Quale manager può assicurare la “salute organizzativa”?

Definire il “benessere” nel mondo del lavoro appare tutt’altro che semplice; in dottrina esso è considerato come la capacità degli individui di agire in modo autonomo e consapevole per realizzarsi pienamente utilizzando le risorse individuali e collettive disponibili e accessibili[1]. Ne discende che nelle organizzazioni il “benessere” risulta riferito agli individui ed è influenzato dalla capacità di azione delle persone operanti nell’organizzazione stessa. Sul piano linguistico, peraltro, “benessere” è l’unione di “bene” e di “essere”, che rinvia allo “stare bene”, nella doppia accezione fisica e psicologica. A sua volta, “stare bene” può avere due direzioni di significato: “sentirsi bene” (sentirsi in forma) ed essere “percepito bene” (sentirsi adeguato alla situazione), nel senso di accolto, accettato, ascoltato, considerato, riconosciuto.

Fatte queste considerazioni, è possibile sostenere che, quando si voglia trattare del “benessere” delle persone al lavoro, sia più appropriato utilizzare il termine “salute organizzativa”; salute e qualità della vita negli ambienti di lavoro, infatti, sono conseguenza dell’attenzione verso soggettività che influenzano in modo significativo il funzionamento della organizzazione. Il concetto di “salute organizzativa”, d’altro canto, consente di riferirsi anche alla capacità dell’organizzazione nel suo complesso di essere non soltanto efficace e produttiva, ma anche in grado di svilupparsi, migliorando il “benessere” fisico, psicologico e sociale degli addetti. E, difatti, accanto ai tradizionali rischi fisici (radiologici, chimici, biologici) collegati alla sicurezza negli ambienti di lavoro e alla loro prevenzione si va affermando oggi lo studio dei rischi psico-sociali, con l’attenzione ad aspetti associati al clima organizzativo e agli stili di convivenza[2].

Per una maggiore comprensione del tema fin qui considerato nella figura che segue (Fonte: Litwin e Stringer, 1968) si espongono alcuni dei molteplici indicatori che evidenziano la presenza di uno stato di “salute organizzativa”.

A fronte di detti fattori, per converso, è possibile affermare che in assenza di “salute organizzativa” gli indicatori di sofferenza negli ambienti di lavoro sono costituiti dal risentimento verso l’organizzazione, dall’aggressività e nervosismo, dalla presenza di sentimenti di inutilità, di irrilevanza e di disconoscimento, dalla insofferenza nel recarsi al lavoro e dal disinteresse verso il compito.

Fig. 1 – Indicatori della salute organizzativa

Quanto si qui condiviso conferma come il riferimento all’espressione “salute organizzativa” permetta di valicare la tradizionale dicotomia tra individuo e organizzazione e induca a concludere che “stare bene” nel modo del lavoro risiede nella qualità delle relazioni, prima che nel rispetto delle regole. I primi studi organici aventi questo indirizzo risalgono agli anni ’80 dello scorso secolo e hanno visto in Glasgow e Terborg[3] gli esponenti di spicco della corrente di pensiero protesa a fare luce sul concetto di Wellness e di Occupational Health Promotion[4]. A questi autori si deve il pregio di avere collegato la “salute organizzativa” al processo capace di migliorare il benessere fisico e psicologico delle persone al lavoro superando il limite di “salute” come collegata all’assenza di malattia.

Determinandosi condizioni di scarsa “salute organizzativa”, invero, si generano fenomeni di diminuzione della produttività, di assenteismo, di carente motivazione, con minore impegno verso il lavoro e mancanza di fiducia in sé stessi e verso l’organizzazione, che costituiscono il riflesso dello stato di disagio avvertito dalle persone al lavoro giacché la riduzione della qualità della vita lavorativa (in senso generale) e della percezione individuale di assenza di “benessere” rende onerosa la vita dell’organizzazione, ostacolandone lo sviluppo. Alla lesione dello “stare bene”, pertanto, deve conseguire “lo sforzo congiunto dei datori di lavoro, lavoratori e società per migliorare la salute ed il benessere dei lavoratori”[5] atteso che il futuro successo delle organizzazioni dipende dal fatto di avere persone che, oltre ad essere ben qualificate, siano sufficientemente motivate e consapevoli di “stare bene”.

