Licenziamento del dirigente: giustificatezza e ingiustificatezza nella casistica giurisprudenziale (prima parte)

Operazioni non consentite

Il comportamento di un dirigente di azienda commerciale consistente nell’assumersi aree di competenza non proprie, ovvero nell’invadere il settore produttivo a lui non affidato, integra gli estremi della giustificatezza del licenziamento (ma non della giusta causa, essendo possibile la proficua utilizzazione della sua prestazione per il periodo di preavviso), posto che con tale comportamento il dirigente si pone in diretto contrasto con le scelte aziendali, imponendo un obiettivo non concordato con l’amministrazione della società (Trib. Milano, 8 gennaio 2001. Nella fattispecie concreta il dirigente – direttore commerciale – aveva organizzato la produzione interna di una macchina che la società datrice di lavoro aveva, sino a quel momento, solo commercializzato).

Cessazione di attività

La cessazione dell’attività di produzione di uno stabilimento e la conseguente soppressione della funzione di direttore tecnico e di produzione dello stabilimento medesimo, costituiscono ragioni oggettive che legittimano il licenziamento del dirigente che tale funzione ricopriva, restando insindacabile la scelta imprenditoriale di cessare la produzione e di chiudere o, comunque, dismettere lo stabilimento, a prescindere dall’esistenza, o meno, di uno stato di crisi. In particolare, il comportamento del datore di lavoro che, nonostante la posizione del dirigente all’interno dell’azienda e l’anzianità di servizio dello stesso, lo tenga all’oscuro delle decisioni aziendali e delle trattative sindacali riguardanti la chiusura dello stabilimento, così comunicandogli la risoluzione del rapporto da un giorno all’altro, non è certamente sorretto da correttezza e buona fede e tuttavia, riguardando, piuttosto, le modalità del recesso che non i suoi presupposti, non ha rilevanza nella valutazione di giustificatezza del licenziamento (Pret. Milano, 16 aprile 1996). Indipendentemente da ogni considerazione attinente a questa particolare fattispecie, la giurisprudenza ritiene comunque sempre giustificato il licenziamento del dirigente a seguito di chiusura di una filiale determinata da antieconomicità (Cass. 26 luglio 2006, n. 17013).

Soppressione della mansione e del posto

Deve ritenersi giustificato il licenziamento del dirigente per soppressione del posto concretizzatasi in pendenza del periodo di preavviso.

Il licenziamento del dirigente, motivato dalla soppressione della mansione – poi affidata a un quadro già dipendente dell’azienda – conseguente all’unificazione di due filiali, è assistito da giustificatezza, a prescindere dalla prova dello stato di crisi in cui l’azienda si sarebbe trovata (Trib. Milano, 5 luglio 2000).

In questi termini, analogo giudizio è stato dato con riguardo alla soppressione della mansione di direttore generale, motivata dall’esigenza di riduzione dei costi aziendali (Trib. Firenze, 11 giugno 1997) o, ancora, alla soppressione del ruolo di direttore commerciale a seguito dell’affidamento delle sue mansioni all’amministratore delegato.

Per il caso di recesso motivato dalla soppressione del posto di lavoro, dovuta a esigenze di riorganizzazione aziendale finalizzata ad una più economica gestione, anche se intimato prima della ristrutturazione stessa, la giurisprudenza ammette la giustificatezza (sull’insindacabilità dei criteri della ristrutturazione cfr. Cass., 3 giugno 1997, n. 4939; Cass., 30 marzo 1994, n. 3128. Per un caso analogo, di assorbimento di funzioni da parte dell’amministratore delegato, v. App. Milano, 18 settembre 1999. Per una fattispecie relativa a ipotesi di licenziamento intimato al dirigente per la necessità di assicurare all’azienda un livello professionale più adeguato, tenuto conto delle esigenze di cambiamento organizzativo della stessa, cfr. Cass., 1 aprile 1999, n. 3148), con la precisazione che l’insindacabilità delle decisioni economico-organizzative dell’imprenditore sotto i profili di congruità ed opportunità impone che la necessaria verifica della effettività delle scelte non comporti un’indagine in ordine ai margini di convenienza e di onerosità dei costi connessi alle modifiche apportate, atteso che la trasformazione ben potrebbe comportare un maggior costo, nella previsione dell’ottenimento di migliori risultati.

In particolare, in un caso specifico valutato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., 18 novembre 1999, n. 12603. Su questo aspetto specifico, peraltro, va segnalata la posizione contraria di Trib. Milano, 9 ottobre 2007, riferita al caso in cui i risultati negativi – in genere – “non siano l’effetto di specifici inadempimenti del dirigente”), una delibera assembleare con la quale si concentravano i poteri di amministrazione e di gestione in capo all’amministratore, basata su esigenze di economicità, aveva provocato la soppressione del posto di direttore generale, giustificando, secondo i giudici del merito, il licenziamento del dirigente che, fino a quel momento, aveva cumulato funzioni di direttore generale ed amministratore delegato.

In effetti, una volta che, esercitando il suo discrezionale potere, l’assemblea deliberi la nomina dell’amministratore, evidentemente il potere di gestione e di rappresentanza e le correlative funzioni non potranno più appartenere a colui che da direttore generale di fatto in precedenza li aveva esercitati, residuando invece, per lo stesso, l’unico rapporto di lavoro implicante lo svolgimento delle sole mansioni a questo collegate, derivandone che, nell’ottica di una ristrutturazione imponente il contenimento dei costi, è ben ipotizzabile che l’esercizio di queste ultime mansioni venga concentrato nelle mani dell’amministratore, con la conseguente soppressione del posto di lavoro subordinato di direttore generale.

La soppressione della “funzione” aziendale ricoperta dal dirigente ne giustifica il licenziamento, con esclusione sia della ricerca della possibilità di adibire quest’ultimo ad attività equivalente, sussistendo una sola figura di “responsabile del personale”, sia della violazione da parte aziendale del principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto.

Anche per il mancato raggiungimento di determinati minimi di fatturato, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che la circostanza può incidere sull’assetto del personale e, in particolare, può rendere non più conveniente per l’impresa la presenza di un dirigente, il cui licenziamento, secondo la giurisprudenza, è quindi giustificato, poiché rientra fra i poteri dell’imprenditore quello di organizzare l’azienda al fine di ottenere il migliore risultato economico. Questo vale, a maggior ragione, laddove risulti una specifica inadempienza ad obblighi – di fatturato e/o di clientela – assunti in sede di instaurazione del rapporto quali obiettivi determinanti nell’assetto di interessi voluto dalle parti (Cass., 23 febbraio 2002, n. 2639).

Ristrutturazione e riorganizzazione

A proposito di ristrutturazione e/o riorganizzazione aziendale (per la non spettanza dell’indennità supplementare in fattispecie di licenziamento di dirigente da parte di società in stato di dissesto v. Coll. arb. dir. comm. Milano, 8 gennaio 1985; Coll. arb. dir. ind. Lecco, 14 ottobre 1982; Coll. arb. dir. comm. Milano, 12 dicembre 1983, per l’affermazione che è indifferente, ai fini della valutazione del collegio, che il licenziamento sia inserito o meno in un provvedimento “collettivo”; Coll. arb. dir. ind. Cremona, 7 giugno 1978. Secondo Coll. arb. dir. ind. Lecco, 14 ottobre 1982, ove l’azienda si trovi in stato di dissesto, emergente dalla procedura concorsuale in atto – nel caso di specie, mediante cessio bonorum – deve ritenersi “improponibile” il ricorso al collegio per la necessaria “giustificatezza” del connesso licenziamento), la giurisprudenza ha avuto modo di statuire che il relativo licenziamento può essere effettuato anche prima dell’attuazione della ristrutturazione, ed in vista della medesima, che trovi esecuzione nel corso o al termine del periodo di preavviso (Cass. 19 novembre 1997, n. 11519, la quale rileva che, ragionando diversamente, si arriverebbe a conseguenze inaccettabili sul piano economico, per cui l’imprenditore dovrebbe o pagare sempre l’indennità di preavviso o mantenere, per tutto il decorso del termine di preavviso, personale in esubero rispetto alle reali necessità dell’azienda), dovendosi ritenere del tutto legittimo e giustificato il relativo recesso (da tenere presente che, secondo App. Firenze 23 novembre 2005, non ricorre il requisito della giustificatezza nel caso in cui dalla comunicazione di recesso emerga il connotato meramente eventuale e potenziale, non attuale, della soppressione del posto di lavoro).

Qualora gli addebiti su cui si basa il recesso in tronco del datore di lavoro siano contestati in modo generico, infondati e neppure indicati nella lettera di risoluzione del rapporto, il licenziamento va considerato ingiustificato ed è perciò dovuta l’indennità supplementare, per il calcolo della quale va tenuto conto del comportamento adottato dal datore di lavoro in occasione del licenziamento. Il giudice ha condannato l’azienda al pagamento di venti mensilità, considerando che la procedura di licenziamento era stata avviata su un coacervo di addebiti, dei quali alcuni non indicati nella lettera di licenziamento e rilevando, altresì, che il dirigente aveva subito notevoli danni per le modalità del licenziamento e per le notizie relative della stampa locale (Cass. 15 maggio 2000, n. 6269).

