L’identità perduta e la Leadership Partecipativa
“La domanda fondamentale è infatti: qual è lo scopo della vita? Diventare più umani o produrre di più?”
Erich Fromm
Se solo ci prendessimo il tempo necessario ad osservare le persone, i loro comportamenti, le loro interazioni, capiremmo meglio come si evolvono le Organizzazioni. Non occorrono chissà quali competenze; anzi, è uno degli aspetti in cui il tema della competenza potrebbe addirittura essere fuorviante e fornire interpretazioni che non ci aiutano a comprendere la reale portata di quello che osserviamo. Negli ultimi anni siamo diventati troppo cerebrali, con un’eccessiva attenzione ai dettagli che ci ha defocalizzati dagli aspetti concreti della professione di HR e uno di questi è proprio un generale senso di trascuratezza del Capitale Umano. Tutto questo ha finito con il disorientare un gran numero di persone che, con sempre maggiore fatica, si adoperano alla ricerca di un senso o, più in generale, di un’identità. Quella della ricerca del senso è probabilmente una vera e propria emergenza alla quale non stiamo dando la necessaria attenzione. Probabilmente riusciremo a prenderne contezza nel momento in cui daremo alla ricerca del senso e dell’identità una connotazione economica intesa come costo, se vogliamo sociale prima ancora che economico. Perché in fondo ragionare per numeri sembra essere più razionale e logico e non richiede uno sforzo interpretativo che, mai come oggi, è il vero valore aggiunto di chi si occupa di Capitale Umano.
L’alleanza tanto sbandierata tra funzione HR e Business risulta spesso viziata da un continuo – e forse non sempre necessario – ragionare esclusivamente per numeri, tralasciando gli aspetti umanistici la cui decodifica restituisce il senso e contribuisce a creare identità e senso di appartenenza. Uno degli ambiti in cui è forte il senso di straniamento è proprio quello legato all’ambiente di lavoro. Le persone faticano a comprendere il concetto di spazio ma il problema vero è che non siamo probabilmente bravi a raccontare il perché. La mia può sembrare una visione romantica ma il ragionamento di fondo è che la spersonalizzazione di certi ambienti di lavoro ha ridimensionato il valore della storia dei singoli incidendo anche sulla storia di tutta l’Organizzazione. Parlavo in un altro articolo di come la crisi che stiamo attraversando prima ancora che una crisi di risultati sia soprattutto una crisi di Narrazione. Come se narrare fosse una perdita di tempo, come se l’esercizio della scrittura collettiva, a più mani per intenderci, fosse inutile. Secondo me è On Boarding anche quello ma, per farlo sul serio, c’è bisogno di fermarsi e annusare l’aria e l’idea di fermare un treno lanciato a folle velocità è complicata, anche se quel treno corre il rischio di schiantarsi con tutti i passeggeri. Dettagli. Abbiamo altro cui pensare ma, soprattutto, pensare troppo corre il rischio di defocalizzarci da obiettivi sempre più sfidanti. L’asticella nemmeno la vediamo più, sappiamo che è posizionata da qualche parte in alto ma non abbiamo gambe allenate alla spinta e sembriamo galline che muovono le ali ma non si staccano da terra. La nostra ombra sì. A volte si allontana come se si sentisse offesa da tutto il tempo che sprechiamo a far quadrare conti che non tornano mai.
La causa principale di questo circolo vizioso o meglio questa specie di gigantesco Maelström che risucchia tutto, anche le buone intenzioni, deve ricercarsi in un diffuso deficit emotivo che pervade le Organizzazioni. Il processo di spersonalizzazione viene vissuto come qualcosa di inevitabile, per non dire ostile. E un fondo di verità c’è. Il continuo adattarsi al cambiamento richiede anche competenze emotive che nessuna Azienda allena sul serio. Ci si lava la coscienza confidando sul potere taumaturgico del solito corso di formazione il cui effetto terapeutico è equiparato a quello di sfogliare un album di figurine in un pomeriggio di pioggia. Ma sono più i “mi manca” rispetto ai “ce l’ho”. Ora si lavora in ambienti asettici, molto più spersonalizzati, dove anche la tanto sbandierata condivisione, quel Knowledge Sharing tanto invocato, non attecchisce come dovrebbe. Mi verrebbe da dire tutti insieme spassionatamente per evidenziare proprio quella mancanza di passione che caratterizza certe prestazioni e influenza molte dinamiche. E quando viene a mancare la passione tutto si complica ed entriamo in un loop insidioso in cui il confronto si sposta dalla naturale competizione uomo-uomo a una competizione molto più subdola, che è quella uomo-macchina. Non è un mistero che il combinato disposto ambiente spersonalizzato e passaggio massivo di attività verso soluzioni robotizzate rischi di minare la stabilità emotiva dei follower che si ritrovano disorientati e spesso incapaci di cavalcare un’onda apparentemente inarrestabile.
