Licenziamento del dirigente per giusta causa: casistica giurisprudenziale (parte I)
Correttezza e buona fede in generale
In via generale, sono stati ravvisati gli estremi della giusta causa nella violazione, da parte del dirigente, dei doveri di correttezza e buona fede nei confronti dell’azienda, concretizzatasi, nel caso di specie, nello scarso impulso dato all’ordine della direzione di adeguare tempestivamente il laboratorio di analisi dell’azienda, informandolo alla metodologia utilizzata dal servizio pubblico, e nel generico scarico di responsabilità per un episodio di inquinamento determinante una crisi aziendale, indicativa di una sostanziale inadeguatezza del dirigente a fronteggiare l’emergenza (Pret. Massa 12 ottobre 1989).
Cattiva condotta del dirigente
A proposito della cattiva condotta del lavoratore, sicuramente idonea a compromettere il vincolo fiduciario del rapporto (non solo dirigenziale), attinente a fatti commessi o comportamenti tenuti nella vita privata e, in questo senso, al di fuori del rapporto di lavoro e delle obbligazioni connesse, la S.C. ha avuto modo di stabilire che “può legittimamente ricorrersi al licenziamento per giusta causa, a norma dell’art. 2119 c.c., anche con riferimento a situazioni che, pur non concretizzandosi in inadempimenti del lavoratore, incidono in maniera tale sull’aspetto fiduciario da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro” (Cass. 7 novembre 2000, n. 14446. Il caso riguarda un dirigente responsabile del settore commerciale che aveva assunto la qualità di socio e amministratore di un’impresa concorrente).
Anche il comportamento del lavoratore che utilizza il telefono aziendale per comunicazioni personali in misura smodata, costante e reiterata (ma il ragionamento può essere agevolmente esteso ad altri benefits e/o beni aziendali), nonostante tale condotta sia vietata non solo dal codice disciplinare o, comunque, da specifico regolamento interno ma anche – e soprattutto – da specifici richiami del datore di lavoro all’osservanza del divieto, è stato valutato dalla giurisprudenza come manifestazione di disinteresse verso le esigenze organizzative dell’azienda. Tanto è bastato, nel caso specifico, secondo la S.C., a qualificare come inefficace qualunque sanzione conservativa diretta a dissuadere il lavoratore dalla reiterazione della condotta contestata, configurando, dunque, un notevole inadempimento dei doveri contrattuali del dirigente e legittimando il licenziamento – non per giusta causa, ma – per giustificato motivo soggettivo (Cass. 10 luglio 2002, n. 10062).
Obbligo di vigilanza
Secondo la giurisprudenza di merito, sussiste la giusta causa di licenziamento di un dirigente (con negazione delle indennità di preavviso e supplementare) nel caso in cui, a seguito dell’inadempimento dell’obbligo di vigilanza a suo carico – desumibile, oltre che per la posizione di vertice che rivestiva, in qualità di direttore di stabilimento, anche dalle singole operazioni che gli erano state commesse – in azienda si siano verificati ammanchi di materiale (nel caso concreto, fogli d’oro) dei quali il dirigente medesimo, interpellato dal datore di lavoro, non abbia fornito chiarimenti e spiegazioni (App. Venezia 30 giugno 2000).
Abusivo impossessamento di beni aziendali
Nel caso di abusivo impossessamento di beni aziendali da parte del dipendente (dirigente), ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione non l’assenza o la speciale tenuità del fatto (rilevanti in sede penale), ovvero la circostanza che il fatto illecito sia stato commesso fuori dall’orario o dal posto di lavoro, “ma la ripercussione sul rapporto di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento – in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti – specie quando non sia possibile per il datore di lavoro apprestare sicure difese idonee a impedire furti o comunque manomissione di materiali aziendali” (Cass. 18 giugno 1998, n. 6100).
La Corte d’Appello, nel caso di specie, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto sorretto da giusta causa il licenziamento di un dirigente della Standa, sorpreso in un’altra filiale, sita in una città diversa, a occultare sulla propria persona alcuni oggetti di modestissimo valore economico, quali una confezione di chiavi tubolari e un paio di solette da scarpe. In particolare, il giudice del merito ha valutato la condotta del dirigente come connotabile di un certo disvalore, a prescindere dalla entità del danno prodotto, in considerazione delle caratteristiche dell’organizzazione di vendita – ben note al dipendente/dirigente per il ruolo dallo stesso ricoperto – che consistevano nell’offerta al pubblico dei consumatori di merci direttamente prelevabili e richiedevano, come tali, una correttezza e una trasparenza del comportamento individuale di non secondaria rilevanza. In questo senso, il giudice ha dato il dovuto rilievo alla posizione particolarmente qualificata di dirigente – di una filiale della società datrice di lavoro – rivestita dal dipendente licenziato e all’elevato grado di diligenza e affidabilità da lui per ciò stesso esigibile, traendo da tutto ciò che l’elemento fiduciario del rapporto era irrimediabilmente compromesso.
