile mettere d’accordo queste prospettive. Occorrerebbe una discussione diversa che abbia al centro del dibattito cosa significa oggi leadership e, soprattutto, di quale leadership abbiano bisogno la nostra società e le imprese. In effetti, bisognerebbe interrogarsi seriamente sul significato che hanno espressioni come leadership responsabile e sostenibile, oggi abbondantemente utilizzate, per ricavarne un essenziale repertorio di tratti e competenze anche socialmente accettabili. Il fatto che venga sempre più sottolineato che viviamo in una società aperta con le sue promettenti caratteristiche può essere un buon punto da cui ripartire per esplorarlo in profondità; se ne potrebbero trarre indicazioni utili per accelerare quel processo di necessaria consapevolezza che origina anche percorsi di autoregolazione responsabili. Più che “andar giù con la falcetta”, avrebbe detto mio nonno, sarebbe il caso piuttosto di controllare che il prato cresca bene dappertutto, usando più spesso le forbici per togliere le punte che danno fastidio e averlo così sempre ordinato. Avendo anche cura che il prato cresca uniformemente e non solo nelle zone meglio assolate e irrigate, per renderlo gradevole alla vista di tutti. Senza dimenticare infine che ci possono essere stagioni in cui è bene tenere il prato più rasato, per rafforzarne compattezza e lucidità. Coltivare le persone mettendo al centro del business i valori umani – scriveva agli inizi di questo secolo Thomas W. Malone – sarà il “futuro del lavoro”. Credo valga ancora.
Suggerimenti bibliografici
- Atkinson A. B. (2015), Disuguaglianza, Raffaello Cortina Editore, Milano
- Cancellato F. (2017), Paolo Gallo: <Oggi i capi guadagnano 130 volte i dipendenti. Se ne può parlare?>, 11 febbraio. L’intervista la si può leggere a questo indirizzo: http://www.linkiesta.it/it/article/2017/02/11/paolo-gallo-oggi-i-capi-guadagnano-130-volte-i-dipendenti-se-ne-puo-pa/33200/
- Edmans A. (2017), Why We Need to Stop Obsessing Over CEO Pay Ratios, 23 febbraio, https://hbr.org/2017/02/why-we-need-to-stop-obsessing-over-ceo-pay-ratios
- Gabrielli G. (2010), People management, Franco Angeli, Milano
- Gabrielli G. (2013), Come gestire le “risorse umane” con equità, COSMOPOLIS Rivista di filosofia e teoria politica,VIII, 1/2013
- Girard René (1998), Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Adelphi, Milano
- Malone T.W. (2004), The Future of Work, Harvard Business Review Press, Boston
- Pepper A. (2015), The Economic Psychology of Incentives: New Design Principles for Executive Pay, Palgrave, Macmillan
- Pulcini E. (2011), Invidia. La passione triste, il Mulino, Bologna
- Sandel M.J. (2013), Quello che i soldi non possono comprare, Feltrinelli, Milano
- Smith A., Teoria dei sentimenti morali, RCS Milano, 2001
A cura di: Gabriele Gabrielli
Executive Coach e Consulente, docente di HRM & Organisation alla LUISS Guido Carli, Professor of Practice in People Management alla LUISS Business School, Presidente Fondazione Lavoroperlapersona (www.lavoroperlapersona.it)