Razionalità e leadership discriminatoria
Gestire significa prendere decisioni; e gestire bene significa prendere decisioni giuste. Concetti semplici, ma inattaccabili. Ma quando una decisione è giusta? E attenzione, perché “giusto” non significa solo “esatto”. Un ragionamento è giusto se risponde a precise regole logiche e le rispetta. Ma è anche vero che una scelta può essere giusta senza essere, ad un tempo, logica.
È chiaro che la differenza sta nell’accezione di giustezza, che nel secondo caso diventa giustizia. Nel primo caso si riferisce al nostro aspetto razionale, nel secondo al complesso dei nostri valori morali. Problema risolto? Mica tanto! L’accezione logica ci permette di opporre a chicchessia le nostre scelte razionali, attraverso una dimostrazione delle nostre ragioni, che, se fondate, non possono che essere universalmente accettate. L’accezione morale non ci permette di opporre a chicchessia le nostre motivazioni, in quanto i principi morali sono personali e non possono essere trasmessi solo con la forza delle ragioni che li sottendono. I principi morali cambiano nel tempo e nello spazio e cercare di fondarli sul solo intrinseco valore, rischia di innescare un elemento di circolarità. In altri termini, la loro validità dipenderebbe dai principi stessi e dai valori che per noi rappresentano, attivando tutte le conseguenti motivazioni scettiche e relativistiche.
Quindi, su quali basi deve scegliere i propri comportamenti un leader, tenendo conto delle osservazioni fin qui esposte? Sviluppando la propria dimensione razionale e sviluppando la propria dimensione morale nel normare i propri comportamenti. Un/a leader dev’essere in grado di declinare la “doppia natura” del termine “giusto”, secondo criteri logici e sociali. Ciò a cui è chiamato/a è un compito estremamente delicato, perché passare disinvoltamente dalle sequenze logico-razionali alle dinamiche etico-comportamentali non è cosa da tutti.
Ma, a questo punto, interviene un tema particolarmente delicato: come si gestisce la diversità? A quali logiche si deve inchinare un leader che voglia essere inclusivo? Deve affrontare il tema da un punto di vista razionale (giustezza) o morale (giustizia)? Attenzione, il tema della diversità è molto più sottile di quanto non sembri. Non esistono solo le manifestazioni di diversità macroscopiche, come il colore della pelle, il genere sessuale, i gusti sessuali, la provenienza geografica, i differenti “credo” religiosi, ecc. Ci sono diversità sottili e, per questo, molto più complesse da gestire. Pensiamo alle differenze di formazione scolastica o alle diverse inflessioni dialettali. Gli elementi che possono ispirare una discriminazione “caricaturale” del “diverso” sono infiniti. Il fenomeno della discriminazione si compone di micro processi che, nel loro insieme, attivano una dinamica complessiva che si insinua nei comportamenti più naturali e diffusi. A ben vedere – per un motivo o per l’altro – tutti noi siamo vittime di una qualche discriminazione. Questo attiva un meccanismo di “compensazione” discriminatoria, per la quale se io sono discriminato perché sono calvo, posso, a mia vota, discriminare chi è grasso, che può, a sua volta, discriminare un gay, che, a sua volta, può discriminare una persona rozza e ignorante, e così via. Insomma, accettiamo di essere discriminati, purché ci sia data la possibilità di discriminare a nostra volta.
Ma come se ne esce? Anzi, visto che il tema ci interessa da una prospettiva legata alla leadership: come può, un leader, restare immune da ogni pregiudizio discriminatorio? Purtroppo, la risposta è semplice: non può! O meglio, non può vincere i suoi pregiudizi, senza mettere in atto un “innaturale” processo razionale. Un leader deve guardare “l’altro” come una risorsa, come un’opportunità per valorizzare al massimo le potenzialità riposte in lui o lei. È una dinamica strumentale e razionale, finalizzata a realizzare un progetto attraverso un semplice ragionamento (giustezza). Mortificare una persona significa inibire un “potenziale produttivo”, il che è un comportamento irrazionale e, quindi, sbagliato. Una volta vinte razionalmente le tentazioni discriminatorie, il leader acquista coscienza della grande risorsa che ogni persona rappresenta e sarà più facile adeguare i propri valori morali a principi che escludano ogni tipo di discriminazione, per attivare una politica di instancabile e incessante inclusione (giustizia). Solo così, l’autocompiacimento per le umiliazioni o le ferite inferte a un proprio simile diventeranno non l’espressione di una persona “cattiva” – cosa per la quale conosco persone che accennerebbero un sorriso di autocompiacimento – ma sintomi di patente imbecillità. E, credetemi, un leader che si senta “cattivo” può decidere di non cambiare; ma se si sente cretino, comincia ad attivare forme di reazione.
Se non altro per non essere discriminato.
Articolo a cura di Giuseppe Andò
Giuseppe Andò svolge dal 2000 la professione di C-level & Executive Coach. La sua formazione lavorativa e professionale concilia l’esperienza vissuta al vertice di alcune delle più importanti multinazionali dell’editoria e della comunicazione (General Manager McGraw-Hill, General Manager Pearson), con la fondazione e direzione delle prime realtà strutturate in Italia per l’executive coaching (Studio Income srl, Fineo srl). Nel 2017 consegue tutte le certificazioni MG Sakeholder Centered Coaching e dal 2019 è coach associato Marshall Goldsmith. Dal 2018 è Board Member di EMCC Italia (European Mentoring and Coaching Council). La sua formazione scolastica e universitaria concilia i valori umanistici (liceo classico e laurea in filosofia a indirizzo epistemologico - Milano) con le necessarie competenze tecniche specifiche (laurea in economia indirizzo aziendale - Bologna).