In ogni caso, non è irragionevole né incomprensibile puntare alla riduzione dei costi, anche soltanto attraverso il solo licenziamento del dipendente di maggior livello retributivo, purché tuttavia si dia corso, a scopo di risparmio, a una soppressione reale ed effettiva della funzione dirigenziale e non ci si limiti a una mera redistribuzione degli incarichi (Trib. Roma, 24 marzo 2004, che si riferisce al caso dell’assegnazione dei compiti ad un dirigente di società collegata; Trib. Milano, 18 ottobre 1995. Per un’identica affermazione, cfr. Trib. Milano 4 giugno 1994), ovvero risulti che le mansioni svolte dal dirigente licenziato siano state in realtà assegnate per lo più a lavoratori assunti successivamente al licenziamento (Trib. Bergamo, 25 luglio 2006). In particolare, nel caso di specie, il giudice non ha rilevato alcuna ristrutturazione né alcun ridimensionamento dell’impresa e quindi, in definitiva, alcun risparmio duraturo ed avvertibile, restando, anzi, del tutto inalterata l’organizzazione aziendale e risultando, invece, l’unico effetto di precostituire le condizioni per procedere al licenziamento del dirigente, che è obiettivo di per sé infondato.

Piuttosto, è da segnalare la significativa posizione assunta da una decisione della S.C. che ha confermato la decisione di merito nella quale il tribunale, pur negando che fosse stata operata una vera e propria ristrutturazione, ha peraltro riconosciuto effettivamente la necessità reale e non fittizia di ridurre i costi particolarmente elevati del trattamento retributivo corrisposto al dirigente, ma ha escluso che detta esigenza costituisse quel motivo serio e ragionevole, coerente con la realtà aziendale, tale da rendere giustificato il licenziamento, disattendendo, peraltro, l’orientamento interpretativo e giurisprudenziale formatosi con riferimento alla nozione, necessariamente più rigorosa, del giustificato motivo di cui all’art. 3, legge n. 604/1966 (v., sul punto, Cass. 20 novembre 2001, n. 14604; Cfr. Cass. 13 novembre 1999, n. 12603; Cass. 30 marzo 1994, n. 3128. Nella giurisprudenza di merito, v. App. Ancona, 2 ottobre 2006).

In un altro caso è sembrato “motivo serio e sufficiente di giustificazione” del licenziamento la nuova organizzazione dell’attività aziendale, consistente nell’accentrare nelle funzioni di dirigenti della capogruppo le attività che prima erano svolte nell’ambito europeo dalla società interessata, nel settore di produzione e vendita di elettrodomestici cc.dd. bianchi. Tra queste funzioni sono state soppresse anche quelle del dirigente, assunto per la sua specifica competenza per incrementare nel mercato europeo le vendite di tali prodotti e per sviluppare l’acquisizione di aziende (Trib. Milano, 17 maggio 1995). Tra l’altro, nel caso specifico, è stato escluso anche il diritto del dirigente ad una ricollocazione presso altre società del gruppo che, avendo una diversa e autonoma personalità giuridica, non hanno assunto obblighi nei confronti del lavoratore; la lettera di assunzione, infatti, non riconosceva un diritto al dirigente, ma riservava alla società stipulante il potere di pretendere l’esplicazione di attività nell’interesse di altre società del gruppo, come sempre avviene nelle assunzioni in multinazionali in cui gli interessi delle società sono comuni o collegati.

È stato dichiarato legittimo il licenziamento di un dirigente dovuto alla necessità di ridurre le spese di esercizio, in vista di un processo di sostanziale dismissione dell’azienda, essendo, in questo senso, del tutto ragionevole puntare alla diminuzione dei costi anche attraverso il solo licenziamento del dipendente di maggior livello retributivo, soprattutto qualora la stessa funzione di questi all’interno dell’organizzazione produttiva, come nel caso specifico, risulti, per ragioni oggettive, in via di esaurimento (Trib. Milano, 4 giugno 1994. La decisione di primo grado di Pret. Milano, 23 novembre 1993, qualifica “causa ragionevole e meritevole di tutela” la soppressione della posizione, alla luce dell’interpretazione complessiva e contrattuale). In effetti la società, che si trovava in una situazione marcata di crisi economica e finanziaria, valutato il prevedibile decorso successivo e programmato lo svolgimento, anche nei tempi, delle operazioni di chiusura, ha comunicato al responsabile della produzione – dirigente – il licenziamento con preavviso, scaduto il quale hanno avuto luogo, sostanzialmente, la dismissione della produzione e, successivamente, la chiusura.

