Maieutica e Coaching: un accostamento improprio, culturalmente e concettualmente

Come sia possibile che certi equivoci resistano nel tempo, a dispetto dell’assoluta evidenza della loro infondatezza, rimane un mistero insolubile. Tra l’altro, con gli strumenti di cui si dispone da oltre 20 anni (Google, 1998), è sufficiente digitare sul browser una parola per conoscerne significato, storia e quant’altro in pochi secondi. Eppure, c’è chi si ostina ad ignorare ciò di cui parla, pur potendosi informare aggirando l’ostacolo “faticoso” della lettura di un libro.

Per esempio, che coaching e maieutica socratica condividano la stessa metodologia è un’affermazione che meriterebbe il commento che Fantozzi riserva alla pellicola “La corazzata Potëmkin”. Che maieutica derivi dal greco (maieutikè tekne – μαιευτική τέχνη), ossia arte o tecnica dell’ostetricia (maia – μαῖα vuol dire levatrice, ma anche “mamma”) è nozione comune, ma quale sia la corretta lettura del concetto che sta dietro alla metafora è un’altra storia.

Innanzitutto, in quale dialogo Platone fa esporre a Socrate il proprio metodo? Il Teeteto, un dialogo della fase matura di Platone, quella, cioè, successiva ai dialoghi nei quali fissa le basi del proprio pensiero, in particolare quello psicologico (dal greco psyké – ψυχή, anima). Perché è importante questa precisazione? Perché è alla base della corretta interpretazione del metodo e del concetto di maieutica. Nel Fedone (opera dai filologi posta prima del Teeteto) Platone spiega – o meglio, fa spiegare a Socrate – le tre prove dell’immortalità dell’anima e tra queste c’è la prova della “reminiscenza”, o anamnesi. Questa prova (o argomento) non solo è alla base dell’impianto psicologico di Platone, ma anche di quello gnoseologico (oggi diremmo cognitivo). Secondo Platone, la nostra conoscenza non è il frutto di un processo esplorativo del mondo esterno, nel quale cerchiamo la corretta sintonia tra l’esperienza e i nostri modelli logico-razionali, ma è un processo di esplorazione interiore, stimolato dalla relazione con il mondo esterno, alla ricerca di “cose” che già sappiamo, in quanto la nostra anima le ha conosciute direttamente nel mondo iperuranico, dal quale proviene.

Quindi, la conoscenza è reminiscenza, ossia il far riaffiorare conoscenze già note, ma – come si direbbe oggi – rimosse. La nostra conoscenza risiede nell’anima, che, a sua volta, sarebbe seppellita nel nostro corpo, corpo che Platone definisce nel Cratilo “tomba (sema – σῆμα) dell’anima”, riprendendo esplicitamente un’idea già ben diffusa ai suoi tempi. Come possiamo far riaffiorare le conoscenze seppellite nel nostro corpo/tomba? Attraverso un metodo, detto maieutica! Quando nel Menone (dialogo dedicato a un generale greco, che Senofonte ci descrive come un discreto farabutto) Socrate cerca di convincere Menone della verità della teoria dell’anamnesi, prende uno schiavo privo di cultura del generale e, attraverso il processo maieutico, lo porta a “ricordarsi” del teorema di Pitagora. Quindi, quel che Socrate (Platone) voleva dimostrare era che attraverso delle domande “metodologiche”, senza trasferire esplicitamente delle conoscenze, era possibile risvegliare nell’interlocutore quel sapere che soggiaceva in lui. Tornando al Teeteto, ora possiamo molto meglio capire a cosa si riferisse Socrate, quando sosteneva di fare lo stesso “mestiere” della sua mamma Fenarete. Il filosofo, attraverso il confronto dialogico, è in grado di capire se l’interlocutore è “gravido”, cioè se è pronto a “partorire” il “feto” della conoscenza che giace in lui, da sempre. Ma per fare questo è necessario diradare le ombre, anzi, come dice Socrate nel dialogo, i fantasmi che annebbiano l’anima (la mente). Ecco perché si parla di parto, perché ciò che si ottiene attraverso la maieutica è la “fuoriuscita” di qualcosa che preesiste e che si deve solo far emergere. Quindi, il compito del filosofo non sarebbe quello di insegnare, ma quello di applicare la maieutica, per aiutare colui che ascolta a “partorire” la Verità che già possiede dentro di sé.

Qualcuno mi può spiegare che c’entri tutto questo con il coaching? L’unico punto di contatto consiste nel fatto che sia nel coaching, sia nella maieutica socratica, esistono delle domande metodologiche. Se è per questo anche un interrogatorio in questura segue un metodo, ma non direi maieutico. Nell’approccio socratico il rapporto non è paritetico: sebbene Socrate si dichiari “sterile” nel Teeteto, ossia privo di conoscenza che possa essere trasferita all’interlocutore, è pur vero che è lui a definire l’indirizzo e l’obiettivo del confronto. La maieutica è, quindi, una pratica tesa ad una trasformazione dell’individuo, grazie ad un indirizzo inferto al processo dal “maestro”. Per fare questo Socrate utilizza la confutazione o elenco (élenkhos – ἔλεγχος), ossia la dimostrazione dell’infondatezza degli argomenti dell’interlocutore.

E con questo, l’analogia tra coaching e maieutica è seppellita per sempre! Sì, perché la fase maieutica detta dell’elenkhos, da un punto di vista emotivo, deve sviluppare il sentimento della vergogna. Se questa presa di coscienza non accade, l’elenkhos è inefficace e non porta alla seconda fase della maieutica socratica e cioè la ricerca e la generazione di una tesi positiva. Nulla a che vedere con il processo che si attua (o si dovrebbe attuare) nel coaching, dove la domanda non è funzione di uno stimolo riflessivo volto a raggiungere uno stato di conoscenza scientifica (epistemologia), ma di consapevolezza critica su un comportamento disallineato, rispetto a un obiettivo dichiarato. Non c’è nulla di certo e di preesistente nel coaching, perché la relazione tra coach e coachee è di concepimento e non di parto. La consapevolezza del coachee non deve risvegliare una presa di coscienza “scientifica”, ma comportamentale. Quindi, le modalità dialogiche di un coach devono essere centrate sul recupero volitivo del coachee, rispetto ad un obiettivo che sia stato definito. L’apporto metodologico del coach è quello di una sponda dialettica che funga da “thought provoker” del coachee, con riferimento alla sua centratura rispetto al suo obiettivo e non rispetto alla verità. È proprio questa differenza che esclude definitivamente il metodo maieutico dal coaching, l’obiettivo di un coach è quello di adeguare pensiero e azione del coachee, non di stimolare una riflessione cognitiva che sia coerente con se stessa.

Per capirci, un coach non applica un metodo dialogico che porti il coachee a scoprire di saper risolvere il teorema di Pitagora, ma un metodo che lo porti a identificare autonomamente un modello comportamentale vincente per studiare il teorema di Pitagora.
Mentre il metodo maieutico consegnava una verità attraverso una metodologia, il coaching consegna un metodo attraverso una metodologia.

 

Articolo a cura di Giuseppe Andò

Profilo Autore

Giuseppe Andò svolge dal 2000 la professione di C-level & Executive Coach. La sua formazione lavorativa e professionale concilia l’esperienza vissuta al vertice di alcune delle più importanti multinazionali dell’editoria e della comunicazione (General Manager McGraw-Hill, General Manager Pearson), con la fondazione e direzione delle prime realtà strutturate in Italia per l’executive coaching (Studio Income srl, Fineo srl). Nel 2017 consegue tutte le certificazioni MG Sakeholder Centered Coaching e dal 2019 è coach associato Marshall Goldsmith. Dal 2018 è Board Member di EMCC Italia (European Mentoring and Coaching Council). La sua formazione scolastica e universitaria concilia i valori umanistici (liceo classico e laurea in filosofia a indirizzo epistemologico - Milano) con le necessarie competenze tecniche specifiche (laurea in economia indirizzo aziendale - Bologna).

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