Product placement: dallo schermo all’universo simbolico del consumatore
Consumiamo, indossiamo e scegliamo nuovi brand da inserire nella nostra vita ogni singolo giorno. Il valore di un brand è strettamente connesso alla posizione che esso occupa nella nostra mente di consumatori e l’opinione che abbiamo del marchio determina il prezzo che siamo disposti a pagare per ottenere l’oggetto del desiderio. I brand, lungi dall’essere frivoli attributi di prodotto, popolano le nostre vite e le nostre menti come veri e propri oggetti culturali: non solo riconosciamo un marchio se lo vediamo, ma ne condividiamo anche i valori. La scelta di una marca piuttosto che un’altra implica una riflessione sulla percezione di sé e sull’immagine di noi stessi che vogliamo comunicare al resto del mondo. Il livello successivo di sponsorizzazione da parte dei grandi marchi “non è sponsorizzare la cultura, ma essere la cultura”. E perché non dovrebbe esserlo? Se i marchi non sono prodotti ma idee, atteggiamenti, valori ed esperienze, perché non possono essere anche cultura? (1)
E quale migliore esempio di sponsorizzazione della cultura del product placement? Il product placement è la tecnica di comunicazione aziendale mediante la quale si realizza, a fronte di specifici costi e nel rispetto di definiti contratti, il collocamento di un prodotto o di una marca all’interno di un contesto narrativo precostituito. (2) L’accordo tra le aziende e i produttori cinematografici ha il duplice vantaggio di abbassare i costi di produzione dell’industria cinematografica e di garantire visibilità ai marchi posizionati all’interno dei film. I brand possono essere inseriti nel testo narrativo sotto forma di stimoli visivi, verbali o in maniera più sofisticata, possono essere integrati con la trama. Gli stimoli visivi, in particolare, creano il contesto e il setting del film, offrendo infinite opportunità di posizionamenti di prodotto neutrali, che restano sullo sfondo, e che non interferiscono in nessun modo con la trama o con la fruizione del testo narrativo. Questo tipo di placement ha l’enorme vantaggio di non infastidire il pubblico, quest’ultimo può infatti godere del contenuto di intrattenimento senza l’interruzione di messaggi commerciali come avviene per la pubblicità tradizionale.
La poca intrusività di questo tipo di comunicazione commerciale è accolta positivamente dal pubblico, ma può correre il rischio di passare inosservata: lo spettatore, preso dal pathos della scena, può non notare gli stimoli secondari presenti sullo sfondo. Gli stimoli di tipo uditivo, invece, contribuiscono allo sviluppo narrativo e permettono di esprimere veri e propri giudizi sul prodotto e possibili celati o evidenti apprezzamenti da parte dei personaggi verso la marca:
Chandler: (Entrando nell’appartamento) Oh, ehi, Rachel, tesoro? Devi dire all’ufficio postale che hai traslocato. OK? Stiamo ancora ricevendo tutte le tue bollette e il resto. (Lui le passa tutte le bollette e la posta indesiderata).
Rachel: Oh-oh, Pottery Barn! (Afferra il catalogo di Pottery Barn e restituisce il resto a Chandler). Puoi buttare via il resto.
Chandler: Non sono il tuo netturbino. Sono il tuo postino.
Rachel: Monica, guarda! Guarda, guarda, guarda! Ecco il tavolo che ho ordinato. (Le mostra la foto).
Monica: L’hai preso da Pottery Barn?
Rachel: Sì! È un tavolo da speziale. C’è davvero qualcuno che sappia cosa sia uno speziale?
Chandler: Un farmacista. (3)
Quello che sembra un commercial firmato Pottery Barn non è altro che uno breve passaggio dello script della popolare serie TV Friends. Il messaggio è caratterizzato da un’attenzione positiva focalizzata verso la marca e i suoi prodotti. Il brand è presente in scena sia sottoforma di stimolo visivo, il catalogo di Pottery Barn, che uditivo: il brand è identificato chiaramente e l’intero dialogo ruota attorno alla sua importanza rispetto al resto della posta e alla varietà dei prodotti fuori dal comune che si possono ordinare presso l’azienda. Questo tipo di placement, che si caratterizza come positive product placement, non solo sviluppa la familiarità dello spettatore verso la marca, ma ne condiziona l’opinione e le preferenze, e, possibilmente ne influenza anche il comportamento e le scelte di acquisto.