Minacce, invettive, ingiurie, maldicenze
Anche eventuali frasi minacciose pronunciate da un dirigente d’azienda possono costituire giusta causa, salva la verifica giudiziale – di stretta competenza del giudice del merito – dell’effettiva portata ed efficacia intimidatoria (Cass. 28 dicembre 1999, n. 14637). Nel caso specifico, nel corso di trattative informali con il direttore del personale per una risoluzione consensuale del rapporto, e in un momento di alterazione a fronte di offerte ritenute irrisorie, il dirigente aveva affermato che la controparte avrebbe potuto pentirsi della mancata accettazione delle sue proposte, anche perché c’erano situazioni che avrebbero potuto far chiudere le filiali e bloccare l’attività dell’azienda. Il giudice del merito, con statuizione sul punto confermata dalla S.C., aveva ritenuto che le espressioni, per la loro genericità ed il contesto, non potevano avere avuto effettiva idoneità intimidatoria.
Sotto un altro profilo, piuttosto frequente nella pratica, vengono in considerazione i casi di invettive del lavoratore contro i propri superiori e/o datori di lavoro, nei quali la giurisprudenza di merito ha ravvisato gli estremi della giusta causa, specificamente nel comportamento di un dirigente che rifiuti di ritirare un documento e di firmare per ricevuta, e rivolga espressioni ingiuriose nei confronti del presidente della società, alla presenza di dipendenti e collaboratori della stessa (in generale, Cass. 7 giugno 2005, n. 11782).
In simili eventualità, il comportamento del lavoratore viene ritenuto sanzionabile con il licenziamento per giusta causa, tenuto anche conto della qualifica dirigenziale rivestita e, quindi, dello stesso vincolo fiduciario intercorrente fra lui e la Società, vincolo che non può non ritenersi irreparabilmente leso quando, come in casi del genere, il dirigente si pone in posizione di aperta contrapposizione con la società (Trib. Torino, 3 ottobre 1997).
Ancora, si è prospettata la configurabilità della giusta causa nell’atteggiamento conflittuale e ingiurioso nei confronti dei vertici dell’azienda, con il quale il dirigente rivendicava l’attribuzione di una gratifica annuale, in violazione dei rapporti di collaborazione per il raggiungimento degli obiettivi aziendali (Trib. Milano, 20 luglio 1993, secondo cui la fondatezza del recesso aziendale va ricercata nel modo con cui il dirigente ha portato avanti le proprie tesi, abbandonandosi a valutazioni sulla condotta dei colleghi e dei superiori, offendendo gratuitamente e rendendo la propria condotta incompatibile con i doveri aziendali).
In un caso riconducibile alle tematiche in esame, basato, quanto a valutazioni di illiceità del comportamento del dirigente, sui principi attinenti sia la giustificatezza che la giusta causa, nell’ambito delle rispettive categorie concettuali, la S.C. ha ritenuto idonea a pregiudicare il rapporto di fiducia la condotta di un dirigente che aveva comunicato a un collega fatti non veri e disdicevoli sul conto della società e del suo presidente e aveva determinato talvolta un intralcio al normale svolgimento dell’attività produttiva (Cass. 19 agosto 2005, n. 17039, che ha ritenuto valido il licenziamento per giusta causa).
Lavoro a termine
In particolare, nel caso di un contratto di lavoro dirigenziale a tempo determinato, in caso di risoluzione anticipata da parte del datore di lavoro e non sorretta da una giusta causa, in fase di liquidazione del danno non è possibile – una volta esclusa la mancanza di diligenza nella ricerca di un nuovo lavoro – disattendere la richiesta di un risarcimento commisurato alle retribuzioni perse fino alla naturale conclusione del contratto, mediante il semplice e non validamente giustificato ricorso ad una liquidazione equitativa (Cass. 28 dicembre 1999, n. 14637). Trattandosi, come detto, di rapporto dirigenziale a termine (5 anni), la controversia verteva anche sul quantum e sulle modalità dell’indennizzo, soprattutto in ordine alla detraibilità dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum. A proposito di ciò il giudice d’appello ha ritenuto che, se pure era molto probabile che al momento in cui trattava le dimissioni il dirigente dovesse sentirsi economicamente sicuro di poter reperire con tranquillità una nuova occupazione, era certo, invece, che dopo l’imprevedibile licenziamento in tronco e gli inevitabili strascichi giudiziari, fossero venute meno le probabilità di ricollocarsi al lavoro, atteso che un licenziamento in tronco per motivi disciplinari – a prescindere dall’esito e dai costi dell’impugnazione – non passa inosservato nell’ambito della ristretta categoria dei dirigenti.
