Licenziamento del dirigente per giusta causa: casistica giurisprudenziale (parte II)
La prima parte dell’articolo è stata pubblicata qui.
Dovere di fedeltà
Le violazioni del dovere di fedeltà (art. 2105 c.c.) si ritengono generalmente riconducibili alla fattispecie della giusta causa e tale dovere si sostanzia nell’obbligo, di carattere generale, previsto dall’art. 1175 c.c., di comportamento secondo le regole della correttezza, ed altresì nell’obbligo, previsto specificamente nel campo contrattuale dall’art. 1375 c.c., di comportamento secondo buona fede (Cfr. App. Cagliari 3 agosto 2004, per il caso singolare di accertata violazione dell’obbligo di fedeltà nella divulgazione da parte del lavoratore nel corso di un’assemblea sindacale del contenuto di una lettera inviata da un dirigente dell’azienda ad altri dirigenti contenente notizie riservate attinenti all’organizzazione aziendale), significando che tale dovere giuridico viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito con il proposito doloso di recar pregiudizio all’altra, ma anche se il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato alla schiettezza, alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà e fiducia reciproca (Sull’accertamento, in concreto, della lesione del vincolo fiduciario, cfr. Cass. 25 febbraio 1986, n. 1173) che integrano, appunto, il contenuto della buona fede e che debbono presiedere ad un regolare svolgimento del rapporto di lavoro (Cfr., sin d’ora, salvo i successivi richiami per la fattispecie concreta, Cass. 1° giugno 1988, n. 3719).
Cosi è nel caso del dirigente che abbia stipulato, senza comunicarlo al proprio datore di lavoro, un contratto di consulenza con un’altra società che abbia interessi confliggenti con la società datrice di lavoro (Trib. Roma 18 novembre 1996, per una fattispecie riguardante un dirigente della Gepi che aveva stipulato un contratto di consulenza con una società ceduta dalla stessa Gepi in base ad un contratto di compravendita che prevedeva, fra l’altro, l’assunzione, da parte della società cedente, di una garanzia entro un certo periodo per l’eventuale insorgenza di sopravvenienze passive).
Anzi, in materia, vige proprio il principio – valido per ogni rapporto di lavoro privato – per cui le “situazioni di incompatibilità, in senso ampio, in cui versa il dipendente, possono esclusivamente configurare violazioni dell’obbligo di fedeltà” (Cass. 14 febbraio 1996, n. 1131).
In questi termini, la giurisprudenza ha avuto modo di occuparsi della vicenda di un dirigente di banca – tenuto, notoriamente, per legge (art. 9, comma 2, r.d.l. 12 marzo 1936, n. 375, convertito con legge 7 marzo 1938, n. 141, recante disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia, ora trasfuso nel d.lgs. 385/1993, TUB) al divieto di ricoprire cariche di amministratore, sindaco e direttore in altre aziende, senza l’autorizzazione dell’Ispettorato per la difesa del rispamio e per la disciplina e l’esercizio del credito – che ha violato tale divieto, concretando la suddetta situazione di irregolarità la quale “costituisce illecito disciplinare che può anche giustificare un provvedimento di licenziamento” (si tratta della sentenza citata precedentemente. Nel caso specifico, il datore di lavoro aveva rifiutato la prestazione lavorativa motivando tale rifiuto con l’esistenza di uno stato di incompatibilità, ma senza adottare alcun provvedimento disciplinare che del rifiuto costituisse il presupposto: in questo modo la Corte ha statuito che rimaneva inalterato l’obbligo di corrispondere la retribuzione, a meno che lo stesso datore di lavoro dimostrasse la specifica necessità di impedire lo svolgimento della prestazione lavorativa per evitare un pregiudizio concreto e attuale).
Sotto un altro profilo, la giusta causa è stata, altresì, rilevata nel comportamento del dirigente che costituisca, insieme alla moglie e ad altri familiari, una società di capitali avente ad oggetto attività simile a quella del datore di lavoro e l’amministri (Trib. Lecco 29 marzo 1991), ovvero nel comportamento del responsabile commerciale e marketing il quale abbia costituito, sia pure con il mezzo di una società di capitali, una società in concorrenza con la datrice di lavoro, venendo a porsi sullo stesso mercato ed assumendo un interesse personale nella conclusione di affari, in un ambito ove comunque era nota la sua permanente qualità di dirigente dell’azienda datrice di lavoro (Trib. Firenze, 31 ottobre 1988) ovvero, ancora, nel fatto del lavoratore che, durante il preavviso, si era adoperato al fine di sottrarre la rappresentanza commerciale di alcune ditte alla società da cui dipendeva, per ottenerla in proprio, “anche se tale comportamento non integri gli estremi della concorrenza sleale” così come disciplinata dalle specifiche norme del codice civile e, dunque, qualificabile come tale in senso proprio (Cass. 16 gennaio 1988, n. 299. Nel caso di specie, poi, i giudici di merito avevano accertato che il comportamento illecito del dirigente si era svolto non soltanto durante il preavviso ma anche prima che le dimissioni fossero date).
Ancora, si è presentato il caso del dirigente responsabile del settore commerciale che passi a un’impresa concorrente unitamente a tutti i suoi collaboratori, integrando il trasferimento in blocco un danno sleale e illecito per l’impresa, che si vede privata, senza preavviso e inopinatamente, di un settore essenziale quale è quello addetto alla vendita dei prodotti (Pret. Fermo 25 settembre 1991).
Sotto un profilo sensibilmente diverso, si può ricordare il caso del dirigente di un istituto di credito che aveva costituito una società finanziaria concorrente, con sottoscrizione anche di azioni, violando, così, sia l’art. 2105 c.c., che l’art. 9 del c.c.n.l. di settore (oggi art. 4, c.c.n.l. vigente), che vieta al personale direttivo di svolgere “attività contraria agli interessi dell’azienda” (Cass. 17 febbraio 1987, n. 1711). La S.C., a questo proposito, ricorda l’esigenza che siano sanzionati con il licenziamento (per giusta causa) non solo i comportamenti vietati per espressa disposizione legislativa, “ma anche tutti quelli che, per la loro natura e per le loro conseguenze, appaiono in contrasto (o ‘incoerenti’) con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono, comunque, idonei a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro”.
In ogni caso, come già visto, il dirigente deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 c.c. (“Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”) “ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario”. In questo senso, la S.C. ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di un dirigente la cui moglie aveva acquistato la proprietà di una quota di una società concorrente con quella nella quale egli era occupato, a nulla rilevando che i coniugi fossero in regime di separazione dei beni, che tra le due società vi fosse una notevole differenza quanto alla dimensione e che la società di cui la moglie aveva acquistato la quota fosse una società di capitali (Cass. 1° giugno 1988, n. 3719. La Corte precisa, in motivazione, essere sufficiente, per ritenere integrata la violazione dell’obbligo suddetto, il fatto che un dirigente abbia intrapreso delle trattative con altri dipendenti per costituire una società destinata ad operare nello stesso settore dell’impresa del datore di lavoro (Cfr. Cass. 5 aprile 1986, n. 2372), aggiungendo che, in ogni caso, “è sufficiente un pregiudizio soltanto potenziale e non anche effettivo”).
Sulla base di tali principi e sul fattore della potenzialità di danno e pericolo, la S.C. ha ravvisato la responsabilità ex art. 2105 c.c. – con conseguente recesso per giusta causa – anche nel caso in cui un dirigente abbia intrapreso delle trattative con altri dipendenti per costituire una società destinata a operare nello stesso settore dell’impresa del datore di lavoro (Cass. 5 aprile 1986, n. 2372, la quale sottolinea che l’obbligo di fedeltà diventa più intenso man mano che si sale nella scala gerarchica aziendale, fino a divenire massimo nel grado di dirigente), nonché nei fatti commessi dal dirigente nell’espletamento delle funzioni di socio-amministratore di un’impresa consociata della datrice di lavoro, ove risulti che il dirigente medesimo, assunto per essere preposto esclusivamente o principalmente a tali funzioni, abbia posto in essere una collusione con un’impresa concorrente e false comunicazioni sociali “in tempi e con modalità tali da scuotere l’elemento fiduciario del rapporto” (Cass. 24 marzo 1982, n. 1869).
Sebbene il tema delle assunzioni di rischi da indebita esposizione di una banca verso la propria clientela sia affrontato sotto una voce specifica della casistica, vale la pena di richiamare in questa sede l’insegnamento e le statuizioni di una decisione della S.C. relativa a una simile fattispecie, ricondotta alla tematica oggetto della presente voce, per annetterne conseguenze particolari e più severe per il dirigente. In questi termini, la violazione degli obblighi di fedeltà e diligenza da parte di un dirigente comporta, oltre all’applicabilità di sanzioni disciplinari espulsive, “anche l’insorgere del diritto al risarcimento dei danni e ciò tanto più nel caso in cui il medesimo, quale dirigente di un istituto di credito in rapporto di collaborazione fiduciaria con il datore di lavoro, del quale è un alter ego, occupi una posizione di particolare responsabilità”, collocandosi al vertice dell’organizzazione aziendale e svolgendo mansioni tali da improntare la vita dell’azienda; ne consegue che, ove il dirigente consenta alla clientela della banca la formazione di una esposizione debitoria anomala facendo assumere alla banca stessa rischi eccedenti l’ordinata e corrente gestione dei rapporti di mutuo, si realizza una violazione dell’obbligo di diligenza, con la produzione di un danno risarcibile pari alla perdita subìta dall’istituto di credito a causa della situazione di insolvenza dei beneficiari del credito, come nel caso, affrontato dalla S.C. che, sul punto ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la diretta responsabilità del direttore della filiale di una banca che aveva mantenuto e ampliato, anche in violazione delle regole tecniche relative al tipo di operazioni, l’esposizione debitoria di un gruppo d’imprese nei confronti dell’istituto di credito nonostante i numerosi inviti della direzione centrale a ricondurre le posizioni nell’ambito della regolarità formale e sostanziale, finendo con generare una perdita di oltre quarantatré miliardi di lire (Cass. 12 gennaio 2009, n. 394).