Product placement di tipo neutrale o positivo costituiscono la stragrande maggioranza degli inserimenti di prodotto a fini commerciali. La natura dell’accordo tra le aziende e i produttori cinematografici ha privilegiato, sin dagli inizi della pratica del product placement, posizionamenti che mettono in luce la qualità del prodotto o posizionamenti neutrali, evitando product placement negativi o raffigurazioni critiche nei confronti dell’azienda. La percezione delle aziende della pratica del product placement rimane ancorata alla pubblicità tradizionale: contribuendo al costo di produzione del film, l’azienda sponsor, punta ad un ritratto positivo e accattivante del proprio brand e di norma rifiuta l’accordo di placement nel caso in cui lo script costituisca una potenziale minaccia per l’immagine di marca.
Il miglioramento dell’immagine di marca e con esso l’aumento del brand value rappresentano il fine ultimo della comunicazione di marketing dell’impresa, pertanto rappresentazioni realistiche, critiche o associazioni del brand o dei suoi prodotti con personaggi negativi, vengono scartate a priori dalle aziende per paura delle ripercussioni che esse possono causare all’immagine di marca. Il potere contrattuale dei registi resta limitato e laddove un’azienda si rifiuti di sponsorizzare un film a causa di una particolare scena, la produzione cinematografica deve rivolgersi ad un competitor o sostituire il prodotto con un fake brand.
Un esempio particolarmente interessante a questo proposito è il rifiuto di M&M’s (gruppo Mars) a prestare il suo nome e i suoi prodotti al film E.T. l’extraterrestre (Steven Spielberg, 1982). Lo script originale prevedeva il posizionamento di M&M’s, il market leader del settore, come mezzo per attrarre il piccolo alieno. M&M’s temendo l’associazione del suo prodotto con personaggi di fantascienza che avrebbero potuto spaventare i bambini, rifiuta lo script, lasciando la fortunata scena alle caramelle Reese’s Pieces, praticamente sconosciute all’epoca. Il successo del film e di questo particolare product placement porta ad un incremento delle vendite per Reese’s Pieces di oltre 60% e dà inizio ad una vera e propria rivoluzione nel modo di fare placement.
Il caso E.T./Reese’s Pieces non solo è uno dei più celebri e citati esempi di product placement, ma ha portato ad un maggiore interesse per questo tipo di comunicazione e ad un miglioramento qualitativo nella realizzazione del product placement. Il regista viene chiamato ad interpretare il messaggio che il brand per sé comunica allo spettatore e il ruolo che esso riveste nell’immaginario collettivo, in modo da poterlo integrare nel film nel rispetto dell’immagine di marca e del posizionamento che l’azienda si pone come obiettivo.
Questa maggiore libertà creativa lasciata ai registi però non cambia la posizione delle aziende riguardo ai product placement negativi: critiche al prodotto, all’azienda, parodie, associazioni di prodotto con personaggi negativi, violenti o antagonisti dei personaggi principali rappresentano ancora dei tabù. Ciò non sorprende in un mondo che è tutto immagine e vanità, dove la realtà viene osteggiata e camuffata per paura di esporre le proprie insicurezze, sia a livello personale che a livello aziendale. E se la chiave fosse saper ridere di sé? Essere genuini e consistenti riguardo alla propria immagine di marca?
I product placement negativi nascondono sorprendenti vantaggi inesplorati, in primo luogo l’esposizione ad uno stimolo negativo è soggetta ad una maggiore attenzione cognitiva rispetto ad uno stimolo positivo. Nel campo del marketing, ad esempio, i consumatori sono più suscettibili ad informazioni negative sugli attributi del prodotto che ad informazioni positive. (4) Inoltre, product placement esageratamente positivi corrono il rischio di infastidire lo spettatore ed attivare lo stesso scetticismo e senso critico che si attiva per la pubblicità tradizionale. Nel caso del product placement negativo invece, non solo lo spettatore non innalza le sue difese verso l’ennesimo messaggio commerciale ma si aggiunge anche realismo e credibilità al contesto narrativo.
I negative product placement però non sono tutti uguali: Redondo (2012) nel suo studio sul negative product placement distingue tra negatività intrinseca e negatività estrinseca. Questi due tipi di negatività hanno conseguenze diametralmente opposte sull’immagine di marca. Per intrinsic negativity si intendono tutte quelle raffigurazioni che attaccano direttamente le caratteristiche tecniche del prodotto e i suoi attributi mettendo in cattiva luce la qualità e le funzionalità del prodotto o servizio che l’azienda offre. Per extrinsic negativity, invece, si intende l’attacco ai brand per ciò che rappresentano, per il loro significato culturale. Ad esempio, una lattina di Coca cola usata come simbolo del capitalismo e dell’americanizzazione o una BMW come simbolo della classe dirigente o del lusso. (4)
Nel primo caso si ha un attacco diretto all’immagine di marca e alla reputazione del brand: l’attenzione dello spettatore è convogliata verso aspetti negativi ed intrinseci al brand, collegati all’uso e al consumo dei suoi prodotti o servizi. Queste informazioni denigratorie saranno ritenute tanto più credibili e veritiere dallo spettatore, quanto più la trama, l’ambientazione e i personaggi principali del film sono da considerarsi attendibili e carismatici. Questo tipo di publicity, in quanto nociva per l’immagine di marca è da evitare con intransigenza. Le aziende dovrebbero invece riconsiderare la loro posizione riguardo al secondo tipo di negatività, quella estrinseca.
In questo caso, il brand viene attaccato ad un livello superficiale, un livello ideologico. La negatività della raffigurazione viene indirizzata verso ciò che il marchio rappresenta nell’immaginario collettivo e non verso il brand. Questo tipo di rappresentazione non fa che rafforzare il significato simbolico del marchio: l’immagine di marca non solo non viene scalfita da questo tipo di rappresentazione, ma si producono esternalità positive quali l’aumento della familiarità e dell’interesse verso la marca.
A questo proposito è bene sottolineare che soltanto aziende market leader possono beneficiare di questo tipo di rappresentazione, esse devono godere dello status di oggetto culturale, in altre parole devono essere portatori di un significato univoco che sia regista che pubblico condividano. È proprio il crescente valore che i brand giocano nella nostra vita e nel nostro immaginario che permette loro di inserirsi nei testi narrativi impersonando valori e ideologie.
Nel cult movie Fight Club (David Fincher, 1999) brands come Ikea, Starbucks, Apple o BMW vengono chiamati ad interpretare il ruolo del “villain”, dell’antagonista, impersonando il consumismo e il materialismo contro cui il protagonista si ribella. Questi brand placement rappresentano modelli esemplari di negatività estrinseca. Essi diventano target di vandalismi e ostilità a causa della loro fama, del valore che essi assumono nell’immaginario collettivo: far saltare in aria un appartamento con tutto il suo arredamento Ikea comprato e costruito pezzo dopo pezzo, non attacca la qualità dei prodotti Ikea, bensì quel bisogno insaziabile di ottenere l’ultimo oggetto del desiderio. L’esplosione coincide con il momento della catarsi, il protagonista è finalmente libero dal giogo del consumismo.
Peculiarmente, il noto brand svedese compare in scena solo a livello uditivo con diversi riferimenti, ma il catalogo che il protagonista sfoglia nel bagno e la famosa scena in cui l’appartamento di Edward Norton si riempie con prodotti simil-Ikea dai nomi nordici e dal design inconfondibile è firmato Fürni. Il che lascia pensare che l’azienda abbia rifiutato il raffinato placement ideato da Fincher per non essere associata al contenuto violento del film o per non essere il bersaglio delle critiche dei protagonisti. Purtroppo, o fortunatamente la rappresentazione di questo brand fittizio non lascia adito a dubbi, tanto che, uno spettatore poco attento rischia di non notare questa sostituzione.
Inoltre, a prescindere dal tipo di negatività o dall’associazione del brand con personaggi o scene negative o violente, è possibile concordare con la produzione posizionamenti che permettono il distacco del brand dal contenuto della scena, mantenendo un elevato livello di visibilità. Il collocamento di Pepsi nello stesso film, ne offre un esempio significativo: nonostante la continua presenza in scene violente e semipornografiche, il marchio, gode di un posizionamento di tipo neutrale, l’immagine del brand non è scalfita dall’associazione con questo tipo di scene o di personaggi per via delle caratteristiche tecniche con cui compare in scena, si tratta per lo più di creative placement in secondo piano, ovvero di posizionamenti che vedono il brand sullo sfondo con cartelloni, insegne, brevi spot pubblicitari o distributori automatici. In altre parole, il brand è visibile ma non vi è mai un’interazione con i personaggi.
L’associazione diretta con scene o personaggi negativi, violenti o antisociali non sembra influenzare l’immagine di marca, determinante è invece il carisma di un dato personaggio. In Fight club, ad esempio, è facile lasciarsi affascinare dal violento e carismatico Tyler Durden. I brand associati a questo personaggio godono delle stesse esternalità positive di cui beneficiano i brand associati e utilizzati da personaggi positivi e popolari. Lo stravagante look del personaggio, ad esempio, ha attratto l’interesse degli spettatori, trasformando i bizzarri occhiali firmati Olivers People in un oggetto da collezione.
Film e serie TV veicolano rappresentazioni della realtà che influenzano e danno forma all’universo simbolico del pubblico. I brand si inseriscono in questi programmi più o meno celatamente, sviluppando quella familiarità che poi gli permetterà di inserirsi nelle nostre vite. Allo stesso modo, la nostra vita quotidiana è così pregna di prodotti e marchi che quando li ritroviamo nei nostri contenuti di intrattenimento, rischiano di passare inosservati. Il product placement più che una tecnica di comunicazione commerciale si configura come una tecnica di rappresentazione della realtà: una realtà postmoderna, in cui brand e pubblicità trasmettono significato, sono cultura e finiscono per condizionare la nostra visione del mondo.
Riconosciuto il ruolo di rilievo di questa tecnica pubblicitaria nello sviluppo di preferenze e visioni del mondo, spetta ad aziende e produttori offrire un’immagine di marca che sia coerente e realistica.
La conoscenza di questo strumento permette di sfruttarne i vantaggi e le possibilità inesplorate: tra cui l’uso di rappresentazioni “negative” o realistiche. Il product placement presenta caratteristiche e peculiarità che si allontanano dall’advertising tradizionale, allo stesso modo la visione che si ha di questo strumento dovrebbe allontanarsi da quella tradizionale. Rappresentazioni genuine e credibili possono migliorare l’immagine di marca, la qualità del film e riallineare il gap tra l’opinione dei consumatori e il posizionamento del brand.
Ad ogni modo, saranno i consumatori a determinare il futuro del product placement e dell’advertising. Lo spettatore è un consumatore astuto, analitico, alfabetizzato al prodotto e al marketing ed è capace di leggere attraverso le storie costruite dai marketer. Questa capacità di distinguere il vero dal falso determinerà la sopravvivenza o lo sviluppo dell’approccio negativo, o realistico, alla costruzione del marchio.
Bibliografia:
- Klein, N., No Logo, Great Britain, Flamingo, 2000.
- Gistri, G., Il product placement cinematografico, Egea, Milano, 2008.
- Russel, C. A., (2002) Investigating the Effectiveness of Product Placements in Television Shows: The Role of Modality and Plot Connection Congruence on Brand Memory and Attitude, Journal of Consumer Research, Volume 29, Issue 3, December 2002, Pages 306–318.
- Redondo, I., (2012) The Behavioral Effects of Negative Product Placements in Movies, Psychology and Marketing, Vol. 29(8): 622–635.
Articolo a cura di Eleonora Borando
Dopo la laurea in Marketing e Mercati Globali presso l’università di Milano-Bicocca ho scelto la vita da expat nella capitale austriaca, dove mi occupo del marketing e della comunicazione per una start-up internazionale. Cittadina del mondo e instancabile viaggiatrice, parlo fluentemente 4 lingue e trovo nel mio percorso internazionale la continua sfida a crescere, imparare e mettersi in gioco