Lesione del diritto alla riservatezza
Un caso molto delicato che è stato sottoposto al vaglio della giurisprudenza è quello del dirigente che produca la lesione del diritto soggettivo di un collega, come quello alla riservatezza delle comunicazioni telefoniche, assistito da garanzia costituzionale (art. 15 Cost.: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”): nel caso specifico si trattava di un dirigente che, per mezzo di un apparecchio dallo stesso fatto installare, aveva controllato i numeri telefonici chiamati, la data, l’ora e la durata – ma non il contenuto – delle conversazioni telefoniche fatte da altro dipendente dell’azienda. In un simile caso, la S.C. ha giustificato il licenziamento senza preavviso (Cass. 17 novembre 1997, n. 11403) rilevando, quanto alla gravità degli addebiti, anche sotto il profilo soggettivo, che gli stessi possano ben giustificare tale provvedimento espulsivo, quando si tratti della lesione di un diritto soggettivo di un collega, come quello alla riservatezza delle comunicazioni telefoniche.
La medesima fattispecie è stata affrontata dalla giurisprudenza di merito, la quale ha similmente deciso nel senso che tale violazione “si deve definire come comportamento non conforme agli obblighi di diligenza e correttezza dovuti, anche ai sensi degli artt. 1175 [comportamento secondo correttezza: “Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”] e 2104 c.c. [diligenza del prestatore di lavoro: “Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa…”], da un dirigente, perciò giustamente licenziato” (Trib. Milano, 17 maggio 1995). In questo senso è, dunque, indiscutibile che il datore di lavoro possa reagire (secondo i modi previsti dall’ordinamento) nei confronti del dipendente (dirigente) che ha violato gli articoli suddetti, anche quando la violazione riguardi un componente dell’organizzazione cui appartiene il dipendente scorretto. Tale conclusione si ricava dal fatto che il datore di lavoro è tenuto ad assicurare – nei confronti di tutti i dipendenti – l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori (art. 2087 c.c. – Tutela delle condizioni di lavoro: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”).
L’interesse dell’imprenditore alla violazione può rilevare – quale elemento ostativo di sanzioni proprie dell’ordinamento nei riguardi del dipendente colpevole – solo per casi limite in cui fossero rilevabili un ordine e/o un suggerimento e/o una tolleranza aventi ad oggetto il comportamento scorretto; e salvo che questo non sia, per ragioni strutturali, definibile come comportamento sempre direttamente riferibile all’impresa.
Eccesso di potere
Un altro caso molto interessante è quello del dirigente che, in nome e per conto della società datrice di lavoro, abbia sottoscritto una modifica di patti contrattuali, rivelatasi poi, in concreto, onerosa per l’azienda. Secondo la giurisprudenza tale comportamento integra solo gli estremi del giustificato motivo di licenziamento, ma non quelli della giusta causa, trattandosi, comunque, nello specifico caso, di atto rientrante nei poteri di rappresentanza del dirigente, e dall’antieconomicità non immediatamente percepibile, “sì da potersi escludere il dolo e la colpa grave, in relazione ai primari doveri di diligenza e fedeltà” (Cass. 1° settembre 2004, n. 17582). La decisione sottolinea particolarmente, come parziale esimente a favore del dirigente, proprio il fatto che la troppa onerosità dell’accordo siglato non fosse elemento di immediata percezione, avendo la stessa società dichiarato essere occorsi più mesi di verifica contabile e amministrativa, pur convenendo sul punto che si è in presenza, da parte della società, di un comportamento di un suo dirigente non vantaggioso e che, ragionevolmente, può minare la fiducia nei suoi confronti.
A questa tematica si riconnette la decisione che ha stabilito che, qualora il dirigente compia alcuni atti in nome del datore di lavoro, esorbitando dai limiti del mandato ricevuto, sussiste una giusta causa di licenziamento, che non è automaticamente esclusa dalla successiva ratifica di tali atti da parte del datore di lavoro (Cass. 28 maggio 1982, n. 3296). Nel caso di specie, il dirigente aveva assunto alcuni lavoratori e fatto svolgere ore di lavoro straordinario senza averne il potere.
Articolo a cura di
Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista