L’essere green come fattore motivazionale delle human resources in azienda

Abstract

Le grandi sfide che le organizzazioni contemporanee si trovano a dover affrontare, così come affermato da Boudreau e Ramstad (2005), sono due: da un lato l’attrarre, il mantenere e lo sviluppare talenti; dall’altro l’implementazione di un sistema di gestione delle risorse umane che sia in grado di incontrare quelli che sono gli obiettivi economici, sociali e ambientali, i quali riguardano ogni tipo di organizzazione. Ben si comprende, in tal senso, come la questione ambientale – in ambito organizzazionale – si riveli centrale. Questa, potenzialmente, può rappresentare una leva per le organizzazioni, nella misura in cui l’aderire o meno a un paradigma di sostenibilità sposta le preferenze personali, allinea obiettivi individuali e organizzativi, determina il posizionamento dell’azienda agli occhi e dei consumatori, e di chi il lavoro lo cerca. Ci si chiede se la stessa possa risultare anche fattore motivante, nell’accezione data dal Pinder (1998) di “forza energizzante” in grado di spiegare cosa i dipendenti, che in quella data azienda lavorano già, vogliano raggiungere, il come, e fino a quando. Un doppio binario, quindi, in cui la sostenibilità ambientale funge da locomotiva e al contempo ‘cristallino’, lente in grado di leggere tale doppia via inbound e outbound, lì dove l’impresa trattiene o attrae personale e talenti. Il c.d. Sustainable Human Resource Management (Ehnert e Harry, 2012; Ehnert 2009a), il cui valore si rafforza se la gestione delle stesse HR presenta forza e capacità di rispondere alle esigenze e alle pressioni interne ed esterne, che ne deriva ‘è intrinsecamente green’ nella misura in cui lo stesso sia votato alla sostenibilità ambientale, e risponda agli obiettivi di cui sopra. Si è di fronte a un tool potente, strategicamente rilevante, nelle mani del management, e che può appunto avere ricadute evidenti ed eventuali sulla stessa motivazione delle risorse umane in azienda, con tutto quello che ne consegue poi in termini di qualità dell’ambiente aziendale, di produttività, di clima, etc. Tale ultimo aspetto, in una qualche misura meno evidente e materiale, si somma a tutti quei driver – tipicamente economici o legali – che spingono un’azienda a essere votata alla sostenibilità, la quale diventa di conseguenza in grado di offrire una soluzione per le organizzazioni che sperano di promuovere la propria responsabilità nei confronti dei dipendenti potenziali ed esistenti, attraendo e mantenendo dipendenti di alta qualità; motivandoli, appunto.

L’emergenza di un ambientalismo aziendale

Dalle stesse righe parole del Pontefice, nel Suo Laudato sì, emerge un ruolo della natura e dell’ambiente in rapporto con l’uomo e con gli umani costrutti e istituzioni – in qualche senso qui da chiarire – biunivoco, interdipendente, simbiotico e bidirezionale: viviamo e siamo collocati nell’ambiente, e dall’ambiente traiamo le nostre fonti di sopravvivenza, siano esse risorse, energia, cibo, mere utilità sociali o emotive. In un movimento ciclico, chiuso, nella misura in cui “nulla si crea e nulla si distrugge”, e con la ‘inconsapevole consapevolezza’ di vivere in un contesto finito, di bisogni che sembrano tuttavia senza fine.

Sotto questo aspetto, e in questo quadro, la questione ambientale, con le sue radici profonde nella crisi energetica dei primi anni ’70, gioca un ruolo precipuo nella attuale scena geopolitica mondiale, e nella agenda di molti governi. Le imprese, quali costrutti e cellule fondamentali di un dato tessuto economico-sociale, rappresentano fattori e motori primi di ogni cambiamento; ‘dagherrotipi’, dispositivi, atti a fotografare e leggere quello che può tranquillamente definirsi come un ‘ambientalismo’, che è appunto ‘aziendale’: a prescindere dalla dimensione, dal settore in cui opera, dalla struttura e dalla finalità prevalente perseguita, non può esistere impresa senza contesto. Quando si parla di CSR (Corporate Social Responsibility), o generalmente di etica in ambito aziendale, non a caso si fa proprio riferimento (spesso o in parte) alla sempre maggiore consapevolezza circa l’impatto che l’agire umano ha da un lato sul business environment, dall’altro sui suoi stakeholder che in esso interagiscono. L’ambiente offre opportunità e minacce, e agisce da volàno e al contempo da limitazione all’agire aziendale. Da qui la necessità di includere l’ambiente stesso all’interno delle strategie e dei processi aziendali, di ‘portarlo all’interno dell’equazione’, in modo che esso stesso diventi (e di fatto preventivamente sia) uno stakeholder aziendale a tutti gli effetti – seppur universale, ‘di canvas’ – oggigiorno ineludibile: a una visione outside-in, consistente nel considerare l’impatto dei cambiamenti da parte dell’ambiente naturale sulla organizzazione e sulle performance aziendali, tende a opporsi e a prevalere, quindi, sempre più una visione inside-out, in cui ci si sofferma più sulle conseguenze dell’attività di impresa sull’ambiente che non il contrario. Le aziende affrontano, quindi, pressioni dal loro ambiente e contesto esterno, le quali a loro volta influenzano operazioni, decisioni, core values, mission, e strategie. Tali pressioni comportano, dal canto loro, responses di grado, forma, intensità, dimensione e profondità diversi.

Il nuovo paradigma Green della sostenibilità ambientale

Su questo shift copernicano da un antropocentrismo friedmaniano a un ecocentrismo afferente a un approccio maggiormente votato agli stakeholder e alla cura dei loro interessi – variamente individuati e soppesati – si basa il nuovo paradigma, la cui genesi è rinvenibile nel rapporto Our Common Future della World Commission on Environment and Development (WCED) – altrimenti detta Commissione Brundtland – del 1987, dove lo sviluppo sostenibile viene definito come quello “che soddisfa le esigenze del presente, senza compromettere l’abilità delle generazioni future di soddisfare le proprie esigenze” (WCED 1987: 43). Le future generazioni, in altre parole, non devono essere lasciate in condizioni peggiori rispetto a quelle attuali, il che vuol dire limitare il degrado ambientale, conservare lo stock di capitale ambientale globale, preservare le funzioni dell’ecosistema, e migliorare la qualità della vita” (Worthington, 2012: 25).

È questo il concetto – apparentemente ossimorico – di sviluppo (movimento) sostenibile (permanenza). Un concetto da intendersi non come immutabile, bensì come un processo continuo, che richiama la necessità di coniugare i tre pilastri fondamentali e inscindibili dello sviluppo, vale a dire dimensione economica, socio-culturale, e ambientale, la c.d. “Triple Bottom Line” (Elkington, 1994). Hart e Milstein (2003) affermano che “un’impresa che contribuisce allo sviluppo sostenibile, produce contemporaneamente effetti benefici in termini economici, sociali ed ambientali”. La sostenibilità ambientale è appunto la capacità di un sistema economico di valorizzare l’ambiente, garantendo al contempo la tutela e il rinnovamento delle risorse naturali, e soprattutto la capacità di preservare nel tempo le tre funzioni riconosciute all’ambiente, ovvero di essere: ricettore di rifiuti; fornitore di materie; e fonte diretta di utilità (Pearce e Turner, 1990). L’economia verde, quale “economia che genera crescita, che crea lavoro, e che sradica la povertà investendo e salvaguardando le risorse del capitale naturale, da cui dipende la sopravvivenza del pianeta” (Commissione Europea, Comunicazione n.363 del 20 giugno 2011), ‘rompe’ l’ortodossia manageriale (imprenditoriale ed economica), ritenuta colpevole di non aver tenuto conto delle conseguenze all’impatto ambientale del sistema economico e produttivo. È questo un nuovo modello economico “attraverso cui creare le necessarie premesse per il progresso della società nel suo complesso, e perseguire quello stesso sviluppo sostenibile” (Amerighi e Felici, 2011); una via per gestire il cambiamento verso un modello di sviluppo sostenibile, attraverso misure economiche, legislative, tecnologiche e sociali che si pongano come obiettivi precipui: la riduzione generale del consumo di energia e delle risorse naturali; l’utilizzo quasi totale di fonti di energia alternative e rinnovabili; l’abbattimento delle emissioni di gas serra; il tendenziale azzeramento di ogni tipo di rifiuto; la promozione di modelli di produzione e consumo sostenibili; l’impiego di tecnologie in grado di aumentare l’efficienza energetica di macchinari, abitazioni, impianti, e città, e perciò potenzialmente in grado di individuare nuovi campi di applicazione e nuovi settori, ergo occupazione e sviluppo economico.

Conviene essere Green?

La domanda da porsi è: ma l’essere green paga? Per rispondervi, ponendoci dal lato dell’azienda, bisogna procedere gradatamente. L’assunto da cui si vuole partire è che il processo di greening (aziendale) deve diventare routine, e cultura diffusa, per potersi definire tale. Deve essere letteralmente introiettato. Si ritiene questa condizione necessaria pur tuttavia non sufficiente affinché un’azienda possa ritenersi ecologicamente sostenibile. Il salto logico nonché pratico è dato – ovviamente – dal mettere in pratica tutte quelle azioni ascrivibili all’ambientalismo aziendale di cui sopra.

