Lavoratori ‘protetti’: le buone aziende non aspettano le buone leggi

In questo momento c’è molta attenzione sulle nuove norme entrate in vigore per le ‘categorie protette’ (numero di assunzioni obbligatorie, interventi formativi preliminari…). Limitiamoci a dire che se una legge forza pregiudizi e barriere culturali è un passo positivo e necessario, perché va contrastata una cultura arretrata: molte aziende, per esempio, cercano di non superare il numero di dipendenti che obbliga a un’assunzione ‘protetta’, oppure queste persone sono utilizzate solo per lavori non qualificati. Tanto che chi ha una certa istruzione o altre capacità, non mette nel suo curriculum quell’indicazione perché è penalizzante. Eppure, senza aspettare nuove norme, molte prassi positive sono già state adottate da manager che hanno guardato la specificità di queste persone con gli stessi criteri di gestione con cui guardano a tutti coloro che in azienda lavorano: valorizzare ogni persona per quello che sa fare, metterla in condizioni di esprimere il suo potenziale. Perché si ottengono risultati migliori se tutti possono dare il meglio di sé. In quest’ottica una persona cosiddetta ‘diversamente abile’ è considerata come chiunque altro. Ed è un’ottica che abbiamo visto più spesso nelle politiche realizzate da donne manager. Che anche a questo proposito hanno anticipato e superato quello che oggi diventa norma. Isabella Covili, per esempio, allora responsabile del personale in una multinazionale, racconta come si può interpretare una legge tenendo conto di chi ne è toccato. “Sono alle prese con una relazione che dovrebbe spiegare alla casa madre americana perché dobbiamo assumere una quota di lavoratori chiamati ‘invalidi’. Mi torna in mente Arnaldo, una di queste persone. Era stato un etilista ed in quella fabbrica noi producevamo liquori. Come mettere un topo nel formaggio. Ma ora era guarito e voleva lavorare. Lo abbiamo assunto come operaio, adottando qualche necessaria attenzione, soprattutto nel gruppo di lavoro in cui era inserito. A volte chiedeva di parlarmi, per qualche consiglio sulla sua vita privata, e io gli prestavo attenzione. Così era sempre sorridente e contento. La sera prima di uscire si cambiava perché andava in città per trovare moglie. Ecco cosa dirò nella relazione, che a persone come lui è stata data una possibilità. Dovrò spiegare che la legge ce lo impone. Ma scrivo anche che le aziende ‘belle’ vanno oltre la legge perché le persone che le fanno ‘belle’ lo meritano”. In questa direzione è anche la politica di Tiziana Bernardi, in un grande gruppo italiano, che ha pensato a come dare migliori opportunità ai lavoratori con patologie gravi come la cecità, addetti al centralino. Ha fatto realizzare un software per trasformare i documenti caricati nel computer da parole scritte in espressioni vocali, in modo che quelle persone potessero ascoltare il testo. Ha accompagnato il processo con una formazione -loro e dei colleghi- e li ha portati a fare recupero crediti lavorando da casa.

Occorre anche trasmettere questa cultura alle persone interessate, farle sentire come tutti gli altri. Perché succede che introiettano il fatto di poter svolgere solo mansioni non qualificate e accettano un lavoro qualsiasi concentrandosi sulle garanzie di legge (come il diritto all’accompagnamento ecc). Insomma, sono spinte a stare nel guscio protettivo.

Una responsabile della selezione in una grande azienda racconta di questo: “Cominciano cercando di assicurarsi le garanzie previste dalla legge, e poi non discutono del lavoro che vorrebbero fare. A questo punto dico che diano per scontato che tutto questo lo avranno. E passo invece a parlare del lavoro, di cosa vorrebbero e potrebbero fare, vedendo a quali mansioni potrebbero accedere”.

Dunque le aziende che rispettano le leggi nei minimi termini -e lo scrivono nei loro bilanci sociali- non hanno molto di che vantarsi. Vale di più ogni intervento che si sposta dai limiti e dagli obblighi alle potenzialità.

Come ci mostra una manager, diventata responsabile di una struttura a supporto dell’area vendita, finalizzata a reperire informazioni e dati a richiesta. Dato il lavoro esecutivo, i lavoratori addetti a quel lavoro erano senza qualificazione, alcuni con una disabilità: considerati “casi umani irrecuperabili”. Appena nominata, la responsabile ha portato in ufficio una torta per festeggiare. E quel gesto ha assunto un valore simbolico: per lei i collaboratori avevano un valore. Infatti ha puntato a farli crescere, dando compiti più sfidanti, ma non troppo, per evitare paura o rifiuto. C’è stato così un salto di capacità di questi lavoratori, che hanno imparato a fare ricerche in rete appassionandosi agli strumenti tecnologici, e hanno sviluppato l’orgoglio del proprio lavoro.

Le tutele di legge hanno la funzione di porre condizioni di partenza eque, ma se sono concepite solo come protezione di persone deboli diventano una limitazione per la persona stessa. E per l’azienda, perché anche su questo terreno vanno sprecate capacità.

A cura di: Luisa Pogliana

Profilo Autore

Luisa Pogliana: per molti anni direttore di una staff in una grande azienda editoriale, è ora consulente di ricerca sui mercati internazionali. Ha fondato l’associazione Donnesenzaguscio, per la valorizzazione delle pratiche e dei pensieri innovativi delle donne nel management. Su questi temi ha pubblicato Donne senza guscio (2009) e Le donne il management la differenza (2012), entrambi presso Guerini.

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