Si tratta di un obiettivo che può essere raggiunto esclusivamente attraverso la combinazione del miglioramento dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro, concretizzabile sia con la promozione della partecipazione attiva delle persone che operano nella organizzazione sia con l’incoraggiamento dello sviluppo personale senza trascurare, tuttavia, il ricorso a specifici processi di formazione che, superata l’ansia dell’addestramento tecnicale e l’aggiornamento normativo (sulla sicurezza), sappiano usare convenientemente le leve dell’apprendimento in chiave “eudemonica”[6] nella consapevolezza che “non bisogna attendere che il benessere giunga soltanto dall’esterno di sé, indotto da altri, ma è necessario attivarsi alla ricerca delle fonti di benessere anche all’interno della propria persona… [poiché] in assenza di un’autentica disponibilità dell’individuo è arduo immaginare che il benessere possa autogenerarsi e autoalimentarsi in modo spontaneo”[7].

Evidente, a questo punto, che la “salute organizzativa” è possibile se oltre ad adottare stili di vita salutari siano offerto alle persone al lavoro le opportunità per metterli in atto. Questo modo di governare il fenomeno necessita dell’apporto di manager che abbiano consapevolezza che operare per assicurare “salute organizzativa”, al posto di semplice sicurezza nel mondo del lavoro, costituisce un “valore” con cui è possibile persino fronteggiare – con successo – il cambiamento a condizione di discostarsi dagli interventi dettati dalla prassi, che delega alla dinamica dei rapporti gerarchici, per intraprendere quelli aperti al contributo di tutti gli attori organizzativi.

A questi manager va domandato di possedere un bagaglio di elementi che sostengano e sostentino il mutamento il cambiamento nelle organizzazioni soprattutto ora che il lavoro è divenuto più “liquido” (immateriale), in contrapposizione alla “solidità” del passato[8]. Il riferimento è a un management che sappia esercitare le proprie capacità di leadership pensando in termini sistemici (o ecologici come si suole dire oggi) attuando azioni efficaci di pianificazione delle decisioni e dei comportamenti a partire dal porre in essere attività di problem setting e di problem solving.

Vale la pena di avere a mente quello che sostiene Pierce: “per le imprese, una buona salute è sempre un ottimo affare” [9].

 

Note

[1] Cfr. A.I. Glendon, Safety Culture, in H. Karwowski, International Encyclopedia of Ergonomics and Human Factors, Taylor and Francis, London, 2001.

[2] Cfr. G.H. Litwin, R.A. Stringer, Motivation and organizational climate, Harvard Business School press, Cambridge (MA), 1968.

[3] Cfr. R.E. Glasgow, J.R. Terborg, Occupational health promotion programs to reduce cardiovascular risk, “Journal of Consulting and Clinical Psychology”, 56, 1988.

[4] Proprio a Terborg va riconosciuto il merito di avere distinto i concetti di Health Protection (che significa proteggere il maggior numero di individui dai rischi per la loro salute) e di Health Promotion (che esprime la necessità di indurre gli individui a fare scelte ragionate per migliorare la propria salute fisica e mentale): al primo aspetto è associato, soprattutto, il concetto di job design, mentre riguardano il secondo le tecniche di motivazione.

[5] Luxembourg Declaration on Workplace Health Promotion (Version of January 2007).

[6] Cfr. S. Gheno, La formazione generativa. Un nuovo approccio all’apprendimento e al benessere delle persone e delle organizzazioni, Franco Angeli, Milano, 2010.

[7] F. Bochicchio, T. Di Sabato, Apprendimento e cambiamento nelle organizzazioni, Libellula edizioni, Tricase, 2018, pag. 82.

[8] Cfr. Z. Bauman, Vita liquida, tr. it., Laterza, Bari, 2008.

[9] Cfr. D.F. Pierce, Safety in the emerging leadership paradigm, “Occupational Hazards”, 62, 2000, pag. 15.

 

Articolo a cura di Tommaso Di Sabato

Profilo Autore

Docente presso la Scuola di Alta Formazione della UNINT- Roma e Collaboratore del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione – Torino.
Già Direttore vicario della Ripartizione Risorse Umane di UNISALENTO e Professore a contratto dei Corsi di Laurea in Scienza dell'Amministrazione - Facoltà di Giurisprudenza di UniTELMA – Roma.

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