Da notare, per concludere sul punto, che non è mancato nell’esperienza giurisprudenziale il caso della simulazione della clausola contrattuale di non concorrenza (Cass. 2 agosto 2005, n. 16183), nell’intento, spesso fin troppo evidente, di trasferire una parte della retribuzione del dirigente dalla serie degli elementi fissi, magari spesso intangibili o, comunque, collegati ai meriti del lavoratore o, ancora, manifestazione di assegni ad personam, a una parte di retribuzione che non ha la funzione di remunerare il lavoro ma quella, ben diversa, di compensare i vincoli alla concorrenza dopo la cessazione del rapporto. Secondo la S.C., che con la decisione in parola ha stilato una sorta di vademecum delle fattispecie astrattamente prospettabili e verificate nell’esperienza giudiziaria, in assenza di altri indizi più significativi, la simulazione in parola può ravvisarsi, con riferimento a lavoratori con compiti non strettamente riconducibili all’area commerciale, della ricerca, o simile, dalla circostanza, di decisiva rilevanza, dell’assenza di un qualche vantaggio economico per il lavoratore nella stipulazione del patto, in realtà sostitutivo – come nel caso specifico affrontato dai giudici, significativo di comportamenti piuttosto maldestri della Società interessata – di forme di “fuori busta” da tempo erogate; il patto fraudolento può altresì risultare, oltreché dall’intervento dello stesso dopo alcuni anni dall’inizio dell’attività lavorativa e a distanza di qualche mese dalle dimissioni del lavoratore, dal mancato riconoscimento, per l’intero periodo lavorativo, di mansioni diverse e superiori di quelle esecutive, dalla durata dell’accordo ben oltre il massimo previsto dalla legge per i non dirigenti o, infine, dalla genericità dell’oggetto del patto inerente a un’intera e differenziata gamma di prodotti commercializzati dal datore di lavoro.
Assenza ingiustificata
L’assenza ingiustificata, elemento di inadempienza grave nei confronti del lavoratore impiegato e/o operaio e/o quadro, analizzata nell’ottica della violazione, da parte del dirigente, del dovere di informare il datore di lavoro delle ragioni determinanti la propria assenza, legittima la risoluzione del rapporto, mentre non integra, secondo la giurisprudenza, gli estremi della giusta causa dovendosi al contrario ravvisare, nella condotta sanzionata, non soltanto il venir meno del vincolo fiduciario, “quanto la determinazione di un’anomalia funzionale del rapporto che consenta il prevalere dell’interesse alla sua estinzione su quello, opposto, alla sua prosecuzione” (Pret. Monza 11 marzo 1996): nel caso concreto, peraltro, si verteva su un’assenza per un arco di tempo ridotto, determinata da un grave stato depressivo.
In materia di giusta causa, peraltro, la giurisprudenza richiede un accertamento concreto, in relazione alla qualità del singolo rapporto, della posizione che in esso abbia avuto il lavoratore e, quindi, alla qualità e al grado del particolare vincolo di fiducia (Cass. 16 giugno 1994, n. 5843; Cass. 22 marzo 1994, n. 2715). Questo senza dimenticare l’obbligo del giudice di accertare la rilevanza, nel caso concreto, dell’elemento intenzionale che sorregge la condotta del lavoratore, per giungere alla conclusione, nell’attuale fattispecie, di non ravvisare una condotta tale da legittimare il licenziamento in tronco, con connesso diritto all’indennità sostitutiva di preavviso. Diversamente, sotto il profilo della tutela contrattuale, lo stesso giudice considera rilevante il comportamento del dirigente e, così, tale da giustificare la risoluzione del rapporto inter partes, escludendo ogni diritto del ricorrente a percepire l’indennità supplementare.
In tema di assenza ingiustificata, infine, si è prospettato il comportamento complessivo del dirigente al massimo livello categoriale e retributivo, che risolve un contrasto inter partes con i superiori gerarchici e con l’amministratore allontanandosi dall’azienda senza sostanziale preavviso, in una fase decisiva della vita aziendale, esponendo gli addetti rimasti ad affrontare i problemi di assenza del dirigente responsabile ed esponendo altresì l’impresa ai possibili pregiudizi e controversie con le aziende collegate (Trib. Milano 24 aprile 1992).
Articolo a cura di Pasquale Dui
Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista