La riforma Biagi: l’effetto paradosso sulla cultura manageriale
La riforma del diritto del lavoro progettata da Marco Biagi
Il giuslavorista ucciso dalle Nuove Brigate Rosse il 19 marzo 2002 è stato il padre della riforma del lavoro approvata un anno dopo la sua morte.
Marco Biagi aveva raccolto le esigenze delle parti, prevedendo un’evoluzione del rapporto tra datori di lavoro e dipendenti che recepisse i cambiamenti del contesto economico-produttivo.
Fino ad allora infatti il Contratto a Tempo Indeterminato era, a parte poche eccezioni, l’unica possibilità di inquadramento per il personale delle imprese produttive.
La riforma metteva a disposizione tipologie di inquadramento che avrebbero permesso di rispondere alle emergenti esigenze delle imprese.
Facciamo due esempi.
a) Un’impresa si aggiudica un appalto che necessita più lavoratori per il tempo necessario a concludere la commessa. Il Contratto a Tempo Determinato permette di coprire i posti vacanti per il periodo corrispondente, avvantaggiando anche i lavoratori perché aumenta la disponibilità delle imprese ad assumere piuttosto che subappaltare a fornitori, magari situati all’estero.
b) Un’impresa deve digitalizzare un processo. Serve un Project Manager che installi il programma partendo dalla scelta del software per arrivare all’addestramento del personale. Ecco la necessità di fare un Contratto a Progetto.
Dunque la riforma mise a disposizione delle imprese nuovi strumenti che, se utilizzati in modo appropriato, avrebbero incontrato le esigenze delle imprese.
Cosa avrebbe dovuto accadere
L’introduzione di nuovi strumenti o utensili correla con un’evoluzione culturale che prevede nuovi paradigmi e nuovi processi.
Gli strumenti messi a disposizione dalla riforma Biagi avrebbero potuto, se usati con appropriatezza, portare le imprese italiane in una direzione sostenibile e virtuosa.
Cosa è realmente successo
La riforma portò a un’evoluzione nella relazione tra lavoratori ed imprese molto diversa da quella prevista da Marco Biagi, che non avrebbe approvato il prevalere di impieghi inappropriati delle nuove forme di inquadramento.
Prevalsero infatti logiche pseudo-economiche, fondate sull’illusione di poter risparmiare sul personale, e i contratti flessibili diventarono il surrogato del periodo di prova. In questo modo la flessibilità si tradusse solamente in incertezza cui le nuove generazioni dovettero adattarsi.
L’impatto peggiore però fu per la cultura manageriale, che invece di trasformare la novità in un’occasione di evoluzione, subì un’involuzione sostanziale.
L’illusione di poter risparmiare
Le cose non andarono come previsto da chi aveva disegnato la riforma, in quanto non erano stati considerati due rilevanti elementi:
a) La cultura della gestione del personale non si era ancora consolidata.
La riforma Biagi fu approvata dopo gli anni ’90, quando stavano maturando teorie e pratiche evolute, come il coaching, che rappresentavano il superamento definitivo del Taylorismo.
La riforma fu approvata proprio mentre iniziava l’era degli algoritmi gestionali, senza considerare la progressiva introduzione della strumentazione digitale “user friendly”. È iniziata l’epoca in cui le persone si adattano agli strumenti, invece che gli strumenti alle persone. Lo “user aziendalis” impara ad usare gli algoritmi prima di comprendere il quando e il come. In questo contesto, ove si affida allo strumento la soluzione dei problemi, l’evoluzione culturale è solamente un adattamento delle persone agli algoritmi, mai la messa in discussione dei medesimi.
All’inizio del nuovo millennio teorie e modelli che si stavano affermando negli anni ’80 e ’90 hanno cominciato ad arretrare fino a scomparire; i fondamentali culturali della gestione del personale – a partire dal concetto di talento, pietra angolare di ogni politica del personale evoluta – sono ormai citati solamente negli articoli delle riviste. Credenze popolari e trivialità dilagano nelle imprese, ed è ormai difficile distinguere il livello di competenza del manager della multinazionale dall’opinion leader del Bar Sport.
b) I commercialisti e consulenti del lavoro non hanno supportato l’evoluzione della cultura.
I cambiamenti introdotti dalla riforma Biagi avrebbero potuto portare un’evoluzione grazie ai professionisti che normalmente vengono interpellati in merito alle opzioni contrattuali.
A fronte della domanda: “Quale contratto mi costa di meno?” Consulenti e commercialisti avrebbero potuto diffondere le logiche economiche sistemiche, aiutando manager e imprenditori al bivio tra l’apparente risparmio offerto dai contratti flessibili e la strada della produttività.
Questo non avvenne in gran parte per ignoranza e in parte perché la relazione tra imprese e professionisti non è basata sui principi etici della consulenza ma sullo spirito di servizio. Dove l’imprenditore mette sul piatto l’esigenza di ridurre i costi, chi si occupa di paghe, solitamente di provenienza contabile, avvalla l’equivalenza tra riduzione del costo orario e benefici economici.
Questa dinamica ha messo in fuori gioco gli specialisti HR, che tranne in rari casi si sono trasformati gradualmente in manutentori di algoritmi, dove titoli quali “Direttore del Personale” si sono dimostrati illusori.
L’economia sta restituendo quanto seminato: a fronte di una riduzione progressiva del potere di acquisto, l’Italia presenta, contestualmente ad una graduale riduzione del potere di acquisto dei salari, indicatori di produttività tra i più bassi d’Europa.
L’illusione di poter meglio valutare il personale in entrata
Con la cosiddetta flessibilità, le nuove forme contrattuali furono usate per ridurre i rischi derivanti da errori nella selezione del personale.