Negli ultimi dieci anni la società ha cominciato a domandare con sempre maggiore forza, in virtù della grande eco che tale tematica ha acquisito, prodotti e servizi ecocompatibili, sostenibili, più salutari, che rispettino l’ambiente, e che nulla cedano in termini di trade-off prezzo-qualità. Il pubblico, per ragioni antropologiche e sociali tra le più varie, legate anche ai concetti di rete e comunicazione 2.0, si dimostra sempre più attento a determinate tematiche, più facilmente informabile, influenzabile, pretenzioso. Le imprese, riducendo il proprio impatto ambientale, ottengono, di conseguenza, senza dubbio vantaggi ‘managerialmente opportunistici’, riuscendo a incontrare le attese e le aspettative degli stakeholder e della comunità, e raggiungendo benefici di mercato quali differenziazione del prodotto, sfruttamento di nuove nicchie, risparmio di costi, eco-efficienza, etc. L’essere green inoltre aiuta non solo le imprese a conformarsi alle regolamentazioni, e quindi a evitare eventuali sanzioni, ma anche ad anticipare in maniera proattiva e lungimirante future problematiche che potranno di volta in volta presentarsi. Ancora, migliora l’image e la reputation aziendale, favorisce un ambiente di lavoro migliore, più elevati livelli di efficienza nella gestione, e infine anche facilitazioni nell’acceso al credito, sgravi fiscali, e generale riduzione del rischio aziendale. Un sustainable value (Laszlo e Zhexembayeva, 2011) votato all’interezza che annulla la dicotomia classica nata a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso tra shareholder value e stakeholder value.

Da quanto detto, l’essere green senz’altro paga. Non però senza flipsides, ovvero rovesci della medaglia, scomodi e caratterizzanti la quasi totalità delle azioni manageriali o di business, nonché le strategie che si sceglie di attuare. Essere – e/o diventare green – non è per tutti: richiede tempo, cambiamenti culturali spesso sottostanti l’intero business (e che talvolta portano e richiedono anche a una loro fisiologica e intera revisione); soffre di innate barriere e difficoltà, essendo spesso non solo costoso, ma soprattutto rischioso, sia nella misura in cui tale cambiamento non venga pienamente condiviso dalle risorse in azienda – o vi si incontrano altre barriere al suo raggiungimento, sia nella misura in cui si può avere a che fare con un mero green-washing. In merito a quest’ultimo punto, il rischio infatti è che molte aziende tendano semplicemente a “bullonare” (Laszlo e Zhexembayeva, 2011) un’etichetta di sostenibilità alle proprie strategie, dando loro una mera ‘verniciata di colore verde’, dichiarando formalmente iniziative green, ma lasciandole nella sostanza ai margini del proprio business, a valore meramente simbolico, e non avvalse da alcun tipo di cambiamento o ripensamento manageriale, culturale ed etico. Molte imprese tendono a offrire prodotti green o a premium prices, oppure di qualità inferiore, mentre un approccio “realmente green”, invero, parte dall’assunto che creare valore per un’impresa possa essere raggiunto simultaneamente creando valore tanto per la società quanto per l’ambiente, e dall’idea che valori sociali e ambientali possano essere incorporati nel core business aziendale senza alcun trade-off o rinuncia, bensì offrendo ai consumatori soluzioni intelligenti, costruendo a livello intraorganizzazionale relazioni trasformative, co-sviluppando soluzioni con tutti gli stakeholder, e facendo della sostenibilità il lavoro di tutti. In merito al primo punto, si richiedono ulteriori riflessioni che verranno più avanti analizzate.

Il greening aziendale, e il suo management

Cosa si intende precisamente per greening aziendale? L’azienda, come detto, attinge dal contesto esterno per ottenere input; esplica le proprie attività di trasformazione all’interno di un dato contesto (sociale, genericamente inteso); per poi nello stesso ‘rientrare’ con i propri output. In ogni fase del suddetto processo di trasformazione c.d. “environmental bads” (Worthington, 2012) sono riscontrabili come lato negativo del business. La gestione di tali bads rappresenta, appunto, l’Environental Management, con il greening aziendale che ruota proprio intorno a quella che è la implementazione di un sistema di gestione ambientale (in inglese, Environmental Management System, da ora in avanti EMS).

L’aspetto ambientale di responsabilità ha una rilevanza cruciale per tutte quelle aziende che vogliono provare all’esterno di possederne le credenziali: l’esigenza di apparire in un certo modo sposta gli equilibri del mercato, e le scelte d’allocazione del consumatore che sono influenzate inter alia dal posizionamento che la stessa impresa ha nella mente del pubblico. È, in ragione di quanto affermato, infatti ormai di vitale importanza che il pubblico venga a conoscenza degli sforzi profusi nell’andare al di là della mera conformità alla legge, per cui le aziende tendono sempre più a dimostrare le proprie credenziali in vario modo, spendendo talvolta cifre considerevoli nel certificare i propri sistemi di gestione ambientale, nella maggior parte dei casi su base volontaria. L’EMS di cui sopra è appunto lo strumento con cui le imprese tentano di farsi carico delle problematiche del proprio impatto sul contesto esterno: tutte quelle pratiche, processi, strumenti, programmi, sforzi e politiche – diversi di azienda in azienda – formali o informali; accreditati esternamente o meno; basati su standard interni o esterni. Dire che un’impresa sia ecologicamente sostenibile – e realmente informata al nuovo paradigma – vuol dire che la stessa adotti (o abbia adottato) un EMS, quale “processo di cambiamenti interni, ideati per identificare, misurare e controllare gli impatti ambientali delle imprese” (Bansal e Hunter, 2003), che portino al miglioramento continuo delle performance ambientali di un’impresa stabilendo strutture, processi e procedure capaci di fornire informazioni, articolare gli obiettivi, monitorare i risultati ottenuti, e intraprendere azioni corrette lì dove necessarie.

Sostenibilità e human resources nelle organizzazioni

La fase più delicata di un processo di greening e implementazione di un EMS, collegandoci al primo punto di cui sopra, riguarda proprio la risorsa/fattore ‘uomo’ all’interno della organizzazione, nel suo duplice e ibrido ruolo da un lato di causa dell’inquinamento, nonché motore di sua risoluzione, dall’altro di fattore su cui sia l’inquinamento che sua soluzione impattano. ‘Vittima e carnefice’ di un gioco apparentemente a somma 0, in cui attività inquinanti appaiono come inevitabili. L’essere umano, quale forse primaria risorsa aziendale, è il vero critical factor: sono le persone che prendono le decisioni, che implementano e scelgono le strategie. Le persone di cui un’azienda si dota e compone, che la smontano, la plasmano, la vivono. Persone con propri background culturali e valoriali, trascorsi, convinzioni. Etica. E se il valore ecosostenibile cui prima si è fatto riferimento è un valore quanto mai di difficile valutazione materiale, sia il thinking greenly che il feeling greenly (Gladwin, 1993), implementati in dinamiche di comportamento, procedure e processi organizzativi, si tramutano in un behaving greenly più che mai rientrante in una ‘sfera filosofica’, un foro interiore, modellata per questo da – e su – fattori tipicamente emozionali (Fineman, 1997).

L’informarsi al paradigma green di sostenibilità può, a questo punto, risultare una leva sensibile per i manager per toccare e ‘stressare’ alcuni processi precipui della gestione, sia in una visione (green) del tipo “top-down”, che “bottom-up” (Sitkin, 2011), con i primi più frequenti, basati appunto sulla implementazione di un EMS e metriche di performance e sistemi di reporting e auditing. Pre-condizione necessaria (ma non sufficiente) affinché si possa arrivare a imprese realmente verdi è un cambiamento, tipicamente interno, della visione dell’impatto che l’attività aziendale ha sull’ambiente circostante. Cambiamenti che si trasmettono e fluiscono poi nei valori, nelle politiche, nella tecnologia utilizzata, nei sistemi e nei processi in generale, e infine nei prodotti/servizi erogati. Suddette modifiche agiscono in ogni fase del processo di trasformazione; e hanno implicazioni sulla competitività della azienda stessa, sui costi, sui ricavi, sulle sue risorse e capacità, sulle relazioni che l’impresa stessa intrattiene con i suoi (gruppi di) stakeholder, e anche sul commitment (coinvolgimento) morale e organizzativo, e quindi anche sulla motivazione dei membri all’interno di una organizzazione (Crane, 2000). L’essere green è, in tal senso, frutto e opera di “sense-making” (Georg e Fussel, 2000), in cui il c.d. commitment ambientale emerge tramite e grazie a un processo di interazione sociale. Tali cambiamenti sono empiricamente collegati quasi indissolubilmente al significato emotivo che gli stessi manager o imprenditori, o ancora gli individui in azienda, attribuiscono alla tematica, alle pressioni, e alle aspettative e istanze provenienti dall’esterno: una serie innumerevole di studi ha mostrato che più un senior manager supporta, a livello aziendale, una strategia votata alla sostenibilità, le chance di una sua implementazione crescono in maniera esponenziale (Epstein, 2008), e questo perché il commitment a livello più squisitamente esecutivo, specie in quelle aziende molto centralizzate – e in cui si esercita un elevato controllo top-down – è in grado esso stesso di istituzionalizzare gli approcci green, aiutandoli a permeare all’interno della cultura aziendale

