La Progressiva Erosione dell’impianto dell’art. 18 Statuto Lavoratori ad Opera della Corte Costituzionale
Premessa
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 125/2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 7, comma 7, dello statuto dei lavoratori (legge 300/1970), limitatamente alla parola “manifesta”, riferita alla qualificazione – da accertare in giudizio – dell’insussistenza del fatto posto a base di un licenziamento per ragioni economiche/oggettive. Lo scorso anno la stessa Corte era intervenuta sulla stessa disposizione, dichiarando l’illegittimità della stessa norma sulla base di un altro rilevato profilo di incongruità, come spiegherò meglio in conclusione di questo breve commento (sentenza 59/2021, depositata il 1° aprile).
Per comprendere appieno il significato e gli effetti di tale pronuncia di illegittimità costituzionale, mi sembra opportuno ricostruire brevemente il quadro legale di riferimento in materia di tutele e sanzioni a fronte di un licenziamento illegittimo.
L’impianto del comma 7 dell’articolo 18 statuto lavoratori
Il comma 4 dell’art. 18, dispone che il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro (siamo dunque in tema di licenziamenti di natura c.d. soggettiva, in quanto riferibili alla valutazione di una condotta disciplinarmente rilevante del lavoratore), per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.
In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Per i licenziamenti di natura c.d. oggettiva (per motivi economici, riconducibili ad esigenze tecniche, produttive, organizzative), il comma 7, secondo periodo, testo originale, precedente ai due interventi della Corte costituzionale stabilisce che il giudice “può altresì applicare” la disciplina della sanzione reintegratoria come sopra descritta “nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del giustificato motivo oggettivo”.
È di immediata percezione la differenza delle due discipline, solo parzialmente parallele, considerata quella del licenziamento per ragioni oggettive caratterizzata dalla presenza del requisito della manifesta insussistenza del fatto, laddove per il licenziamento di natura soggettiva si richiede la (semplice) insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo.
Le argomentazioni della Corte costituzionali
La corte costituzionale rileva una serie di argomentazioni alla base della sua decisione.
il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato si fonda sui principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost. e sulla speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano (art. 1 Cost.). La diversità dei rimedi previsti dalla legge deve sempre essere sorretta da una giustificazione plausibile e deve assicurare l’adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso, nelle quali la reintegrazione non costituisce l’unico possibile paradigma attuativo dei principi costituzionali.
Nell’ambito del licenziamento economico, il richiamo all’insussistenza del fatto vale a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, che investono il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell’atto di recesso.
Rientrano nell’area della tutela indennitaria le ipotesi in cui il licenziamento è illegittimo per aspetti che, pur condizionando la legittimità del licenziamento, esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto. In tale ambito si colloca il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 19 maggio 2021, n. 13643).
La previsione del carattere manifesto di una insussistenza del fatto, già delimitata e coerente con un sistema che preclude il sindacato delle scelte imprenditoriali, presenta i profili di irragionevolezza intrinseca già posti in risalto nella sentenza n. 59 del 2021, che ha preso in esame il carattere meramente facoltativo della reintegrazione.
Il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, è, anzitutto, indeterminato.
Si rivela labile la definizione di un elemento di fattispecie, che richiede un apprezzamento imprevedibile e mutevole, senza alcuna indicazione utile a orientarne gli esiti. La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse è rimessa a una valutazione non ancorata a precisi punti di riferimento, tanto più necessari quando vi sono fondamentali esigenze di certezza, legate alle conseguenze che la scelta stessa determina.
Il requisito della manifesta insussistenza demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico.
Non solo il riferimento alla manifesta insussistenza non racchiude alcun criterio idoneo a chiarirne il senso; esso entra anche in tensione con un assetto normativo che conferisce rilievo al fatto e si prefigge in tal modo di valorizzare elementi oggettivi, in una prospettiva di immediato e di agevole riscontro.
La sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi.
L’elemento distintivo dell’insussistenza manifesta neppure si connette razionalmente alla peculiarità delle diverse fattispecie di licenziamento, che la stessa Corte costituzionale ha ribadito alla luce delle differenze che intercorrono tra i licenziamenti disciplinari, con la connessa violazione degli obblighi contrattuali, e i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, dovuti a scelte tecniche e organizzative.
L’irragionevolezza del criterio enucleato dal legislatore si coglie anche da un’altra angolazione.
Il presupposto in esame non ha alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, che non è più grave solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio.
Peraltro, nelle controversie che attengono a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, il quadro probatorio è spesso articolato, tanto da non essere compatibile con una verifica prima facie dell’insussistenza del fatto, che la legge richiede ai fini della reintegrazione.
Il criterio della manifesta insussistenza, inoltre, risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento.
Dall’imprevedibile dialettica processuale e dalle variabili, che condizionano il diverso grado dell’approfondimento istruttorio necessario, derivano conseguenze di considerevole impatto sul versante sostanziale, tutte riconducibili al presupposto censurato, che prescinde dalla tipologia del vizio dell’atto espulsivo o dal ricorrere di altri razionali elementi distintivi.
Conclusioni
Sulla base di queste argomentazioni, la Corte costituzionale ha di fatto espunto l’espressione “manifesta” dal contesto letterale dell’art. 7, comma 7, secondo periodo, che adesso deve leggersi come segue: il giudice “applica altresì la predetta disciplina [reintegratoria] nell’ipotesi in cui accerti la [manifesta] insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. Il periodo in questione è stato già modificato in seguito all’intervento della stessa Corte costituzionale, con sentenza 59/2021, che ha tolto il potere di valutazione discrezionale del giudice in merito all’applicazione della sanzione reintegratoria, dichiarando la illegittimità dello stesso comma 7, secondo periodo, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti l’insussistenza del motivo posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare” – invece che “applica altresì”, la disciplina reintegratoria di cui al precedente comma 4.
Appare di tutta evidenza la progressiva erosione dell’impianto dell’art. 18 statuto lavoratori, così come modificato a suo tempo dalla legge Fornero 92/2012, che ha subito due “scossoni” nell’ambito di un periodo di un anno, a cavaliere tra il 2021 e il corrente 2022.
Articolo a cura di Pasquale Dui
Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista