Progettare Facendo
Nella prassi aziendale ogni piano si definisce a tavolino in tutti gli aspetti a cui attenersi, poi si cala dall’alto nella struttura a cui è destinato.
Le donne però, così come non si rifanno a modelli standardizzati, tendono anche a non imporre piani definiti in astratto, ma piuttosto a sviluppare il progetto tenendo conto delle prove di realtà che si incontrano, con il coinvolgimento dei suoi destinatari.
A cose fatte tutti i progetti con evidenti buoni risultati sembrano semplici, nati da un disegno ben definito, con una realizzazione lineare. Ma questa idea di progetto funziona solo sulla carta. Pensare di prevedere ogni dettaglio e come il processo si evolverà non è realistico.
Eppure la prassi aziendale ha proprio questa presunzione: il piano si definisce a tavolino in tutti gli aspetti a cui attenersi, poi si cala dall’alto nella struttura a cui è destinato. Che vada bene o no, tutti si devono adattare. Non è certo l’approccio più produttivo.
Così come non si rifanno a modelli standardizzati, le donne invece tendono anche a non imporre piani definiti a priori, astratti, ma piuttosto a progettare nella realtà.
Partono senza avere in testa un piano definito, ma con una visione e dei criteri, sì.
Sanno l’obiettivo che vogliono raggiungere e come fare, ma sanno anche che il percorso non può essere tutto prevedibile.
Il progetto va sviluppato vedendo gli effetti e le possibilità che si manifestano. Si comincia senza bisogno di aver tutto chiaro, poi il progetto prende corpo tenendo conto via via delle prove di realtà che si incontrano, a cominciare dai suoi destinatari.
Guardiamo solo un esempio, il progetto d’avanguardia realizzato dalla responsabile Sistemi ICT di un gruppo ospedaliero privato: la digitalizzazione e unificazione della cartella clinica medica e infermieristica. Questo abbatte le possibilità di errore umano e permette di avere in ogni momento a portata di mano la totalità dei dati relativi al paziente. Un progetto molto complesso e che ha coinvolto cinque strutture ospedaliere.
La responsabile ha iniziato da un’analisi dei processi svolta sul campo, sviluppando il progetto tenendo contro di bisogni professionali, capacità di apprendimento, necessità formative, suggerimenti, motivi di resistenza. Si attuava uno stadio, lo si acquisiva nel comportamento degli utilizzatori, si procedeva ad un altro stadio tenendo conto di quello che si era imparato. In questo modo si rende il progetto aderente alle necessità reali.
Non un modello chiuso a cui adattarsi, ma un processo continuo, aperto all’apporto di tutti gli utilizzatori che ne verificano la funzionalità nel lavoro.
“Un modello sempre in versione beta” dice Pina Grimaldi, Direttore Centrale Sistemi e Organizzazione del Gruppo Ospedaliero Fatebenefratelli.
Le riflessioni di questa manager mostrano la differenza essenziale implicita in questo modo di sviluppare un progetto.
“L’obiettivo del mio lavoro è la progettazione del sistema informativo per gli ospedali del gruppo. Ci sono tre strade per fare questo lavoro. La prima è imporre uno strumento informatico costruito sulle esigenze dei fattori economici (redditività, controllo di gestione…) e costringere migliaia di persone ad utilizzarlo. La seconda ha la stessa finalità, ma una modalità diversa: si sceglie un modello e poi lo si adatta per farlo acquisire a migliaia di persone ‘mediando’ su varie opzioni per accontentare gli utenti. La terza strada è costruirlo con il loro aiuto tenendo conto delle esigenze di tutti. La prima ipotesi è quella che dà risultati sicuri ma soprattutto immediati con le conseguenti promozioni, riconoscimenti da parte dell’azienda, a chi ha portato a casa il risultato. Il successo è maggiore quanto maggiore è la capacità di coercizione nel fare accettare un modello di lavoro non condiviso, ma rispondente ad una parte dell’azienda, quella che detiene il potere. Il punto critico è che questo tipo di innovazione dura quanto può durare la capacità di forzare le persone. Non appena volti le spalle tutto ritorna come prima. La seconda ipotesi è sicuramente quella meno efficiente, perché nessuno ti perdona la soluzione di una ristrutturazione di facciata di un modello condiviso, quindi ha poca durata, è destinato a finire come il primo. Il terzo è sicuramente l’approccio più rischioso e più faticoso per chi lo adotta, perché richiede molto: un’ottica di condivisione pur avendo chiari gli obiettivi; la consapevolezza che il successo del progetto non può essere solo tuo, quindi i meriti sono condivisi; si cede una parte considerevole del proprio potere di ruolo, in quanto si sceglie di condividere con chi utilizzerà lo strumento. Si individuano anche soluzioni e modalità che possiamo non apprezzare, ma se coinvolgi qualcuno lo devi ascoltare e tenere conto del suo punto di vista. Anche se è la modalità più faticosa alla lunga è quella che permette una vera innovazione, in quanto va al di là degli obiettivi iniziali, ed essendo condivisa ogni persona che partecipa apporta un pezzetto della propria visione, creando un cambiamento frutto di una costruzione comune. Siccome ognuno ne è stato parte, ci terrà a renderlo duraturo. Così è questa la modalità con durata maggiore. Questi sono alcuni dei punti che si devono affrontare se si vuole realizzare un prodotto utile a chi lo usa. Il terzo approccio è quello che preferisco, faticoso ma sulle lunghe distanze premia. Ha un problema sostanziale: il progetto non è più solo tuo. Lo condividi, non lo puoi controllare. Lo puoi guidare, ma il risultato può non essere quello che tu vuoi. Spesso però è molto di più.”
Dalla pianificazione centralizzata si passa a far emergere le soluzioni con il coinvolgimento di chi lavora. Un progetto funziona se viene capito, se ne vedono gli scopi e i vantaggi, e far partecipare i soggetti interessati alle decisioni crea un senso di responsabilità, gratificazione e motivazione. E’ il modo per istituzionalizzare il nuovo schema organizzativo, perché i destinatari se ne approprino realmente.
E’ un atteggiamento nuovo, che cambia anche il modo di esercitare la propria lesdership: imparare, cambiare, accettare l’errore, mettere a punto, lasciare venire ciò che emerge, verificare. Creare le condizioni perché possano definirsi le soluzioni migliori.
Sono sempre più presenti nel mondo aziendale segnali di attenzione per un approccio agile alla progettazione, anche per il rapido e continuo cambiamento a cui siamo esposti in questa fase economica. Una strategia non può essere definita totalmente a priori in una situazione in cui non si sa quale sarà il futuro, nemmeno a breve termine.
Non servono dunque approcci ridondanti, serve piuttosto un atteggiamento esplorativo: partire da un obiettivo, provare, imparare dagli sviluppi, fare aggiustamenti. L’illusione di poter pianificare e controllare tutto è un’altra manifestazione di potere.
Questo articolo, come i precedenti già comparsi in questa rubrica sono estratti dal libro di Luisa Pogliana Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende (Guerini e Associati, 2016).
A cura di: Luisa Pogliana
Luisa Pogliana: per molti anni direttore di una staff in una grande azienda editoriale, è ora consulente di ricerca sui mercati internazionali. Ha fondato l’associazione Donnesenzaguscio, per la valorizzazione delle pratiche e dei pensieri innovativi delle donne nel management. Su questi temi ha pubblicato Donne senza guscio (2009) e Le donne il management la differenza (2012), entrambi presso Guerini.