Responsabilità professionale del consulente del lavoro: un caso paradigmatico

Il caso esaminato

Il caso esaminato in questo scritto, di cui alla sentenza del Tribunale di Monza n. 5/2021 del 4 gennaio, poi confermata dalla Corte d’Appello con sentenza del 2 marzo 2022, R.G. 477/2021, muove da un contratto (verbale) di consulenza ed assistenza in tema di gestione del personale, nell’ambito del quale la società cliente contestava al consulente del lavoro di essersi reso inadempiente al mandato ricevuto omettendo di informare la stessa circa la possibilità di applicare nei confronti dei suoi dipendenti il più conveniente Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro applicabile ai lavoratori del settore Artigiano, anziché quello relativo al settore Industria, in tal modo causando all’attrice maggiori oneri economicamente valutabili (nello specifico, oggetto di Consulenza Tecnica d’Ufficio in primo grado). La società ha chiamato in giudizio il consulente, chiedendo la condanna al risarcimento dei danni entro il termine prescrizionale decennale previsto per la responsabilità contrattuale.

In primo luogo il consulente eccepiva come, in assenza di un contratto scritto, non fosse possibile verificare a posteriori l’effettivo perimetro delle attività demandate al professionista medesimo.

Il Tribunale osservava, sul punto specifico, che l’attività informativa in questione rientrava a pieno titolo nelle mansioni tipiche del consulente del lavoro, il quale deve occuparsi delle problematiche concernenti l’inquadramento del personale e le relazioni con gli enti ed uffici competenti in materia di lavoro e previdenza nonché con le organizzazioni sindacali, citando l’art. 3 della legge professionale 12/1979, secondo cui “i consulenti del lavoro … svolgono per conto di qualsiasi datore di lavoro tutti gli adempimenti previsti da norme vigenti per l’amministrazione del personale dipendente”.

Ne conseguiva che, fatta eccezione per le ipotesi in cui una siffatta informativa sia stata esclusa nell’ambito degli accordi contrattuali tra le parti, essa doveva invece considerarsi a tutti gli effetti rientrante nell’oggetto dell’incarico. D’altro canto, il consulente, alla fine dell’anno 2016, aveva proposto alla società di cambiare il contratto collettivo applicabile al personale dipendente, cosa che confermava la circostanza di cui appena detto.

L’applicazione di un contratto collettivo ha ripercussioni non solo sul piano puramente retributivo, bensì anche su tutti gli altri aspetti del rapporto di lavoro, molti dei quali aventi un’incidenza economica sull’attività di impresa. Oltremodo, l’applicazione generalizzata di un certo contratto collettivo ha effetti automatici per tutti i dipendenti, diversamente dal riconoscimento di aumenti retributivi personalizzati, ovvero sporadici.

La difesa del professionista ha dedotto che l’inquadramento ai fini previdenziali e assistenziali non è vincolante per il datore di lavoro, nel senso di imporgli l’applicazione di una contrattazione collettiva corrispondente alla stessa attività considerata ai suddetti fini, ma il Giudice ha considerato irrilevante la questione, ritenendo che l’oggetto della controversia non vertesse tanto o solo sull’indiscutibile principio di libertà contrattuale, peraltro cristallizzato da consolidata giurisprudenza di legittimità (le due pronunce più celebri sul punto, tra di loro coerenti, sono Cass. 2665/1997 e Cass. 10002/2000, costanti nell’affermare che l’elemento centrale è costituito dall’adesione al trattamento fissato da contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, idonea a garantire il principio di sufficienza della retribuzione fissato dall’art. 36 Cost.), bensì intorno al ruolo strategico e giuridico ricoperto dal consulente del lavoro nel veicolare e contribuire alla formazione della volontà datoriale in ordine all’applicazione della fonte collettiva preposta a far sorgere obblighi e diritti in capo alla pluralità dei lavoratori subordinati.
In fatto, si osservano due elementi potenzialmente rilevanti ai fini della pronuncia: il primo è stato costituito dalla duplice posizione rivestita dal professionista convenuto, atteso che il medesimo non solamente era il consulente della società attrice, ma anche il suo commercialista, e pertanto era il soggetto maggiormente legittimato a conoscere i riverberi, da un punto di vista strettamente economico, della scelta derivante dal consiglio in ordine all’applicazione dell’una o dell’altra fonte collettiva; secondariamente, la società, pur applicando (con tutte le conseguenze in tema di differenze retributive, differenze nella maturazione di ferie e permessi, durata del – più favorevole – regime dell’apprendistato, differente regolamentazione del trattamento economico – normativo di malattia) il contratto collettivo del settore industriale, era contributivamente inquadrata nel settore artigiano, per cui è possibile che tale – sia pur non univocamente interpretabile – circostanza abbia contribuito (alla luce altresì dell’iscrizione presso l’albo degli artigiani del legale rappresentante della società) al convincimento del giudice in ordine alla responsabilità del consulente del lavoro nell’individuazione della fonte collettiva applicata.

Una volta accertata la responsabilità, si trattava di quantificare l’entità del pregiudizio economico connesso alla vicenda occorsa, cosa che il giudice aveva effettuato con l’ausilio di un CTU, il quale ha calcolato le somme sotto tutti i profili coinvolti, con ciò rigettando alcune, ulteriori considerazioni relative alle modalità di determinazione dei valori risarcitori (oltremodo reiterate anche nel giudizio di Appello).

Alla luce delle considerazioni di cui sopra, il professionista è stato condannato al risarcimento dei danni causati alla società, agli interessi di mora, nonché alla rifusione delle spese legali.

La sentenza della Corte d’Appello di Milano

La vicenda è stata portata in appello e la Corte ha confermato la decisione di primo grado, respingendo tutti i motivi di appello relativi all’an debeatur (dunque riconoscendo e confermando la legittimità giuridica della pretesa attorea e conseguentemente della sentenza di primo grado che aveva accolto integralmente la domanda).

Nella motivazione la Corte osserva, ripercorrendo il ragionamento del giudice di prime cure, che le prestazioni a carico del consulente del lavoro non possono essere esclusivamente limitate alla elaborazione delle buste paghe dei dipendenti, ma comprendono anche tutte le prestazioni dirette a fornire assistenza al cliente in merito all’inquadramento dei dipendenti in un contratto collettivo di lavoro. Ciò ancor più in ragione del fatto che è possibile inquadrare i dipendenti, in base alle mansioni svolte, anche in contratti collettivi affini. Pertanto, rientra nelle obbligazioni contrattuali del consulente del lavoro anche quella di fornire al cliente puntuali informazioni in merito ai possibili contratti collettivi utilizzabili ed alla rispettiva convenienza economica.

Parte della controversia aveva ruotato intorno al perimetro delle competenze proprie del consulente del lavoro, atteso che la difesa del professionista convenuto si fondava sulla tesi secondo cui la figura professionale in esame non sarebbe stata idonea all’assistenza legale / sindacale funzionale alla modifica del contratto collettivo applicato.
Si rammenta in proposito, come affermato da entrambe le sentenze, che il consulente del lavoro è titolato, quanto un avvocato, per condurre anche le trattative sindacali per addivenire alla modifica del contratto collettivo in cui inquadrare i contratti di lavoro dei dipendenti.

Sotto altro profilo, quello deontologico, possono segnalarsi alcune previsioni del Codice dei consulenti del lavoro (delibera 428 del 2017, approvata dal Consiglio Nazionale Dell’Ordine):

  • Art.. 3: i consulenti sono tenuti a svolgere “con dovere di dignità e decoro l’attività professionale svolta”.
  • Art. 4: il consulente deve “ordinare la propria attività in modo che sia resa a favore del cliente sotto la propria direzione e responsabilità personale in conformità al principio di professionalità specifica”.
  • Art. 5: il consulente deve svolgere la sua attività con “lealtà e correttezza”.
  • Art. 10:
    • Il Consulente non deve accettare incarichi che sappia di non poter svolgere con la necessaria competenza o per i quali “non sia in grado di assicurare un’organizzazione adeguata”.
    • Il Consulente “deve curare costantemente la propria preparazione professionale”.

All’evidenza le conseguenze connesse a tali precetti sono di esclusivo valore deontologico e di competenza, quanto alla loro valutazione, degli organi disciplinari dell’Ordine Professionale.

Obbligazioni di mezzi e di risultato

Non è sempre agevole valutare il discrimine tra responsabilità e imperizia.

Si pensi al cliente che si rivolge a un legale per decidere se sia o meno il caso di intraprendere una determinata iniziativa giudiziaria. L’ avvocato ha il dovere di valutare la saggezza e l’opportunità dell’iniziativa, se del caso sconsigliando di procedere in una direzione che porterà certamente, ad esempio, ad una sconfitta giudiziale con relativo onere di spese. Egli avrà diritto di chiedere un compenso per la propria attività di consulenza e l’eventuale comportamento omissivo in questa fase di informazione deve essere ricondotto ad un ambito già contrattuale, potendosi affermare che il contratto d’opera professionale è stato concluso nel momento in cui il cliente si è rivolto all’avvocato chiedendogli il parere. E la responsabilità civile di quest’ultimo non verrà meno a seguito del comportamento, magari ineccepibile, tenuto dal legale in occasione dell’attività giudiziaria da lui (malaccortamente) intrapresa.

Il professionista, cioè, è tenuto nei confronti del proprio cliente all’esatto adempimento dell’obbligazione contrattualmente assunta, come enuncia l’art. 2230 c.c. E si tratta di un’obbligazione particolare per la quale l’art. 1176 c.c. pone la regola della diligenza qualificata; mentre nel comma 1, infatti, si afferma genericamente che nell’adempimento delle obbligazioni il debitore «deve usare la diligenza del buon padre di famiglia», nel comma 2 si dice che nelle obbligazioni «inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata». Può convenirsi con chi potrebbe sostenere che il comma 2 dell’art. 1176 c.c. è un’esplicitazione del primo, nel senso che il dovere di attenzione si rapporta sempre con quello «medio» della categoria di appartenenza, dovendosi intendere tale diligenza come buona, sebbene non eccezionale, ossia come diligenza qualificata. In tal modo, peraltro, si determina un sostanziale aggravamento di tale onere nei confronti del professionista rispetto al debitore ordinario, poiché al primo si richiede il possesso di nozioni tecniche e di doti di accuratezza, prudenza e precisione che sono peculiari di una determinata professione intellettuale.

A chiusura delle norme sulla responsabilità professionale sopra riepilogate vi è poi la previsione contenuta nell’art. 2236 cod. civ., che stabilisce quanto segue: “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”: è evidente come la ratio legis della norma sia quella di evitare che i professionisti si astengano dall’esecuzione di prestazioni di particolare difficoltà tecnica, circoscrivendo la loro responsabilità, come inevitabile, solo a eventuali casi di dolo o di macroscopiche dimostrazioni di negligenza, imperizia o imprudenza.

Tale principio, declinato dalla giurisprudenza, si è tradotto nella massima della Corte di Cassazione n. 16275/2016, che ha affermato che si tratta di una “nozione che ricomprende non solo la necessità di affrontare problemi insolubili o assolutamente aleatori, ma anche l’esigenza di affrontare problemi tecnici nuovi, di speciale complessità, che richiedano un impegno intellettuale superiore alla media, o che non siano ancora adeguatamente studiati dalla scienza”: evidentemente, nel caso oggetto del presente contributo, la giurisprudenza, nel valutare la diligenza nell’adempimento del professionista, non ha ritenuto l’attività di consulenza sull’applicando C.C.N.L. (e sui suoi riverberi amministrativi e soprattutto economici) né connotata da speciale difficoltà tecnica, né da un elemento di novità.

Nella pratica la giurisprudenza ammette senza problemi che l’obbligo di diligenza venga valutato diversamente a seconda delle varie professioni e, in ciascun ambito, in relazione alla complessità del caso concreto. Ciò che non è pensabile è, da un lato, che al professionista intellettuale si richieda un grado di diligenza minore di quello del debitore generico e, dall’altro, che egli risponda a titolo di responsabilità oggettiva, perché ciò andrebbe a collidere con quel margine irrinunciabile di autonomia che è connaturato col carattere della professione intellettuale.

La Corte di cassazione, infatti, continua a utilizzare la distinzione terminologica tra obbligazioni di mezzi e di risultato, non tanto per sostenerne l’astratta validità, quanto per dare un corretto inquadramento agli obblighi del professionista intellettuale; sotto questo profilo la distinzione può essere utilmente adoperata, purché ne siano chiari i limiti e le finalità.

Costituisce affermazione pacifica in giurisprudenza, ad esempio, ribadita in molte sentenze, che l’obbligazione del professionista intellettuale è di mezzi e non di risultato, in quanto egli, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo. In questi termini deve inquadrarsi anche l’obbligazione del professionista, evitando però di equivocare tra il concetto di risultato e l’obbligo di diligenza qualificata, come potrebbe sostenersi nel caso qui esaminato, quantomeno nel senso che il consulente avrebbe dovuto soddisfare un’obbligazione di risultato consistente nell’addivenire ad un assetto economico efficiente ed efficace del costo del lavoro, perché, in tal caso, si finirebbe per trasformare l’obbligazione di mezzi incautamente in una obbligazione di risultato, con una tendenziale e possibile scivolata nell’ambito di una responsabilità oggettiva.

Conclusioni

La vicenda giudiziaria investe un tema inedito o quasi, ossia la responsabilità professionale del consulente del lavoro (ovvero del soggetto responsabile degli adempimenti di cui alla l. 12/1979, che astrattamente, oltre che nel consulente del lavoro, può identificarsi anche con un avvocato o un commercialista che abbiano adempiuto all’obbligo di comunicazione presso la competente sede dell’Ispettorato del Lavoro) in ordine alla mancata adozione di un contratto collettivo, propendendone per un altro, più economicamente oneroso.

La portata della vicenda è certamente considerevole, atteso che, per effetto di quanto sopra descritto, è stata ritenuta effettivamente sussistente una responsabilità a carico del professionista; tuttavia, al fine di analizzare più correttamente l’estensione di una tale pronuncia (di merito) va osservato che, al di là della prova fornita dall’attrice in ordine alla mancata indicazione, da parte del consulente, sull’alternativa costituita dall’adozione di un contratto collettivo più economico, vi erano ulteriori elementi idonei a suggerire sussistente una sua responsabilità, e cioè: la natura artigiana della società; la sua posizione contributiva; la corrispondenza delle mansioni esercitate dai lavoratori subordinati con quelle previste nel (più conveniente) contratto artigiano; il duplice ruolo (non anomalo, ma nemmeno frequente) del professionista come commercialista e come consulente del lavoro.

In sintesi e in definitiva, sarebbe improbo, sulla base di una sola pronuncia di merito, ritenere che i confini della responsabilità professionale si siano estesi tout court alla scelta del contratto collettivo applicato dal datore di lavoro, continuando a vigere in merito il principio di libertà contrattuale; le sentenze riportate forniscono però significativi spunti di riflessione sulla diligenza richiesta ai professionisti intellettuali e sull’importanza cruciale nella scelta, spesso effettuata all’inizio dell’esercizio dell’attività d’impresa, del contratto da applicare, suscettibile di generare obblighi e diritti nei confronti dei lavoratori.

Articolo a cura di Pasquale Dui e Luigi Beccaria

Profilo Autore

Avvocato - Partner presso DV-LEX DUI VERCESI & PARTNERS Studio Legale - Professore a contratto di diritto del lavoro - Revisore Legale - Giornalista pubblicista

Profilo Autore

Laureato in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, Luigi Antonio Beccaria svolge la professione di avvocato in Milano ed è abilitato alla professione di consulente del lavoro. Da 10 anni svolge attività didattica integrativa presso l'Università degli Studi di Milano. Ha scritto circa 30 contributi su riviste scientifiche o di settore.

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