La solitudine decisionale
L’aereo sta raggiungendo la quota pianificata, i compagni sono pronti, dietro di me. Ripasso a mente i preparativi: ricordo a memoria tutte le pieghe del paracadute, il meccanismo di sgancio, il paracadute di riserva… l’altimetro segna la quota giusta, casco ben allacciato, occhialoni ok… tutto è pronto. Il portellone si apre e l’adrenalina sale alle stelle: è sempre così, non passa mai. Qualcosa può andare storto, ma la preparazione è stata perfetta, come sempre… eppure quella piccola parte del mio subconscio mi trattiene a bordo… ci penso per un attimo… poi, come sempre, decido: ultima scarica di adrenalina e mi lancio. Non ricordo neanche più quante persone mi hanno chiesto di non farlo più, tra genitori, parenti ed amici, ma non ne posso fare a meno. E’ pur sempre una decisione, un filo egoistica se vogliamo: è vero che la vita è mia e ne faccio ciò che voglio, ma se qualcosa andasse storto, quante persone mi piangerebbero?
Tutto sommato, decidere di praticare discipline estreme è un fatto più personale ed egoistico di quando invece si deve determinare una svolta per il bene dell’azienda. Più l’organizzazione è vasta, più i provvedimenti ricadranno su una porzione vasta di colleghi e relative famiglie. Magari non a rischio della vita, ma siamo sicuri che prendere decisioni a largo raggio porti meno ansia o non possa provocare crisi di panico?
Processo Decisionale: condiviso o imposto
Quando tutto va bene e si ha il tempo per pianificare le singole fasi di un progetto, prendere decisioni corrette è più facile, specie se il gruppo di lavoro è ben organizzato, ha tutte le competenze a bordo e la base dati è chiara ed esaustiva. Quando viene il momento, la decisione può semplicemente avvenire per maggioranza assoluta o relativa, assegnando ad esempio un peso diverso a seconda di chi vota. In questo caso il peso di eventuali effetti collaterali negativi viene condiviso e fa meno male.
A volte accade che il processo non possa avvenire così linearmente: vuoi per la specificità dell’argomento trattato o per alcune condizioni al contorno che non possono essere divulgate all’interno del gruppo di lavoro, o ancora per estensione di decisioni analoghe prese in precedenza altrove ed estese senza un vero e proprio studio, un coinvolgimento od il consenso. Pur sapendo che la decisione che stiamo per “imporre” è la migliore possibile, capita di non poterne spiegare le radici o perlomeno non completamente. Un esempio potrebbe essere il seguente: la business unit decide di delocalizzare e quindi la fabbrica verrà terminata dopo 20 anni di attività: tutti i manager firmano un patto di riservatezza. D’altro canto la decisione di aumentare lo stock per coprire il vuoto produttivo del trasferimento è obbligatoria ma non rivelabile, almeno temporaneamente, quindi imposta: come spiegare ai collaboratori un incremento produttivo così repentino, in condizione di ordinazioni stabili? Ebbene sì, situazione antipatica, sicuramente da mal di testa…
Mancanza e Inefficienza Decisionale
La regola numero uno del miglioramento continuo recita che non ci sarà mai miglioramento se le cose continuano ad essere fatte allo stesso modo. Ogni cambiamento deve essere quindi discusso e deciso; va da sè che gli indecisi sono contro il miglioramento e vanno evitati per il bene dell’azienda. E’ importante, in fase di colloquio, capire se il candidato possiede il piglio decisionale, indipendentemente dal ruolo che ricoprirà: una persona a suo agio nel prendere o discutere attivamente le decisioni è sicuramente un elemento di valore aggiunto nell’organizzazione. Mai vorremmo sentirci dire: “..decidete voi, a me va sempre bene…”. Negli anni ho conosciuto tantissime persone molto valide, ma fermamente arroccate sulla loro posizione di non esporsi nei processi decisionali; in fondo sta nella natura di ognuno di noi. Si potrà sempre dire che chi non vuole mai deliberare ha già deciso in molto chiaro sull’argomento, anche se inevitabilmente ciò limita in maniera considerevole la carriera lavorativa e probabilmente quella sociale.
Assodato che in azienda le decisioni vengano prese, preferibilmente in maniera celere, ci si pone il problema della loro correttezza, o per lo meno della percentuale minima di decisioni sbagliate che un’azienda si può permettere; questa percentuale si aggira intorno al 10% nelle aziende medie. Quello che mi sento di esprimere è che molto spesso, sebbene a fronte di decisioni sbagliate o per lo meno discutibili, si innescano cambiamenti che prima o poi offrono opportunità di miglioramento. Sta nella nostra natura ed educazione riconoscerle. In altre parole, come spesso si sente dire, meglio prendere decisioni sbagliate che non decidere affatto.
Chi decide veramente
Nel lavoro di gruppo, molti discutono, qualcuno espone dati, pochi consigliano strategie; alla fine l’ultima parola spetta al “capo”, e tutti se lo aspettano… a meno che il processo decisionale avvenga a maggioranza. Mi viene tuttavia difficile pensare che una decisione venga presa benchè il “capo” non sia d’accordo o pienamente convinto. Uso apposta il termine capo in quanto le procedure, tipicamente scritte, come approvazione piani di acquisto, investimenti, assunzioni, variazioni organizzative e via dicendo prevedono la firma del più alto in grado che avvalli il processo decisionale precedente. La firma finale altro non è che il suggello, il momento in cui chi è veramente al comando deve concentrarsi, prendersi il tempo necessario per un’ultima analisi, le ultime considerazioni, un’ultima telefonata per vederci ancora più chiaro su qualche particolare…. Quando firmo per validare una decisione mi piace isolarmi: mi gratifica la sensazione di potermi sentire un pò solo ed artefice di un cambiamento, spesso di un miglioramento.
Probabilmente è l’unico momento di solitudine che non mi dispiace.
Articolo a cura di Fabio Bordignon
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