L’Intelligenza emotiva e la dura realtà aziendale
In ambito aziendale, per stimolare i dipendenti o ottimizzare il lavoro, spesso si tende a seguire delle mode/parole. Il guru di turno, infatti, un giorno prende e illustra la propria teoria e le aziende iniziano a seguirla, senza chiedersi se sia giusta o sbagliata, fino a quando un nuovo guru non rivede il tutto spingendo a tornare sui propri passi cambiando strategia. Ognuno si sente in dovere di esporre la propria teoria, magari riprendendone una vecchia ed abusata solamente cambiando alcuni piccoli dettagli o al più la parola chiave. Termini spesso abusati o riciclati all’infinito che però fanno spesso presa.
Tra le varie parole che vengono utilizzate, va detto, ce ne sono alcune che hanno una potenza tale da sgretolare anche gli altissimi muri eretti dal Management di turno, con l’assurda convinzione di trovare protezione, non si capisce da cosa e da chi, in una torre d’avorio del tutto decontestualizzata. Una di queste parole è: intelligenza. So per certo che qualcuno storcerà il naso perché ritiene la parola intelligenza addirittura inflazionata. Devo ammettere che un fondo di verità c’è, ma ovviamente ci sono delle eccezioni.
Abbiamo iniziato ad appassionarci con le teorie di Daniel Goleman e la sua Intelligenza Emotiva che ancora oggi rivestono una grande attualità. L’abbiamo studiata in ogni suo aspetto, l’abbiamo declinata in mille modi, adattata a ogni contesto possibile e ci è sembrata quasi la panacea di tutti i mali. Rispondere all’incertezza dei risultati, alla crisi della Leadership, attingendo al bagaglio dei sentimenti in una visione umanistica che eleva le relazioni interpersonali rendendole solide e per certi aspetti più fluide.
Questo non significa che all’improvviso i manager si scoprono simpatici, friendly, disponibili all’ascolto perché per quanto possiamo lavorare alacremente su queste dimensioni, allenarle a sfide sempre più audaci, una componente innata deve comunque esserci.
Essere umani, ma soprattutto persone, non ci si improvvisa. Devi averla dentro quella scintilla, devi essere capace di riconoscere per esempio il dolore, fare propria la lezione di Calvino che ci invita a sapere riconoscere chi e cosa in mezzo all’inferno non è inferno e a dargli spazio. Se vogliamo è una forma di delega anche questa, ma molto più potente.
Il problema è che moltissime aziende hanno vissuto l’opportunità di riflettere e fare propri i principi che caratterizzano l’Intelligenza Emotiva come fosse una moda, una delle tante competenze da esercitare. E nel frattempo hanno scelto consapevolmente dei manager con criteri personali prima che professionali lontani mille miglia da un approccio basato sull’Intelligenza Emotiva.
Li hanno mandati in delle aule noiose dove la preoccupazione più grande era quella di controllare il cicalio della mail che arrivava puntuale come il canto delle cicale in Agosto.
I più fortunati hanno fruito anche di qualche sessione di coaching che aveva l’obiettivo di farli riflettere sulle loro grandi contraddizioni. Peccato che nessuno di loro era capace di riconoscerle, così come i propri limiti per cui quelle sessioni di coaching sono state del tutto inutili, l’ennesima occasione sprecata. Ma il mondo naturalmente non si ferma e dall’Intelligenza Emotiva siamo passati a parlare di Intelligenza Artificiale. Semplicissimo entrarci, basta indossare i comodi abiti (a me sinceramente ha sempre dato l’idea che indossasse dei pigiami) del Dr. Spock, il Vulcaniano dalle orecchie a punta protagonista della saga di Star Trek.
Qui ci muoviamo in un’altra dimensione, quasi fantascientifica ma nemmeno poi tanto che è quella ad esempio predittiva. Macchine in grado di simulare alcuni processi tipici della mente umana che possono o semplificare alcuni processi, automatizzandoli ad esempio, o addirittura prevedere le conseguenze di determinate azioni. Un campo affascinante nel quale il mondo Aziendale è seriamente coinvolto.
Basti pensare a tutto il lavoro di screening che fanno i “chatbot” nei processi di Assistenza alla Clientela che attraverso un percorso guidato possono già fornire alcune risposte o indicazioni alla clientela che, ad esempio, lamenta un disservizio. Le ricadute in termini lavorativi possono essere le più svariate.
Certo è che un’attenta politica di allocazione delle risorse umane deve fare i conti con questa dimensione. Spostare cioè la forza lavoro su attività a maggiore valore aggiunto “robotizzando” quei processi automatici in cui oggi non è conveniente posizionare forza lavoro. Un gran bell’esercizio per la funzione HR che da una parte si troverà a dover dialogare con sempre maggiore sinergia con le funzioni di Business e dall’altra dovrà giocoforza conoscere in maniera più approfondita le persone in Azienda per poterle orientare nel giusto modo in una funzione che potremmo definire come una funzione “bussola”.
Ma c’è un altro tipo di Intelligenza che se ne sta silente, nascosta agli occhi dei più, quasi pudica, ma che rappresenta il vero motore silenzioso di molte Aziende. Sto parlando dell’intelligenza Esperienziale.
Si traduce in assunzioni di responsabilità a volte nemmeno codificate. Persone che abitano le stanze del fare, che hanno quel malessere che colpisce tutti coloro i quali svolgono onestamente il proprio lavoro al di là di premi, riconoscimenti o valorizzazioni, portatori sani del dubbio quotidiano se hanno fatto tutto il necessario per non creare problemi agli altri e all’Azienda. Eroi silenziosi di una guerra dove a vincere è un’oligarchia di comodo. Ivano Fossati diceva in una sua canzone che “il motore del sentimento umano non lascia indirizzo né traccia” e le cose, mi piace pensarlo, stanno realmente così.
Ci si preoccupa di affibbiare l’etichetta di talento a una sparuta minoranza di persone il cui vero talento è direttamente proporzionale alla loro ambizione di carriera ma poco o nulla si fa per far emergere dalle paludi dell’indifferenza i tanti eroi silenziosi che mandano avanti con onestà la baracca. Su questo dovremmo riflettere, sull’esperienza messa al servizio di tutte le componenti dell’Azienda per capitalizzare e mettere a fattor comune questo tesoro. Dante, nell’ultimo canto del Paradiso, utilizza un’espressione che condensa in buona sostanza il senso che ho cercato di trasmettere scrivendo queste considerazioni. “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Quale altra immagine riesce ad essere più potente e spiazzante di questa?
Articolo a cura di Giovanni Di Muoio
Giovanni Di Muoio, esperto di Narrazione d’Impresa, ha maturato una lunga e consolidata esperienza in ambito HR. Attualmente ricopre il ruolo di HR Business Partner in BNL ‒ Gruppo BNP Paribas, in precedenza ha lavorato in SIAE e come libero professionista. Ha collaborato con diverse testate su tematiche HR e ha pubblicato cinque libri di Narrativa. Specializzato in Short Stories ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per la sua attività di scrittore.