Il rischio cui si faceva riferimento prima può essere che alcune parti della azienda siano in grado di interiorizzare il nuovo paradigma, mentre altre no, e questo a causa di una scarsa comunicazione tra i departments, “managerial complacency”, o “apatia a livello di staff” (Werbach, 2009). Va tenuto ovviamente in conto che se da una parte possiamo avere un volàno per la motivazione; dall’altra si può generare un senso di frustrazione, lì dove le esigenze di un individuo vengano ignorate o disattese, o manchi del tutto tale sensibilità da parte dell’employer o dell’employee. Nel processo di greening, simili conflitti non sono ottimali. Si deve per questa ragione tener conto sia di una possibile inerzia dal vertice della organizzazione (e contro cui il personale si può ribellare), sia di una eventuale riluttanza degli stessi dipendenti nel cambiare le proprie abitudini lavorative, e questo per via di un disinteresse generale per la sostenibilità, o per mancanza di tale sensibilità, o ancora per il senso diffuso che il focalizzarsi su procedure rispettose dell’ambiente renderà più difficile la vita lavorativa. In questo caso, la chiave per coinvolgere i membri del personale potrebbe essere quella di offrire informazioni accurate alle persone in merito alla propria mansione, dando loro la responsabilità di guidare il cambiamento (empowerment), in modo che essi percepiscano una maggiore partecipazione. Una transizione green vera e propria significa trovare un “modello mentale condiviso” (Friend 2009).

Il greening organizzativo, in definitiva, non è mai un processo lineare e unidimensionale, bensì irregolare, che richiede il coinvolgimento di diversi stakeholder, tale per cui i dirigenti che cercano di implementare questa transizione verde dovranno pensare in termini sistemici, affrontare la sostenibilità non sulla struttura esistente.

Costruire la motivazione all’interno delle organizzazioni attraverso la sostenibilità ambientale

L’aspetto umano ed emotivo è tanto più importante nella misura in cui si entra nel delicato campo dell’organizational behaviour, e nell’ancor più delicato campo dei fattori che lo determinano e influenzano. Tra questi, sicuramente, la motivazione degli individui in azienda, intesa quale “processo dinamico che finalizza l’attività di una persona verso un obiettivo” (Costa e Gianecchini, 2009: 53), riveste un ruolo fondamentale. In quanto processo, questi è dinamico: la motivazione va seguita, curata, analizzata. ‘Costruita’. Nell’ottica del management ben si capisce come ciò sia di importanza e portata cruciale, nella misura in cui quest’ultimo sia impegnato nel mantenere elevato il livello delle prestazioni delle proprie risorse umane in ragione di una comprensione/studio delle dinamiche motivazionali. Le ricadute sull’organizzazione e sua sopravvivenza di un siffatto interesse, sia sul clima in azienda, che sulla felicità e benessere dei dipendenti, che ancora – but not least – sulla produttività, sono importanti. Fattori questi che derivano dal – e determinano il – possedere una forza lavoro motivata in un circolo virtuoso di motivazione moltiplicativa.

La motivazione va costruita. In tal senso, la sostenibilità oltre che fonte primaria o diretta di motivazione (nella misura in cui un dipendente si riconosce nell’attività aziendale e nei valori, in un processo di identificazione organizzativa, o ancora sia motivato dal lavorare in un’azienda sana che rispetti normative e ambiente), può essere un vero e proprio strumento per modellare e plasmare la motivazione di cui sopra. Affinché un processo di greening possa essere implementato e attecchire, potrebbero essere necessari, ad esempio, alcuni incentivi prima che tali strategie possano effettivamente filtrare, il che significa portare anche i responsabili delle risorse umane – e le risorse stesse – all’interno dell’equazione, strutturare la formazione della sostenibilità dei dipendenti, modellarne i comportamenti, seguirne l’implementazione, e organizzare eventuali ricompense. Sono gli individui – prima delle organizzazioni – a prendere decisioni, a selezionare e analizzare le informazioni rivenienti dall’esterno, e a mettere in pratica risposte eticamente connotate o conformate a un determinato comportamento. Tale aspetto è spesso legato al ruolo spesso manageriale di quelli che vengono definiti “champions ambientali” (Worthington, 2012: 75): lì dove la cultura e i valori fondanti di un’organizzazione conducano a un approccio ecologicamente sostenibile e responsabile. Questi stessi “leader ambientali”, poi, saranno ben propensi, invogliati o anche agevolati nel consentire all’azienda di ottenere un più elevato livello di commitment ambientale (Ramus e Steger, 2000), in relazione a poteri, discrezionalità, influenze e ruoli all’interno dell’organizzazione che questi detengono.

Chiedersi il legame tra motivazione, e ciò che a corollario ne consegue, e implementazione di un sistema di gestione ambientale, espande il paniere di motivazioni tali per cui l’essere green risulti oggi conveniente per le imprese, diventando un vero e proprio dispositivo/strumento nelle mani del manager o dell’imprenditore. Molte imprese stanno implementando questi strumenti proattivi e strategici proprio per migliorare le proprie prestazioni ambientali, ma anche la propria image (Morrow e Rondinelli, 2002). E l’implementazione di un EMS – nonché la sua manutenzione – può richiedere ingenti quantità di capitale e di tempo, e non di meno l’eventuale costituzione di strutture organizzativa ad hoc che ne assicuri il successo.

Come costruire, allora, tramite un EMS, la motivazione? Come creare o migliorare quel processo di identificazione ‘impresa-valori-individui’ ivi necessario? Come, ancora, l’allineamento e l’impatto sulla motivazione possono prendere piede in seno a tali sistemi? Si possono identificare nella teoria (su tutti, Daily e Huang, 2001) alcuni elementi propri di un corretto sistema di HRM per l’implementazione di un EMS, e per il successo dello stesso. Questi emergono come veri e propri suggerimenti o best practices da seguire. Strumenti, appunto, potenti nelle mani del management per veicolare variabili chiave della gestione. Questi riguardano in particolare:

1) Top management support

Il commitment c.d. ‘ambientale’ deve non solo essere assicurato, ma anche tradotto in azioni concrete, riassumibili nella costituzione di un piano integrato di comunicazione verso i dipendenti che contenga piani e policies di gestione ambientale, e nel cambiamento della cultura organizzativa.

2) Employee empowerment ed engagement

L’introduzione di un EMS può portare al risultato ottimale solo quando il personale ha la possibilità di contribuire al – e vivere il – cambiamento, e non solo di subirlo. Il management può allora sì incoraggiare e incentivare l’empowerment del personale, ma deve farlo attraverso cambiamenti nella struttura organizzativa che allarghino gli spazi di delega decisionale dei lavoratori. Organizzazioni troppo gerarchiche hanno risultati meno performanti in ambito di implementazione di sistemi di EM rispetto a coloro che invece prevedono maggiori livelli di delega per i propri dipendenti, dato che questi ultimi si sentono più motivati e coinvolti nel processo di cambiamento in quello che è un generale processo di degerarchizzazione organizzativa. Lavoratori motivati e con maggiore autonomia decisionale facilitano il – e contribuiscono al –miglioramento continuo dell’efficacia del sistema (Daily e Huang, 2001): aumentare l’empowerment dei e nei dipendenti, aumentando negli stessi in tal modo la volontà di mettere in atto suggerimenti per migliorie ambientali, è fondamentale per un sistema di EM. In un sistema top-down i motori primi sono tipicamente gli stessi manager o imprenditori, i quali mostrano impegno verso la questione ambientale; ma allo stesso modo, i valori ecologici dei dipendenti, e il loro coinvolgimento nelle attività di EM, sono considerati parimenti indispensabili. In definitiva, una cultura organizzativa che supporti l’EM è quella che incoraggia i dipendenti a fornire suggerimenti e impegno in attività che migliorino l’ambiente. In particolare, i dipendenti devono essere ben informati sulle tematiche ambientali che incidono sulla propria posizione. Le pratiche di c.d. Green Human Resource Management (GHRM) possono migliorare il benessere degli impiegati sul posto di lavoro, non da ultimo migliorando l’ambiente di lavoro stesso, e soddisfacendo le esigenze di una forza lavoro “sempre più ecologica”.

3) Recruitment e selection

Alcune aziende stanno adottando pratiche di GHRM al fine di migliorare la propria “attrattiva di selezione”: la reputazione ambientale e l’immagine che le organizzazioni danno all’esterno diventano – come visto – sempre più importanti, e questo è anche rinvenibile negli sforzi di assunzione da parte delle stesse: da un lato, le preferenze dei candidati per le organizzazioni green sembrano avere anche un impatto sulle pratiche organizzative; dall’altro è richiesto gli impiegati siano ben disposti a impegnarsi con le attività di EM, il che comporta un più o meno costante monitoraggio dei requisiti di competenza nel lungo termine per l’azienda, fornendo ai nuovi dipendenti informazioni sulle politiche e gli impegni di sviluppo sostenibile. Diventare un green employer, oltre a migliorare il branding del datore di lavoro stesso, e attirare potenziali dipendenti, può contribuire ad aumentare la motivazione e l’impegno dei dipendenti stessi (attraverso un insieme condiviso di valori), creare vantaggi competitivi, ridurre il turnover (perché l’organizzazione in cui ci si trova a lavorare è proprio quella in cui le persone vogliono lavorare). App, Merk e Büttgen (2012) suggeriscono, ad esempio, come la sostenibilità integrata e legata allo HRM possa aiutare le imprese a creare quello che loro chiamano “employer brand”, così da migliorare la reputation aziendale e l’attrattiva verso potenziali dipendenti (Hermann, 2005): le organizzazioni con una reputazione maggiore attraggono un pool più grande di gente in cerca di lavoro, dal quale tipicamente possono selezionare dipendenti di qualità più alta. Tutto questo con un ‘effetto moltiplicatore’ dato dalla ecosostenibilità.

4) Environmental training

Una delle vie per ottenere le profonde trasformazioni culturali di cui sopra è quella di far leva su programmi formativi attraverso i quali i lavoratori si sentano maggiormente coinvolti. Implementando specifici programmi di training sulle tematiche ambientali, infatti, si possono ottenere i seguenti benefici (Daily e Huang, 2001):

  • aumentare il livello di coinvolgimento e sensibilità del personale verso tematiche ambientali;
  • incrementare l’image dell’impresa;
  • aumentare la consapevolezza del personale sull’impatto ambientale dell’impresa;

Si ritiene che dipendenti ben addestrati e rispettosi dell’ambiente si trovino in una posizione ideale per identificare e ridurre gli sprechi, e molte aziende (specie in settori non prettamente green) stanno attuando tali politiche di suggestions. Anche per i nuovi dipendenti, programmi green oriented dovrebbero essere parte integrante del processo di formazione; così come informare gli stessi circa procedure e politiche verdi, i vantaggi della sostenibilità, e le varie iniziative in materia.

5) Employee involvement (EI) e Participation (EP)

La partecipazione più ampia di dipendenti nello EM, e il coinvolgimento degli stessi in progetti ambientali, è considerata cruciale per risultati di successo, e questo anche tramite c.d. circoli di problem solving, in cui il personale specializzato è coinvolto nell’avvio di un progetto, sviluppando una cultura sul luogo di lavoro che sostenga gli sforzi di miglioramento dell’EM stesso. A questo ben si collegano tutti altri e vari strumenti di work-life-balance o sharing, vedi settimane lavorative flessibili, o programmi di car-pool attraverso cui offrire gratuitamente – o comunque scontati – passaggi, o anche car-sharing come benefit per i dipendenti (Philpott e Davies, 2007). In tal senso, conferire ai dipendenti un certo grado di libertà e indipendenza nel generare soluzioni creative per risolvere i problemi, sfruttando al meglio le loro competenze, risulta una scelta premiante. Un tale approccio motiva il lavoratore, e consente di individuare problemi come sprechi nel processo di produzione a tutto vantaggio per l’azienda stessa, e quasi senza esborsi ulteriori: molte imprese, come detto, stanno incoraggiando i propri lavoratori a immaginare idee per ridurre le emissioni di CO2, risparmiare energia, ridurre gli sprechi, e riciclare gli scarti energetici e solidi rivenienti dai processi, e chi meglio dei dipendenti magari di prima linea produttiva può essere in grado di rispondervi. Oltretutto, l’uso della EP aiuta a migliorare la performance aziendale nella misura in cui gli impiegati posseggono il knowledge e le abilità che possono sfuggire ai manager di rango superiore.

6) Team-working

Alcuni studiosi sostengono che anche corrette pratiche di team-working possano facilitare la condivisione dei valori, lo scambio di competenze, nonché stimolare la nascita di idee e soluzioni scatenanti dal fisiologico conflitto. Team ‘multifunzionali’ possono essere, infatti, particolarmente utili per il raggiungimento dei miglioramenti ambientali trasversalmente ai dipartimenti. Un ruolo chiave per i responsabili ambientali delle risorse umane in tal senso potrebbe essere quello di guidare i manager di linea al fine di ottenere piena collaborazione del personale verso l’attuazione delle politiche ambientali, il che può avvenire solo se la società istituisce reti di comunicazione formali e informali con i propri dipendenti, in grado di evidenziare gli sforzi green da parte della società.

7) Sistemi di rewarding

Come in molti altri contesti, specie in ambito motivazionale, un sistema di rewarding si ritiene centrale nella promozione e nella incentivazione di pratiche di EM: riconoscimenti, materiali o immateriali che siano, quali come premi per l’eccellenza, o ancora, vacanze pagate, tempo libero, parcheggi privilegiati, generali ricompense e riconoscimenti ambientali come lodi quotidiane e premi aziendali, o sistemi di accumulamento punti per comportamenti positivi, etc., insomma tutte quelle attività che hanno un impatto significativo nell’incoraggiare i dipendenti in termini ambientali e sulla disponibilità degli stessi a generare c.d. eco-initiatives; rinforzi per incrementare la motivazione e il coinvolgimento del personale verso tematiche ambientali.

Su queste sette linee guida si modella il collegamento tra greening e motivazione in ambito organizzativo.

