Marchionne: un’eredità culturale contraddittoria
La litote del titolo del libro di Francesco Varanini, “Marchionne non è il migliore dei manager possibili”, (Guerini Next, €18,50) è anche un modo per evitare che chi legge, di fronte alla figura di Sergio Marchionne, di per sé parecchio divisiva, possa essere portato a schierarsi pregiudizialmente in polemica o in difesa del manager, senza affrontare una analisi il più possibile obiettiva del suo operato, considerato sia il tempo trascorso dalla sua scomparsa, sia gli effetti che ancora oggi persistono in relazione a certe sue scelte.
A Marchionne una certa vulgata riconosce il merito di aver risanato la Fiat, a un passo dal fallimento sul mercato globale, di averla trasformata in una azienda multinazionale, superando la crisi debitoria, facendo in modo che tornasse a fare utili e quindi rafforzando il titolo in borsa.
Marchionne ha davvero salvato la FIAT?
Con questi presupposti la figura storica di Marchionne si propone per i manager di oggi come un modello da seguire. Ma è proprio così? E, soprattutto, a quali condizioni ci è riuscito? Queste, tra le altre, le domande che si è posto Francesco Varanini, che è arrivato a una conclusione decisamente meno positiva.
Cioè, che Marchionne abbia alla fine contribuito alla distruzione dell’immagine stessa della Fiat, rinnegandone il radicamento italiano, sull’altare della massimizzazione del profitto (il domicilio fiscale è stato spostato in Gran Bretagna e quello legale in Olanda), aumentando i ritmi di lavoro degli operai, riducendo drasticamente i livelli di occupazione, dislocando la produzione in paesi dove la manodopera costava meno, smantellando le attività di ricerca e sviluppo, svendendo il valore dei suoi marchi storici.
Accuse pesanti ma che rientrano tutte in una operazione lucida, condotta negli anni da un manager il cui compito non era più quello di creare valore attraverso la sua azienda ma quello di estrarre da essa valore. Cioè, portare via una quota del valore creato sottraendolo agli investimenti e alla remunerazione degli stakeholder, tutto per generare valore immediato per gli azionisti e garantire un alto rendimento agli speculatori finanziari.
Una filosofia aziendale di facciata
Vediamo di entrare nel merito di questa strategia che Marchionne attua grazie all’introduzione del World Class Manufactoring, una filosofia aziendale che è una variante della Lean Organization e del Toyotismo, e dovrebbe puntare all’incremento della qualità per il cliente attraverso gestione dei processi, miglioramento continuo, coinvolgimento di tutti gli attori, riduzione dei tempi di produzione. In sintesi, il concetto di base di questa teoria è quello del valore zero: zero sprechi, zero scorte, zero incidenti, zero guasti, zero difetti e zero insoddisfazione del cliente.
Questi obiettivi hanno imposto l’introduzione in fabbrica di adeguate tecnologie (prima di tutto la robotica) che hanno però contribuito a soppiantare il significato del lavoro umano, in particolare della motivazione e della consapevolezza degli operai. Marchionne, in sostanza, ha preferito puntare sui robot (la fabbrica a luci spente, senza lavoratori), spesso con la condiscendenza degli stessi sindacati.
Molti manager, sulla scia di Marchionne, hanno contribuito alla dequalificazione del lavoro umano, rendendolo sempre più dis-umano – sostiene Varanini – finché, per logica conseguenza, arrivano a dire: “essendo disumano meglio affidarlo ad una macchina”, dimenticando che il lavoro risponde a un bisogno esistenziale di realizzazione di sé.
Quando si accetta che il lavoro umano possa essere sostituito da una struttura tecnologica in ogni fase dell’attività produttiva, il ruolo del tecnico, come quello degli algoritmi ad esso sottesi, sarà prevalente e sempre meno collegato ai lavoratori, alla fabbrica e al territorio ove essa opera.
Il capitalismo che concepisce l’atto economico solo nella dimensione del processo produttivo e nella ricchezza materiale che è in grado di realizzare, senza porre attenzione all’essere umano e alla sua potenzialità creativa, sperpera capitale sociale, intacca la fiducia reciproca, toglie energie, idealità, fantasia e voglia di partecipazione. Non ridimensiona solo il ruolo degli operai ma anche quello degli stessi imprenditori, incrinando un “patto sociale” che è una delle ricchezze del nostro Paese.
D’altra parte, se un manager è remunerato in funzione degli andamenti di Borsa e della soddisfazione degli investitori, che non si interessano della realtà produttiva dell’impresa, e se il suo guadagno è legato al valore delle azioni e al profitto generato nell’anno, questi sarà incentivato, anzi obbligato, ad agire guardando solo all’interesse dell’azionista, alla finanza speculativa, con una prospettiva di breve periodo.
La strategia comunicativa di Marchionne
A Marchionne, indubbiamente, non è mai venuta meno una strategia comunicativa molto efficace. Sono ormai entrate nella storia imprenditoriale alcune sue affermazioni che mostrerebbero il piglio decisionista e fortemente pragmatico del manager ma anche una sua personale visione etica, che Varanini non esita a classificare come formale.
Sui diritti e doveri in azienda, sembra diventare addirittura un maestro di morale: “Lasciatemi dire che i diritti sono sacrosanti e vanno tutelati, ma se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo”. “Credo che dobbiamo tornare a un sano senso del dovere. Alla consapevolezza che per avere bisogna anche dare.”
Molti ricorderanno, inoltre, la sua affermazione in una intervista televisiva, quando con orgoglio e una dose incredibile di falsa modestia osava affermare: “Io sono un metalmeccanico”. Oppure quell’altra uscita sulla giusta remunerazione: “Esiste un limite oltre il quale il profitto diventa cupidigia E coloro che operano in un mercato libero hanno anche l’obbligo di agire entro i limiti di ciò che una buona coscienza suggerisce”. Nel frattempo, Marchionne aveva una retribuzione di circa 11 milioni di euro l’anno mentre un suo operaio non raggiungeva i 20.000.
Il ruolo del manager
A parte queste contraddizioni, a Varanini interessa soprattutto rilevare come Marchionne sia il rappresentante principale di quella crisi del management che si dimostra sempre meno attento allo scopo sociale dell’impresa e al miglioramento dei processi organizzativi, prono piuttosto ad aderire in modo acritico ai dettami della proprietà per non perdere i privilegi di cui gode, primi fra tutti gli esorbitanti compensi che gli vengono offerti.
La scelta dei manager a questo punto sembra obbligata. Marchionne considera immodificabile lo scenario imposto dal capitalismo finanziario. Crede nell’utilitarismo. Non può esistere una forma di impresa assimilabile a una “democrazia industriale”, l’impresa, secondo Marchionne, al di là di ogni governance stabilita sulla carta, non può funzionare che guidata da un dittatore. “La leadership non è anarchia, in azienda comanda uno solo, la responsabilità condivisa non esiste”.
Il problema è che il far parte di una società, di una comunità non ci esime mai dalla responsabilità personale. Il manager – sostiene Varanini – dovrà cercare la libertà di azione di ognuno, quindi anche la propria. Ma la propria libertà non dovrà andare a scapito degli spazi garantiti ad ogni altro lavoratore.
Il manager stile Marchionne
Per Varanini, il manager che prende a riferimento Marchionne sceglie di non agire, a meno che la sua azione non venga premiata da una congrua remunerazione. Sostituisce l’opportunismo alla rettitudine, rinuncia alla propria idea per adeguarsi al pensiero dominante. Si muove convinto di appartenere a una classe protetta. Sceglie di essere megafono di interessi che si nascondono dietro la sua artefatta immagine di decisore. La sua carriera è frutto di connivenze e di cordate, di appartenenze e di clientele, più che di autonomo progettarsi.
D’altra parte, l’Autore, forse con un po’ di utopia, crede che il manager debba essere anzitutto una persona responsabile che non rinuncia mai a se stesso e nel contempo si apre agli altri e al mondo e tiene sempre presente la pluralità dei soggetti sui quali la sua azione incide. Un manager che non si isola dal mondo ma pensa sempre che sia possibile cambiarlo.
Alla fine, possiamo dire che le aziende si governano esaltando le donne e gli uomini che vi lavorano, recuperando una logica di cooperazione e di rispetto. Occorre, senza retorica, ridare all’agire d’impresa una prospettiva di lunga durata, propria del vero manager, che investe sul futuro e sa guardare al mondo progettandolo per gli anni a venire.
Articolo a cura di Ugo Perugini
Ugo Perugini. Giornalista, blogger, collaboratore di “Vendere di più”- https://www.venderedipiu.it/, “Az Franchising” - https://azfranchising.com/az-franchising-magazine/ -, DM&C - http://www.dmcmagazine.it ; HR on line - www.aidp.it/riviste/indice-hronline.php. In passato, ha collaborato con “Beesness”- www.beesness.it ; Together HR, blog di Sky Lab http://www.togetherhr.com/bloghr-blog-risorse-umane/- “Senza Filtro” https://www.informazionesenzafiltro.it e altre pubbllicazioni
Il blog che cura è https://capoversonewleader.wordpress.com/