Per questo motivo, più che per il contenimento dei costi, si osservò un immediato dilagare di forme contrattuali di breve durata, come il Tempo Determinato e i Contratti a Progetto.
Nelle PMI come nelle multinazionali il contratto a tempo indeterminato si trasformò in una sorta di terra promessa, la fine di un iter tortuoso e illogico.
Scomparve l’esigenza di valutare le persone in poche settimane.
Nei fatti, i contratti a termine si sono trasformati in periodi di prova di durata assurda e di dubbia efficacia, visto che si cerca di supplire con il tempo alle ormai ridotte competenze di valutazione della performance.
Una concausa della nuova situazione è stata la scomparsa dei corsi di selezione del personale, come vedremo più avanti. Il budget destinato alla formazione dei manager, nel nuovo millennio, viene investito in attività più trendy come la formazione sulla Leadership oppure il Team Building.
Dopo la riforma Biagi
La confusione generata dagli usi impropri del nuovo diritto del lavoro portò, in pochi anni, a una reazione di tutti i portatori di interessi, per cui lavoratori e sindacati cominciavano a lamentare la riduzione delle certezze e degli stipendi, le imprese denunciavano un eccesso di complessità.
Come si fa nel nostro paese, invece di procedere a controllare l’applicazione della legge, si richiamò in causa il legislatore che, cercando di accontentare tutti, peggiorò il quadro.
Il Jobs Act raccoglieva soprattutto la necessità di semplificare, risultando per certi versi peggiorativo: la riduzione degli strumenti a disposizione costrinse ad ulteriori aggiustamenti, come nel caso dei voucher.
Da lì in avanti la politica ha cercato di salvare, con cerotti e leva fiscale, il contratto a tempo indeterminato, o ciò che ne rimane.
Senza voler discutere nel dettaglio il valore delle riforme e dei provvedimenti successivi alla riforma Biagi, vediamo ora di inquadrare la questione più critica, ovvero come i nuovi contratti abbiano affossato il processo di crescita che la mentalità manageriale e la cultura sottesa alla gestione del personale avevano intrapreso nei decenni precedenti.
La scomparsa della formazione: impatto sulla cultura
A seguito della trasformazione dei contratti a termine in surrogati del periodo di prova, abbiamo assistito al declassamento del processo di selezione del personale, con gravissime conseguenze per la cultura manageriale. Solo recentemente qualche autore sta riportando la questione al livello che merita, ma difficilmente i danni che si sono generati potranno essere riparati.
La formazione sul processo di selezione, oggi praticamente scomparsa dai programmi formativi delle imprese di ogni dimensione, era un’occasione insostituibile per sottoporre professionisti e manager ai rudimenti della cultura HR.
Sebbene un corso non sia sufficiente per trasformare un Line Manager in un esperto valutatore o in un Coach, una formazione di base può fare la differenza, visto che la valutazione delle risorse dei collaboratori è un’attività critica in ogni fase della carriera.
Nella notte della cultura manageriale i concetti cardinali che si stavano affermando alla fine del secolo scorso sopravvivono in forme stereotipe, mantra recitati ritualmente, come l’immancabile decalogo intitolato: “Le persone sono il nostro valore principale”.
L’effetto di questa curiosa evoluzione, ove l’ideologia va da una parte e le pratiche dall’altra, sta favorendo l’affermarsi di uno stile manageriale basato su rituali e sermoni.
L’impatto delle scelte formative sulle competenze manageriali
Non è spiegabile che, in un’epoca ove si investe massicciamente sulla formazione dei manager, fiducia e stima nella Leadership siano così malandate, per non parlare della considerazione per manager e specialisti HR.
È difficile dimostrare la correlazione tra l’eclissi della formazione sulla selezione del personale e l’involuzione della cultura manageriale, ma è certo che molti autori e ricerche imputano alla fede negli algoritmi grandi guai per la Leadership e per la funzione HR[1].
Con l’oblio degli elementi basilari della cultura HR anche la relazione capo-collaboratore si deteriora. Il coaching sta lasciando il posto ad una supervisione basata su statement triviali quali “Se uno ci crede ce la può fare”, “L’importante è fare squadra”, “Venditori si nasce” e via così…
Sintesi
La riforma Biagi mise a disposizione delle imprese un ampio spettro di soluzioni per affrontare diversi scenari.
Le riforme successive hanno confermato i contratti cosiddetti flessibili.
Le imprese hanno utilizzato gli strumenti messi a disposizione dalle riforme in modo spesso improprio, utilizzando i contratti a termine per valutare il personale.
Tra gli effetti indiretti dell’uso improprio dei contratti annoveriamo l’involuzione della cultura manageriale, causata dall’impatto del nuovo scenario sui piani formativi.
Il deficit di modelli di valutazione basati su evidenze genera alti costi per le persone e per il sistema produttivo, in quanto i percorsi di sviluppo professionale sono stati delegati ad algoritmi (dilagano le imprese che vendono “Il gestionale Hr che risolve i problemi del Personale”), nella pia speranza che template, indicatori e cruscotti possano compensare i deficit di competenze.
L’illusione che un gestionale possa colmare i deficit nella cultura manageriale sta impattando su produttività, sulla credibilità del management, sulla qualità della vita lavorativa, sul benessere individuale.
Note
[1] https://www.ilsole24ore.com/art/emergenza-competenze-tre-manager-hr-quattro-ABOgZkuB
Articolo a cura di Luigi Rigolio
Docente di Marketing Sanitario presso l'Università dell'Insubria.