Conclusioni e spunti di riflessione

Da quanto detto, al netto di tutte le difficoltà riscontrabili nella introduzione e definizione di un valore ecologico, ergo di difficile valutazione materiale e/o monetaria, un qualcosa di quanto mai collegato al foro interno delle persone, all’etica e ai valori e soprattutto alle priorità degli stessi, non necessariamente allineate, tantomeno uguali tout court, risulta ormai evidente come oggi non sia più sostenibile una visione dell’azienda avulsa da e rispetto a quelli che sono gli impatti della stessa su un territorio circostante, o sull’ambiente in larga scala. E se una delle agende dell’amministrazione Trump riguarda proprio l’ambiente, o meglio un suo “sgonfiamento” nell’importanza, ci si sente in dovere di sottolineare quanto una simile affermazione lasci perplessi non tanto gli addetti ai lavori, quanto chi poi effettivamente nell’ambiente si muove, lo vive, lo smonta e lo modella. Lo abita. Se è altrettanto vero che, in una ipotetica scala gerarchica dei bisogni di matrice Maslowiana, il bisogno ecologico – o di sostenibilità ambientale che sia – si collocherebbe ai vertici della stessa, in un restringimento del campo man mano crescente dai paesi più poveri del mondo verso quelli più ricchi, il presente articolo non si pone l’obiettivo di indagare le priorità individuali, bensì – nel suo piccolo – di analizzare le motivazioni nonché i vantaggi che le imprese ottengono nell’informarsi al paradigma di sostenibilità ambientale, ascrivibili tanto a motivazioni di mercato, alla luce di un pubblico di consumatori sempre più colti e ‘pretenziosi’ (motivazioni positive), sia a motivazioni negative di una mera compliance a legislazioni, standard, normative e regolamenti entro cui attenersi, sia ancora a motivazioni se vogliamo ‘neutrali’ che riguardano obiettivi strategici tipicamente intraorganizzazionali: vale a dire introiettare la tematica nei processi, facendola esplodere in leva motivazionale per i dipendenti in azienda, a sua volta ancora riflettibile verso l’esterno in fase di acquisizione delle risorse umane, o retention di quelle già coinvolte. Il che – ben si comprende – è un fattore decisivo, sommabile a ogni altra leva individuabile nella teoria prevalete per poter ‘giocare’ con la motivazione delle persone, con la retorica del linguaggio, e stressare nonché indirizzare il comportamento degli individui all’interno delle organizzazioni. In questo modo, la sostenibilità diventa un fattore in grado di superare la dicotomia Herzbergiana tra “fattori igienici” e “fattori motivanti”, divenendo un qualcosa che in sua assenza, determina sì insoddisfazione, ma che quando presente, determina soddisfazione.

I ‘plus-obiettivi’ che le imprese assumono e raggiungono in ambito di gestione delle human resources, a seguito dell’informarsi al nuovo paradigma, diventano a questo punto due (Ehnert, 2009),

  • esse sono in grado di attrarre talenti ed essere riconosciuti come “employer of choice”, distinguersi dai concorrenti, acquisendo in tal modo un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza;
  • esse hanno la forza di trattenere una forza lavoro, la quale è fortemente motivata: persone che si sentono prese in considerazione dall’impresa, tenderanno ad essere più soddisfatte e “orgogliose” del proprio lavoro.

Entrambi, a loro modo, si riferiscono alla volontà nonché alla capacità di un’organizzazione – in ragione della sua responsiveness ambientale, e avendo riconosciuto nelle risorse umane il fattore primo su cui focalizzarsi – di far fronte economicamente e managerialmente a tale problematica, anche investendo nelle competenze individuali, veicolandone i valori, e creando sinergie con il contesto di coloro che devono entrare nel mondo del lavoro, partendo dalla prima formazione in modo tale da evitare gap etici e culturali (Sciarelli, 2007) tali che gli obiettivi della organizzazione divergano da quelli individuali. Ed entrambi, dal lato di coloro che lavorano in azienda, riguardano il foro interno degli individui, la cui percezione della organizzazione stessa gioca un ruolo centrale: da un lato, coloro che cercano un lavoro, o attuali dipendenti, sembrano essere altamente consapevoli della necessità che le organizzazioni imparino a trattare le risorse in modo più sostenibile, motivo per cui sempre più candidati cercano lavori che permettano loro di agire secondo i propri valori; dall’altra, dal punto di vista del datore di lavoro/impresa, l’HRM sostenibile non è solo rilevante per attrarre e mantenere talenti, ma anche più in generale per mantenere una forza lavoro sana e produttiva (Ehnert, 2009a), e ciò è particolarmente rilevante in contesti in cui le organizzazioni affrontano le conseguenze dell’invecchiamento della forza lavoro, o di sviluppi demografici, o di decisioni esogene (a livello locale, regionale, o di paese) riguardanti istruzione e formazione.

L’essere green, che sia vero, di senso, sentito, non fittizio, in definitiva, paga sotto ogni punto di vista.

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A cura di: Paolo Oliva

Profilo Autore

Nato a Napoli l’01/12/1992. Laureatosi alla magistrale in Economia Aziendale all’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ in luglio 2017, con la votazione di 110/110 e lode e menzione alla carriera, tra laurea triennale (in Economia e Commercio), ha da poco concluso il master di secondo livello in Bilancio, Revisione Contabile e Controllo di Gestione dell’IPE Business School di Napoli. Da ottobre lavorerà in KPMG S.p.A., Milano, Audit. Da sempre grande appassionato di lettura e scrittura.

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