In questo senso, la giurisprudenza ha chiarito – in un caso analogo – che deve ritenersi legittimo il licenziamento di un dirigente (direttore amministrativo) per soppressione del posto, da parte di azienda in fase di cessazione della sua attività, ritenendosi inutilizzabile – nel caso di specie – l’istituto del repêchage nei confronti di dipendenti di grado elevato, che costituirebbe “un’interferenza nella libertà imprenditoriale” (Pret. Milano, 18 febbraio 1987, in fattispecie relativa al contratto dirigenti del settore credito).

Sotto un differente approccio si è distinta una giurisprudenza che attribuisce estremo rilievo, nella valutazione dei profili di giustificatezza, a “ragioni di natura puramente economica, atteso che qualsiasi impresa ha l’indefettibile esigenza di procurarsi, al minor costo possibile, i fattori della produzione (ivi compreso il lavoro)” e che, comunque, “il procedimento di licenziamento deve essere funzionale al successo dell’impresa, che si persegue soprattutto perseguendo un lucro”, nella logica della regola assiomatica e riassuntiva per cui “la decisione di assumere o licenziare un dirigente costituisce una tipica scelta imprenditoriale il cui fine non può essere altro che il successo dell’impresa” (Trib. Arezzo, 12 ottobre 2002; v. anche Trib. Arezzo, 19 agosto 2002).

Piuttosto è da tenere in un certo conto l’orientamento, avente natura sensibilmente rafforzativa di quello corrente, secondo cui anche nell’ipotesi di licenziamento per motivi di carattere economico conseguenti a scelte organizzative dell’impresa “è indispensabile valutare la natura fiduciaria del rapporto di lavoro del dirigente”; pertanto, in ragione della peculiare natura di tale rapporto, “è giustificato il licenziamento motivato dalla convenienza della riduzione dei costi gestionali, non essendo necessaria l’esistenza di una conclamata crisi economica aziendale” (App. Firenze, 25 ottobre 2005).

Sotto un altro profilo, deve ritenersi ingiustificato il licenziamento di un dirigente allorché, in ipotesi di riduzione di personale, l’impresa (assicuratrice) non abbia provato alcunché in ordine alla giustezza della scelta: nel caso di specie l’azienda aveva licenziato tre dirigenti su sei, in ragione di una crisi aziendale (Coll. arb. dir. ass., 15 marzo 1984).

Fermo restando quanto sinora detto, va sempre ricordato il limite generale che si frappone ad un legittimo esercizio del potere di recesso, consistente nella veridicità dei motivi addotti e, conseguentemente, nella corrispondente valutazione complessiva in termini di buona fede del relativo comportamento (a questo proposito, la S.C. si è espressa per la configurabilità del valido motivo di licenziamento a fronte di un’effettiva ristrutturazione che aveva comportato la smobilitazione della struttura cui era preposto il dirigente licenziato: cfr. Cass. 13 gennaio 2003, n. 322). In questi termini, la Suprema corte ha statuito l’inesistenza della giustificatezza in una fattispecie nella quale le risultanze dell’istruttoria avevano permesso di accertare sia che il dirigente licenziato non era mai stato addetto al settore la cui ristrutturazione era stata indicata quale causa della risoluzione del rapporto, sia che la riorganizzazione di altri settori dell’azienda, pure richiamata per giustificare il recesso, era stata effettuata in un tempo apprezzabilmente anteriore al licenziamento (Cass. 20 giugno 2003, n. 9896).

Piuttosto severo, su questi profili, l’approccio di altra giurisprudenza della S.C., la quale, dopo aver ribadito “l’onere probatorio del datore di lavoro in ordine alla veridicità, fondatezza ed idoneità dei motivi addotti a giustificazione del recesso”, sulla base di tali principi ha confermato la decisione di merito che aveva escluso la legittimità del licenziamento di un dirigente di azienda industriale basato su esigenze di soppressione del settore marketing, pur a fronte di un’aumentata o inalterata produttività dello specifico settore cui era preposto il dirigente licenziato e, dunque, in ultima analisi, rivelatesi alla realtà dei fatti inveritiere (Cass. 12 febbraio 2000, n. 1591).

Una vistosa incongruenza è stata, invece, rilevata dalla giurisprudenza nel singolare caso nel quale la ristrutturazione aziendale – ragione formale del licenziamento – non poteva essere invocata come causa del venir meno di una posizione di lavoro che aveva fatto parte – a tutti gli effetti – delle modalità di esecuzione del progetto organizzativo della ristrutturazione stessa (Trib. Milano, 28 novembre 1995).

 

Articolo a cura di Pasquale Dui

Profilo Autore

Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista

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