Che fare, quindi? Una buona cosa sarebbe quella di non enfatizzare troppo l’aspetto competenze tecnico professionali. Costruire interi percorsi di carriera e di sviluppo puntando esclusivamente su incrementi di competenze. Più sai (e più produci) e più ti pago peccato che oggi questo ragionamento appare del tutto datato. Oggi più che mai occorre capovolgere il paradigma e investire sull’essere, prima di tutto, dei buoni cittadini all’interno delle Organizzazioni. Lo si può fare solo professando discontinuità. Lavorare, in buona sostanza, sul far acquisire alle persone la piena consapevolezza che il momento che stiamo vivendo richiede un diverso approccio riguardo la propria prestazione che non può e non deve ridursi solo a una valutazione di tipo quantitativo; occorre dare il giusto peso agli aspetti qualitativi che spesso sono intangibili e, quindi, difficili da valutare. Ci riesce solo il capo capace di entrare in sintonia profonda con i propri collaboratori, un capo che eserciti una Leadership di tipo partecipativo così come teorizzato nel 1967 dallo studioso Rensis Likert, tra i primi ad analizzare il rapporto tra rendimento e stile di leadership. C’è solo un piccolo particolare da tener presente, cioè che la Leadership Partecipativa trova terreno fertile quando i collaboratori svolgono un ruolo in cui è richiesta una buona componente di creatività mentre non si addice a lavorazioni di tipo massivo, dove sembra funzionare meglio uno stile di Leadership autoritario se non addirittura coercitivo. Un gran bel casino, non c’è che dire. In questo scenario dominato dalla complessità, il ruolo della funzione HR di concerto con una nuova generazione di Responsabili dovrà mirare ad allenare quelle competenze che le macchine non riusciranno mai a sviluppare del tutto come ad esempio ideazione, comunicazione e capacità di interpretazione dei dati. Viviamo tempi caratterizzati da un forte dinamismo. Quotidianamente i lavori tradizionali vengono messi in discussione dall’utilizzo di nuove tecnologie. Le competenze alle quali ci siamo per anni aggrappati mostrano all’improvviso tutta la loro fragilità. Oggi viene richiesta alle persone non solo l’ormai già inflazionata capacità di adattamento ma un approccio creativo alla soluzione di problemi sempre più complessi.
Non è un caso che nel quinquennio 2015-2020 la creatività intesa come skill necessaria da possedere passa dal decimo al terzo posto, subito dopo il pensiero critico e il risolvere problemi complessi. Allora chiediamoci perché in moltissime Organizzazioni la creatività sia non solo poco sviluppata ma mortificata. Invece di considerarla un punto di forza, assistiamo al paradosso per cui viene giudicata come una preoccupante area di miglioramento che richiede addirittura azioni correttive, quasi come fosse una patologia da estirpare.
Difficile inoltre scindere la predisposizione alla creatività da un approccio emotivo, o meglio sarebbe dire emozionale. Far convivere queste due dimensioni, valorizzarle, dare loro lo spazio necessario e la piena visibilità è una delle competenze da allenare in chi si troverà a ricoprire ruoli manageriali o di sviluppo del capitale umano.
Articolo a cura di Giovanni Di Muoio
Giovanni Di Muoio, esperto di Narrazione d’Impresa, ha maturato una lunga e consolidata esperienza in ambito HR. Attualmente ricopre il ruolo di HR Business Partner in BNL ‒ Gruppo BNP Paribas, in precedenza ha lavorato in SIAE e come libero professionista. Ha collaborato con diverse testate su tematiche HR e ha pubblicato cinque libri di Narrativa. Specializzato in Short Stories ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per la sua attività di scrittore.